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Dazi, il ricatto impossibile all’Europa: così Trump riuscirà a proteggere l’immenso debito Usa e il dollaro a nostre spese

Dazi, il ricatto impossibile all’Europa: così Trump riuscirà a proteggere l’immenso debito Usa e il dollaro a nostre spese


di
Federico Fubini

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Trump lamenta la ristrutturazione immobiliare della Fed da 2,5 miliardi di dollari, ma l’effetto dazi potrebbe costare molto di più all’Europa: ecco perché

Donald Trump si lamenta per una ristrutturazione immobiliare della Federal Reserve da 2,5 miliardi di dollari (nella foto sopra, con il capo della banca centrale Jay Powell). Ma questo tipo di mosse può costarci cento volte di più di 2,5 miliardi di dollari. Dico a noi, noi europei: risparmiatori italiani inclusi. Sarebbe molto peggio di qualunque effetto dazi, malgrado l’accordo di domenica sera fra lo stesso Trump e l’Unione europea

Per capire perché vanno fatti alcuni brevi passi indietro su alcuni aspetti: a che punto si trovano gli Stati Uniti sul fronte del debito pubblico; quanto è esposta la zona euro su quel debito; a che scopo Trump stesso vuole sottomettere la Fed; e come tutto questo si inquadra nelle tensioni fra Washington e Bruxelles. Perché fuori dai riflettori, in silenzio, in questi mesi è successo qualcosa che – lo ammetto subito – non mi aspettavo: da gennaio le economie che nelle ultime settimane hanno concluso accordi  con Trump, come quello di domenica sera con Ursula von der Leyen, hanno comprato debito pubblico americano in più per 400 miliardi di dollari. Possibile? Vediamo.




















































Come l’Italia anni ’70

Dall’inizio del secondo mandato, Trump si sta dimostrando profondamente consapevole della grande vulnerabilità americana. Essa riguarda il punto estremo al quale è giunto il ciclo del debito dell’ultimo quarto di secolo. Il governo federale è passato da conti in attivo alla fine dell’amministrazione di Bill Clinton (2001), a un deficit sempre più profondo prodotto ad ogni svolta della storia di questi tre decenni (grafico sopra): la recessione con lo scoppio della bolla di Internet e l’11 settembre, i tagli alle tasse ai ricchi di George W. Bush, il costo delle guerre in Iraq e Afghanistan, la seguente recessione per il crash di Lehman e i costi della crisi bancaria, i tagli alle tasse alle imprese del primo Trump e le spese della recessione da Covid, infine le politiche industriali di Joe Biden e i nuovi tagli alle tasse in gran parte ai ricchi del secondo Trump. 
Ogni situazione straordinaria genera vasti deficit, dopo però il risanamento è sempre parziale, incompiuto, e non si torna mai alla situazione di prima. Ogni volta è sempre un po’ peggio. Ogni ciclo politico o economico diventa un passo in più nel degrado del bilancio. Semplicemente – sotto i repubblicani o i democratici – nella società e nel sistema politico americano oggi non esiste un accordo possibile per andare in direzione opposta. Sui conti pubblici si scaricano tutte le tensioni, tutte le contraddizioni del Paese, come nell’Italia degli anni ’70 e ’80.  

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Due terzi del debito pubblico mondiale

Fino a che anche gli Stati Uniti sono giunti a un punto estremo. Quasi due terzi di tutto il debito pubblico esistente oggi al mondo, in valore, è debito pubblico americano (37 mila miliardi di dollari su 59 mila miliardi). Metà dei titoli emessi per coprire nuovo deficit nel mondo nel 2025 saranno titoli del Tesoro americano. Ma poiché appunto negli Stati Uniti non c’è consenso possibile per risanare i conti, l’amministrazione Trump si pone una domanda diversa: come evitare una crisi di debito senza chiedere sacrifici agli elettori, ai gruppi d’interesse, ai grandi finanziatori dei repubblicani? 
Di qui l’idea di usare i dazi come un’imposta indiretta sugli stranieri (ma in realtà sui consumatori americani). Di qui anche l’idea di diffondere gli stablecoin, perché gli emittenti sono tenuti a investire le loro riserve in titoli di debito americano.
Ma sono tutti stratagemmi parziali, per un Paese ormai così avanti nel suo ciclo di degrado fiscale. Come mostra l’ultimo rapporto dell’Ocse sul debito pubblico nel mondo, gli Stati Uniti hanno di gran lunga la maggiore necessità di rifinanziamento – in proporzione all’economia nazionale – fra le 38 democrazie avanzate del club: l’anno scorso hanno dovuto trovare creditori di loro carta sovrana di nuova emissione per quasi un terzo del loro prodotto lordo (Pil). E il dato non calerà, al contrario (grafico sotto).

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Dopo Israele (che era in guerra) nel 2024 gli Stati Uniti hanno anche il deficit pubblico più alto in proporzione al Pil fra i trentotto Paesi dell’Ocse, malgrado la crescita rapida e la piena occupazione (grafico sotto). Anche qui Trump non potrà che continuare come e più di prima, visti gli oltre tremila miliardi di nuovo debito nel prossimo decennio promessi dal «Big beautiful bill» appena approvato.  

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Inevitabile poi che questo si rifletta sul debito pubblico, da allora diminuito molto in Grecia e Portogallo, calato anche in Spagna, mentre in Italia è salito ancora e in Francia è francamente esploso (il grafico sotto, elaborazione sulla stessa fonte, rappresenta la variazione percentuale dal 2015 del livello del debito/Pil).

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Il bersaglio su Jay Powell

E non sarà semplice trovare sempre investitori in nuovi titoli del Tesoro americano, per una ragione specifica: allo scopo di tenere sotto controllo il costo degli interessi, che sta salendo verso quota mille miliardi di dollari, negli ultimi anni le amministrazioni hanno emesso e venduto sempre più titoli di debito a breve e a brevissimo termine (i cosiddetti “bills”). Il grafico sopra mostra che l’America ha la quota di debito pubblico a breve e brevissimo termine più alta dell’Ocse e quella salita di più negli ultimi cinque anni. In questo la superpotenza è in una situazione un po’ da Paese emergente, che non riesce più a finanziarsi con un piano di lungo respiro. Così va in affanno. Il Tesoro di Washington è costretto a tornare sempre più spesso sul mercato chiedendo quantità immense di denaro agli investitori. Non fosse l’America – con il dollaro, la supremazia tecnologica e quella militare – un Paese del genere sarebbe già saltato.
Neanche per l’America però navigare in acque simili sarà banale o privo di rischi. Di qui l’attacco di Trump a Jay Powell e alla Fed, condotto in un tipico stile da autocrate di un Paese in via di sviluppo. La contestazione dei presunti costi eccessivi del restauro della banca centrale naturalmente è un pretesto per mettere Powell sotto pressione, idealmente per indurlo a dimettersi o almeno spingerlo a concludere qualche tregua con la Casa Bianca che sappia di resa.

È sempre più chiaro che Trump pensa di risolvere il problema americano sopprimendo l’indipendenza della Fed, quantomeno con la nomina di un fedelissimo al suo timone. Al più tardi, questi entrerebbe in carica alla scadenza da maggio 2026. 
Una banca centrale sotto il controllo del potere politico può abbassare i tassi – come chiede il tycoon – anche se la piena occupazione e l’inflazione sospinta dai dazi lo sconsigliano. Ciò ridurrebbe (nell’immediato, almeno) il costo in interessi degli oltre diecimila miliardi di dollari di carta sovrana che il Tesoro americano deve vendere ogni anno. Ciò alimenterebbe anche nuova inflazione negli Stati Uniti, riducendo il valore reale del debito esistente. 
Ray Dalio, il mitico fondatore dello hedge fund Bridgewater, definisce uno scenario simile un default non dichiarato: il Tesoro rimborserà ai creditori la somma promessa come quantità di dollari, ma quei dollari avranno un potere d’acquisto eroso dall’inflazione; gli stessi interessi sui titoli emessi peseranno meno, se l’inflazione nell’economia gonfia le entrate fiscali del governo. Alla peggio la Fed – su ordine di Trump – potrà persino comprare direttamente titoli di Stato.

Le domande sul dollaro e il peso sull’Europa

Per noi italiani sarebbe un ritorno agli anni ’70, per gli americani al decennio 1941-1951 quando la Fed garantiva il debito pubblico durante la Seconda guerra mondiale e la guerra di Corea. Non dico che finirà bene: l’inflazione può andare fuori controllo come in Italia mezzo secolo fa o più di recente come nella Turchia dell’autocrate Recep Tayyip Erdogan; eppure questo ha tutta l’aria di essere il piano di Trump.
Ma noi europei che c’entriamo? C’entriamo, perché in questi ultimi anni abbiamo superato Cina e Giappone ed oggi siamo i principali creditori del governo degli Stati Uniti nel mondo. E non di poco. Solo in Belgio e Lussemburgo si trovano oggi crediti verso gli Stati Uniti per 827 miliardi di dollari, superiori a quelli della Cina. Se si aggiungono Francia (375 miliardi), Irlanda (327) e Germania (102), gli investimenti dall’area euro in debito americano sono una volta e mezzo quelli del Giappone e oltre il doppio di quelli di Pechino. È una stima senz’altro per difetto: molti risparmiatori dell’area euro investono attraverso la Svizzera (303 miliardi) o la Gran Bretagna (756). In sostanza l’area euro – banche centrali, istituzioni finanziarie private, singoli risparmiatori da soli o tramite i fondi – dev’essere esposta sul debito dell’amministrazione Trump fino a duemila miliardi di dollari (su novemila di debito estero).

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La debolezza del dollaro

Non solo. Da gennaio, da quando Trump è entrato in carica e il dollaro ha perso circa il 13% sull’euro, i principali creditori esteri degli Stati Uniti in gran parte non si sono affatto sfilati; al contrario, i dati del Tesoro Usa dicono che a sorpresa hanno comprato ancora più carta emessa dal governo di Donald Trump, nel complesso per circa 400 miliardi di dollari supplementari. Chi lo ha fatto? Non la Cina, che continua la sua lenta, silente ma decisa riduzione del rischio di investimento in titoli americani. Lo hanno fatto soprattutto investitori da Giappone (più 73 miliardi di dollari), Canada (più 80), Francia (più 40) e Belgio (più 37). Coincidono in parte con le economie che hanno cercato in modo più mansueto un accordo commerciale con Trump.

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Non chiedetemi perché, non ho idea. So solo che chi ha comprato ha già perso parecchio, a causa della svalutazione del dollaro. So anche che l’assalto di Trump alla Fed, l’eventuale distruzione della sua indipendenza, non potrà che alimentare nuova svalutazione del dollaro; se il biglietto verde calasse di un altro 10% – ipotesi plausibile, con una banca centrale americana sottomessa – il valore in euro degli investimenti europei in debito americano crollerebbe di valori fino a duecento miliardi. Il primo a pagare rischia di essere Trump, naturalmente, perché anche gli investitori esteri nelle società quotate in America potrebbero innescare nuovi crolli di Wall Street se decidono che restare esposti sul dollaro non è più tanto sicuro.
Non dico che il piano del presidente americano abbia senso. Dico solo che esso sembra proprio profilarsi. E l’assalto alla Fed è un assalto anche a noi europei, che può fare più male dei dazi.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente nella newsletter del Corriere della Sera «Whatever it takes», a cura di Federico Fubini. Per iscriversi, cliccare qui.


28 luglio 2025 ( modifica il 28 luglio 2025 | 12:08)

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