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Turchia: sempre più lontana dalla democrazia? | ISPI


L’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoğlu lo scorso marzo, insieme a decine di persone nell’ambito di un’indagine per corruzione, ha provocato in Turchia le più imponenti manifestazioni antigovernative dai tempi del movimento di Gezi Park nel 2013. Se a oltre un mese di distanza l’ondata di proteste che attraversa le principali città turche sembra avere ridotto la sua portata iniziale, anche a causa della stretta nei confronti dei manifestanti, non è invece scemato il profondo malcontento popolare che ha spinto soprattutto i giovani a scendere in piazza in difesa di Imamoğlu e delle vestigia della democrazia in un Paese che da anni ha intrapreso una virata autoritaria. Nelle proteste è dunque confluito il desiderio di cambiamento politico della generazione nata e cresciuta nell’era del “sultano” Recep Tayyip Erdoğan, unito a un forte senso di frustrazione per quello che appare come un ribaltamento dall’alto del risultato delle urne, tra le espressioni rimaste di un processo democratico da tempo in ritirata nel Paese. Su questo sfondo, “dove sta andando la Turchia” è un interrogativo che è tornato a riecheggiare tanto internamente quanto tra gli osservatori internazionali.  

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Un’offensiva nei confronti dell’opposizione? 

Al di là delle accuse di corruzione, abuso d’ufficio e sostegno al terrorismo (quest’ultima poi venuta meno), l’arresto del popolare sindaco è stato visto come un atto politico, un tentativo di mettere fuori dai giochi la figura oggi più accreditata per sfidare l’intramontabile leadership del presidente Erdoğan, al potere dal 2003. Imamoğlu infatti ha non solo vinto per due tornate consecutive – nel 2019 e nel 2024 – le elezioni amministrative nella megalopoli sul Bosforo, sottraendola al partito di governo grazie a un consenso trasversale che è andato ben oltre la base elettorale del Partito repubblicano del popolo (CHP), ma nei sondaggi risulterebbe anche più popolare dell’attuale presidente, tanto che, con il 57,2% dei voti, sarebbe preferito a Erdoğan (42,7%) in un eventuale secondo turno alle elezioni presidenziali.  

Non sembra dunque essere un caso che l’arresto sia avvenuto a pochi giorni dalle primarie del CHP che lo avrebbero designato candidato del partito alle prossime presidenziali previste per il 2028, come di fatto è poi avvenuto, nonostante l’incarcerazione, grazie a un’ampia mobilitazione popolare (sarebbero 15 milioni i voti raccolti in tutta la Turchia). Il leader della principale forza di opposizione Özgür Özel, che ha definito l’arresto del suo compagno di partito come un vero e proprio “colpo di Stato”, ha infatti avuto buon gioco nel cavalcare l’ondata spontanea di proteste e incanalarla nell’alveo del CHP, che settimanalmente continua a tenere partecipati comizi a Istanbul e nelle altre città turche per mantenere alta l’attenzione sul caso Imamoğlu.  

Proprio il CHP, complice anche il crescente malcontento per la difficile situazione economica del Paese, era riuscito a ottenere una vittoria senza precedenti alle amministrative dello scorso anno, raccogliendo per la prima volta più consensi del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP), dominatore incontrastato del contesto politico turco per oltre vent’anni.  

La riforma costituzionale e la partita curda  

Dopo avere rimodellato la Repubblica di Turchia, trasformandola da parlamentare in presidenziale con la riforma costituzionale del 2017, le sue istituzioni e gli equilibri tra i poteri dello Stato, la leadership turca sembrerebbe adesso volere ridefinire anche il ruolo dell’opposizione attraverso l’azione della magistratura.  

Su questo sfondo, una nuova ondata di arresti a fine aprile ha interessato esponenti della municipalità di Istanbul e stretti collaboratori di Imamoğlu, accusati anch’essi di corruzione. Secondo Özel, la reale motivazione sarebbe legata all’opposizione della municipalità a guida CHP al progetto di costruzione di un canale artificiale dal Mar Nero al Mar di Marmara, il cosiddetto “Kanal Istanbul”, per decongestionare il Bosforo. Sponsorizzato dall’AKP, nonostante di recente il ministro dell’Ambiente Murat Kurum abbia smentito che sia nell’agenda di governo, la costruzione del canale è inviso per il suo elevato impatto ambientale.  

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Se è nell’interesse del partito di governo riprendere la gestione di Istanbul, principale centro economico e finanziario del Paese che contribuisce al 30% del PIL nazionale, la partita politica appare ben più grande e riguarderebbe la riforma della Costituzione del 1982 e con essa il consolidamento del potere del capo dello Stato al di là del limite dei due mandati presidenziali previsti dalla riforma costituzionale entrata in vigore nel 2018. Sembra infatti che Erdoğan, di fatto al terzo mandato essendo stato eletto per la prima volta nel 2014 dall’Assemblea nazionale, punterebbe a rimanere in carica per altri cinque anni dopo il 2028. Tuttavia, il suo partito non ha, neanche con il sostegno del suo alleato, il Partito del movimento nazionalista (MHP), i numeri necessari in parlamento – 360 voti su 600 – per procedere direttamente a una riforma costituzionale o per sottoporla a referendum, come avvenuto nel 2017.  

Anche nell’ottica di riconquistare il sostegno dei curdi nel più ampio quadro di riforma della Costituzione sembra inserirsi, secondo molti osservatori, la cosiddetta “terror-free initiative” promossa lo scorso ottobre dal leader del MHP Devlet Bahçeli per la soluzione dell’annosa questione curda. La riconciliazione con la componente curda della popolazione (stimata tra il 15% e il 20% del totale) potrebbe infatti consentire a Erdoğan e al suo partito di riguadagnare consensi presso quello che è stato un tradizionale bacino elettorale dell’AKP nei primi mandati di governo fino al 2015, quando è ripreso lo scontro armato tra lo Stato turco e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) dopo che quest’ultimo ha interrotto la tregua unilaterale proclamata un paio di anni prima. Riguadagnare il favore dei curdi servirebbe, da un lato, a ottenere il supporto del filo-curdo Partito dell’uguaglianza e della democrazia dei popoli (DEM) per raggiungere in seno all’Assemblea nazionale la maggioranza qualificata per portare avanti la riforma della Costituzione, incluso il limite dei due mandati presidenziali; dall’altro, a rompere quel sostegno al CHP che per ben due volte ha contribuito alla vittoria di Imamoğlu a Istanbul e che in prospettiva potrebbe portarlo a raggiungere altri più importanti traguardi. 

Il dialogo condotto dal DEM con il fondatore del PKK, in prigione dal 1999, è sfociato alla fine di febbraio nello storico appello con cui Abdullah Öcalan ha esortato l’organizzazione a deporre le armi e a sciogliersi. Se in risposta il PKK ha prontamente dichiarato il cessate il fuoco e mostrato apertura verso le richieste di Öcalan, ponendo però la liberazione del leader curdo come condizione per la convocazione del congresso che dovrà decidere del suo scioglimento e mettere fine a quarant’anni di scontro con lo Stato turco, manca ancora una chiara roadmap del processo di pace. Inoltre, c’è incertezza su quali saranno le tappe del percorso di smantellamento del PKK che in Turchia, Unione europea (UE) e Stati Uniti è considerato organizzazione terroristica. L’apertura del dialogo con i curdi non ha tuttavia fermato le operazioni militari turche contro basi e postazioni del PKK, soprattutto nel nord dell’Iraq, né il giro di vite nei confronti di amministratori locali curdi, molti dei quali negli anni sono stati rimossi dai loro incarichi con l’accusa di svolgere o sostenere attività terroristiche e sostituiti con commissari di nomina governativa. Tuttavia, nonostante l’incontro di Erdoğan con una delegazione del DEM a inizio aprile abbia segnato un passo significativo – da tredici anni il presidente non incontrava esponenti di formazioni curde –, sembra scemare l’entusiasmo iniziale della comunità curda di fronte a un processo che stenta a decollare. 

Quali implicazioni economiche? 

L’incertezza politica ha avuto inevitabili ripercussioni anche sul piano economico. Nell’immediato la lira ha perso l’11% del suo valore rispetto al dollaro tanto che è stato necessario un intervento della banca centrale a sostegno della valuta nazionale. Solo nei primi giorni dopo l’arresto di Imamoğlu l’autorità monetaria avrebbe utilizzato 11,5 miliardi di dollari di riserve di valuta estera per stabilizzare la moneta turca, saliti a 45 miliardi di dollari alla metà di aprile. Se l’istituto è riuscito a stabilizzare la lira a circa 38 lire turche per un dollaro, ciò si è fatto a scapito di un calo delle riserve valutarie.  

Una lira debole e un tasso di inflazione che rimane ancora troppo elevato – a febbraio l’inflazione si è attestata al di sotto del 40% per la prima volta in quasi due anni ed è scesa al 38% a marzo – continuano a essere le criticità più evidenti dell’economia turca e tra le cause principali del profondo malessere sociale in ampi strati della popolazione. A fatica l’economia del Paese sta cercando di risollevarsi, dopo anni di crisi, grazie alla svolta impressa dal ministro del Tesoro e delle Finanze Mehmet Şimşek dal suo insediamento nel 2023 con il ritorno all’ortodossia economica con una politica monetaria e fiscale più restrittiva. Se l’attuazione del programma di stabilizzazione economica subisce inevitabilmente gli effetti degli sviluppi politici interni, Şimşek ha rassicurato gli investitori internazionali, preoccupati di una eventuale inversione di tendenza del corso economico e della possibilità di una rinnovata intromissione del presidente nelle questioni economiche, ma anche i risparmiatori turchi sull’uso di tutti gli strumenti disponibili per mitigare quella che ha definito una temporanea volatilità del mercato. Nelle settimane successive alla detenzione di Imamoğlu, i risparmiatori turchi hanno spostato più fondi in attività denominate in valuta estera, i conti bancari in valuta estera di privati e aziende sono aumentati di quasi 9 miliardi di dollari, mentre gli investitori esteri di portafoglio hanno venduto circa 6 miliardi di dollari di azioni e obbligazioni turche.  

Tra le misure d’emergenza adottate vi è l’aumento del tasso d’interesse ufficiale dal 42,5% al 46%, in controtendenza rispetto ai tagli dei mesi precedenti. Lo scorso dicembre, infatti, la banca centrale aveva proceduto a un primo taglio di 250 punti base – portando il tasso d’interesse al 47,5% per la prima volta da febbraio 2024 quando era stato aumentato al 50% – in considerazione del progressivo calo dell’inflazione negli ultimi mesi dell’anno. A dicembre il tasso di inflazione si era attestato al 44,38%, valore che sebbene elevato rappresentava una flessione significativa rispetto al picco annuale del 75,5% registrato nel maggio del 2024. Tuttavia, nonostante il pronto intervento della banca centrale e le rassicurazioni del ministro delle Finanze, in questa fase la cautela sembra prevalere tra gli investitori internazionali, che rimangono prudenti nel ritornare sui mercati in considerazione del fatto che eventuali sviluppi politici interni potrebbero avere ulteriori contraccolpi sulla valuta turca. Verosimilmente questa cautela prevarrà finché perdurerà l’instabilità a livello politico. 

Dove va la Turchia? 

Se la Turchia si trova indubbiamente a punto di svolta, non è del tutto chiaro a cosa porteranno gli eventi recenti e la forte stretta nei confronti dell’opposizione. Il timore nel Paese è che l’autoritarismo competitivo, così come in molti definiscono l’attuale sistema turco, possa assumere dei connotati che portino la Turchia sempre più vicino alla Russia di Vladimir Putin e distante dai Paesi europei. Proprio la lontananza dagli standard europei in materia di democrazia, diritti e libertà è una delle ragioni che ha fatto arenare il processo di integrazione di Ankara nell’UE. Tuttavia, se l’adesione non è sul tavolo ormai da tempo, nonostante da parte turca l’obiettivo europeo venga di tanto in tanto rispolverato, la Turchia rimane un partner strategico per l’UE e i suoi Stati membri in ambiti cruciali: dall’economia alle migrazioni e non da ultimo alla difesa. Ma che tipo di partner in prospettiva sarebbe in mancanza di solide basi democratiche è un interrogativo che non molti nelle cancellerie europee al momento sembrano porsi. 



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