Con il Decreto dell’8 agosto 2025, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha definito le regole applicative dell’IRES premiale, agevolazione introdotta dalla Legge di Bilancio 2025 e valida esclusivamente per il periodo d’imposta 2025, in attesa dell’attuazione della più ampia riforma fiscale prevista dalla delega governativa.
La misura, che consiste in una riduzione di 4 punti percentuali dell’aliquota Ires applicabile al reddito imponibile 2025, è riconosciuta se sono soddisfatte tre condizioni:
- accantonamento di almeno l’80% dell’utile 2024;
- effettuazione di investimenti 4.0 o 5.0;
- incremento occupazionale nel 2025 senza ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni.
La disciplina agevolativa presenta alcune distorsioni che, se non affrontate con interventi correttivi organici e accompagnate da una stabilizzazione della misura, rischiano di limitarne l’efficacia.
Un decreto attuativo arrivato troppo tardi
La prima criticità riguarda il ritardo nella pubblicazione delle regole operative.
Una delle condizioni per accedere all’IRES premiale è l’accantonamento di almeno l’80% dell’utile 2024, ma le istruzioni del MEF sono arrivate solo l’8 agosto 2025, quando la maggior parte delle imprese aveva già approvato i bilanci e deliberato la destinazione degli utili. Questo ritardo ha reso inaccessibile l’agevolazione per le imprese che, in assenza di indicazioni chiare, hanno adottato politiche di distribuzione degli utili non in linea con le disposizioni del Decreto.
Ma il problema non riguarda solo chi ha distribuito utili. Il Decreto avrebbe potuto – e dovuto – prevedere modalità alternative di accesso per le imprese che, pur avendo chiuso il 2024 in perdita e quindi non disponendo di utili da accantonare, hanno comunque rafforzato il proprio patrimonio attraverso conferimenti dei soci o vincoli su riserve pregresse. L’esclusione di queste casistiche appare incoerente con la ratio della misura, che è quella di premiare il rafforzamento patrimoniale e la propensione all’investimento, indipendentemente dalla contingenza reddituale di un singolo esercizio.
Una misura premiale che si fonda su scelte retroattive e che non tiene conto di comportamenti virtuosi alternativi rischia di perdere la sua efficacia.
Un tetto all’agevolazione non previsto dalla norma primaria
Il Decreto ha introdotto – in modo implicito – un tetto al beneficio fiscale, stabilendo che la minore imposta derivante dalla riduzione dell’aliquota IRES al 20% spetta nel limite del costo degli investimenti 4.0/5.0 rimasto a carico dell’impresa. Questo tetto all’agevolazione, non previsto dalla norma primaria, è stato inserito nell’articolo 12 del Decreto, dedicato formalmente al cumulo con altri incentivi, introducendo di fatto una modifica sostanziale.
Il funzionamento del massimale può essere chiarito con un esempio: una società con un reddito imponibile 2025 pari a 1 milione di euro potrebbe teoricamente ottenere un risparmio fiscale di 40.000 euro (4% x 1 milione). Tuttavia, se ha effettuato investimenti 4.0 o 5.0 per soli 30.000 euro, il beneficio fruibile si ferma a tale importo, e pertanto l’aliquota ridotta potrà applicarsi solo su 750.000 euro (30.000/4%), mentre i restanti 250.000 sconteranno l’aliquota ordinaria del 24%.
Sebbene il limite diventi rilevante solo in presenza di un rapporto molto elevato tra reddito imponibile e investimenti (il limite scatta quando il risparmio fiscale supera l’investimento, cioè se il 4% del reddito è maggiore dell’investimento, ovvero quando il reddito è almeno 25 volte l’investimento), la gravità dell’intervento resta: il Decreto introduce una condizione sostanziale che altera l’impianto originario della norma. Quest’ultima prevede gli investimenti, l’accantonamento degli utili e l’incremento occupazionale come requisiti di accesso all’Ires premiale, senza stabilire alcuna correlazione quantitativa tra il beneficio fiscale e l’ammontare delle singole voci.
L’introduzione ex post di un massimale, per di più non chiaramente definito nei criteri applicativi, rischia di tradire il legittimo affidamento delle imprese, che hanno pianificato investimenti e strategie fiscali sulla base della norma primaria. Questo genera incertezza normativa e compromette la fiducia degli operatori economici.
Penalizzate le imprese in perdita nel 2025 e quelle con utili 2023 anomali
Il Decreto non ha risolto alcune distorsioni strutturali della disciplina dell’IRES premiale, già evidenziate in dottrina, che penalizzano imprese virtuose ma con situazioni contabili o reddituali non standard. Due casi emblematici sono le imprese che chiudono il 2025 in perdita e quelle che nel 2023 hanno registrato utili eccezionalmente elevati.
Partiamo dal primo caso. L’Ires premiale si applica solo in presenza di un reddito imponibile nel 2025. Sono quindi escluse le imprese che, pur avendo rispettato tutte le condizioni di accesso (accantonamento dell’utile 2024, investimenti qualificati, incremento occupazionale), chiudono l’esercizio 2025 in perdita. Non è previsto alcun meccanismo di riporto del beneficio non fruito, né una forma di “congelamento” del diritto all’agevolazione. Questo approccio è tecnicamente discutibile: misure analoghe (es. la vecchia ACE o i crediti d’imposta per gli investimenti in beni strumentali) prevedono sempre la possibilità di riportare il beneficio agli esercizi successivi, proprio per evitare che la loro fruizione sia condizionata da una singola contingenza reddituale.
Una soluzione equa e tecnicamente sostenibile sarebbe quella di rendere strutturale l’agevolazione e consentire qualche forma di riporto in avanti dell’agevolazione.
Venendo al secondo caso, la norma impone che l’investimento minimo sia pari al maggiore tra il 30% dell’utile 2024 accantonato e il 24% dell’utile 2023 (con un minimo di 20.000 euro). Il riferimento all’utile 2023 è stato introdotto come parametro oggettivo per evitare manipolazioni contabili sull’utile 2024 (ad esempio, il rinvio di componenti positivi o l’anticipazione di costi) al fine di abbassare artificiosamente la soglia degli investimenti richiesti. Tuttavia, questo correttivo, pur comprensibile nelle intenzioni, produce effetti distorsivi: penalizza le imprese che nel 2023 hanno registrato utili elevati, solo per eventi non ricorrenti (operazioni straordinarie, rivalutazioni, dismissioni). In questi casi, l’investimento richiesto per accedere all’agevolazione può risultare sproporzionato rispetto alla reale capacità operativa dell’impresa nel 2025, rendendo di fatto inaccessibile il beneficio.
Questo genera una disparità di trattamento tra imprese con utili stabili e imprese con utili variabili, in contrasto con i principi di equità e proporzionalità.
Per risolvere il problema, si potrebbe introdurre un meccanismo di normalizzazione dell’utile 2023 (ad esempio tramite l’esclusione di componenti straordinarie) oppure l’adozione di un parametro pluriennale.
Inoltre, va sottolineato che non è prevista alcuna valorizzazione dell’investimento 4.0 o 5.0 eccedente rispetto al minimo richiesto, né dell’incremento occupazionale superiore alla soglia dell’1%. L’assenza di un meccanismo di riporto o di premialità aggiuntiva disincentiva comportamenti virtuosi oltre il minimo richiesto, riducendo l’efficacia incentivante della misura.
Anche in questo caso una soluzione sarebbe quella di rendere strutturale l’agevolazione e prevedere la possibilità di riporto in avanti dei parametri in eccesso.
L’incremento occupazionale e il nodo della CIG
Merita una riflessione conclusiva la condizione di accesso relativa alla stabilità occupazionale triennale e all’assenza di ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni.
Sul primo punto, è senz’altro apprezzabile la scelta normativa di non considerare rilevanti – ai fini della verifica della condizione – le cessazioni del rapporto di lavoro dovute a dimissioni volontarie, invalidità, pensionamento per raggiunti limiti di età, riduzione volontaria dell’orario e licenziamento per giusta causa. Si tratta di una previsione di buon senso, che evita di penalizzare le imprese per uscite “fisiologiche” non imputabili alla loro volontà. Sarebbe stato auspicabile un analogo approccio anche nella disciplina della Super deduzione per le nuove assunzioni (D.Lgs. 216/2023, art. 4). Resta tuttavia da chiarire il significato preciso dell’espressione “pensionamento per raggiunti limiti di età” e se essa – come sarebbe opportuno – possa ricomprendere anche i casi di pensionamento anticipato per anzianità contributiva.
Venendo alla previsione relativa all’assenza di CIG (D.Lgs. 148/2015) negli anni 2024 e 2025, il Decreto ammette al beneficio solo le imprese che hanno utilizzato l’ammortizzatore sociale per eventi transitori e non imputabili all’azienda o ai dipendenti (art. 11, lett. a), escludendo invece quelle che vi hanno fatto ricorso per gestire situazioni temporanee di mercato (art. 11, lett. b).
Questa disposizione rischia di escludere dall’agevolazione molte imprese virtuose, che rispettano pienamente gli obiettivi della misura in termini di investimenti e occupazione, ma che si sono trovate a fronteggiare difficoltà operative temporanee derivanti da fattori esterni, come l’inasprimento delle politiche commerciali internazionali. Su questo punto, è auspicabile un chiarimento da parte degli organi competenti, al fine di garantire un’applicazione equa e coerente della misura.
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