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Dal private banking 168 miliardi di investimenti in economia reale


Il private banking può guidare gli investitori e favorire gli investimenti in economia reale. Infatti, la ricchezza finanziaria investibile delle famiglie è di 3.700 miliardi di euro, di cui 256 miliardi di euro investiti in economia reale. Tra essi, 168 miliardi provengono dalle famiglie servite dal private banking. Inoltre, solo 11 miliardi di euro sono investiti nei private market, di cui 10,9 miliardi provenienti dalla famiglie servite dal private banking. Questi i dati principali illustrati stamane da Andrea Ragaini (in foto, a sinistra), presidente di Aipb (Associazione italiana private banking), in occasione dell’evento “Private banking: il ruolo del risparmio privato per la crescita del Paese”, organizzato a Milano da Aipb in collaborazione con Intermonte e il Politecnico di Milano.

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I DATI SUL CONTRIBUTO DEL PRIVATE BANKING ALL’ECONOMIA REALE

Per le imprese italiane, oggi, crescere è difficile. Gli ultimi anni – contraddistinti da pandemia, tensioni geopolitiche e rialzo dei tassi – hanno lasciato il segno: di qui ai prossimi 36 mesi solo l’8% degli imprenditori vede prospettive di forte sviluppo, mentre la fiducia del settore manifatturiero rimane debole.

La pianificazione è spesso limitata al breve periodo (annuale per due imprenditori su tre) e i fattori di crescita restano prevalentemente organici – buona gestione delle risorse e controllo dei costi (50%) – mentre ricerca, innovazione (22%) e operazioni societarie straordinarie (6%) contribuiscono in misura marginale.

Per crescere servono gli investimenti, ma il 95% delle imprese ricorre a finanziamenti tradizionali (prestiti bancari, autofinanziamento). Il motivo principale è l’ignoranza degli imprenditori sugli altri strumenti di finanziamento alternativi. “Le fonti di finanziamento tradizionali sono idonee per una gestione ordinaria, ma non sufficienti per sostenere grandi progetti di innovazione e salto dimensionale. Strumenti evoluti, come club deal, private equity, venture capital o minibond sono poco noti: rispettivamente, il 69%, il 55%, il 54 e il 48% degli imprenditori non li conosce”, afferma Ragaini.

In questo scenario, il private banking gioca un ruolo di ponte tra risparmio privato e finanziamento dell’economia reale. Si tratta di un ruolo duplice: da una parte è in grado di sostenere gli imprenditori nell’attuare strategie di crescita di lungo periodo e, dall’altra, guida gli investitori nelle proprie scelte d’investimento.

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Il segmento gode infatti oggi di un punto di contatto privilegiato con gli imprenditori, in quanto il 23% dei clienti private (che pesano per il 30% delle masse) è costituito proprio da imprenditori alla guida (nell’84% dei casi) di aziende molto piccole. La relazione tra questi e il proprio private banker è caratterizzata da fiducia (97% degli imprenditori dichiara di fidarsi della propria banca), continuità (durata media della relazione di 11 anni) e intensità (14 incontri annui), con effetti positivi anche sul piano della conoscenza finanziaria: l’81% degli imprenditori riconosce che proprio il rapporto con il private banker ha portato un accrescimento del loro bagaglio di competenze.

Dal lato degli investitori, il private banking indirizza in modo più efficiente il risparmio: i clienti private hanno destinato 1.095 miliardi di euro ad investimenti (circa la metà del totale della ricchezza finanziaria investita), livelli di liquidità contenuti (13% contro il 50%) e una quota di titoli azionari superiori a quella delle altre famiglie azionarie (30% contro 10%).

L’industria private facilita l’incontro tra risparmio ed economia reale, distinguendosi rispetto al resto del sistema nell’allocazione delle risorse, come testimonia l’ottavo Quaderno di ricerca Intermonte. A fine 2024, lo stock investito nell’economia reale italiana dal segmento ammonta a 168 miliardi di euro, in crescita del 39% sul 2018. Nel dettaglio, gli investimenti diretti ammontano a 51 miliardi, mentre gli indiretti a 117 miliardi. Nei primi troviamo titoli all’interno dei dossier in amministrato (14 miliardi) e all’interno delle gestioni patrimoniali e le quote di Oicr riconducibili all’economia reale italiana (37 miliardi), mentre in quelli indiretti vi è il risparmio delle famiglie detenuto presso gli intermediari (liquidità), che a sua volta viene investito, contribuendo al finanziamento delle imprese italiane.

La propensione a sostenere le imprese italiane del private banking, contribuendo allo sviluppo del mercato dei capitali, è evidente: dei circa 40 miliardi di azioni quotate detenute dalle famiglie, 33 miliardi si trovano nei portafogli private.

Nel caso dei mercati non quotati, la cifra è più piccola ma il contributo del private è maggiore, poiché degli 11 miliardi di euro investiti in private market italiani circa la totalità è presente nei portafogli della clientela di private banking.

Secondo la ricerca di Politecnico di Milano e Intermonte, tra il 2018 e il 2024 le banche hanno ridotto la loro esposizione all’economia reale di 100 miliardi di euro per un calo dei prestiti alle imprese, che però non hanno cercato molti finanziamenti alternativi, come dimostra il fatto che il mercato dei minibond valga solo 1 miliardo di euro l’anno. Per Giancarlo Giudici, professore ordinario alla School of Management del Politecnico di Milano, “il tema vero è convincere le imprese a investire. L’incremento del valore delle risorse investite in economia reale è dovuto a una maggiore patrimonializzazione delle imprese non quotate. Parallelamente, è salita la liquidità improduttiva sui conti e abbiamo un potenziale ancora inespresso di obbligazioni corporate. Inoltre, gli intermediari hanno investito soprattutto nel debito pubblico”.

Secondo lo studio, a fine 2024, le famiglie italiane avevano investito, complessivamente, 1.577 miliardi di euro nell’economia reale: il 20% in più del 2018, ma tale crescita è dovuta quasi esclusivamente all’effetto rivalutazione di mercato delle quote societarie. I flussi restano limitati e la preferenza si indirizza verso forme di investimento alternative, come il debito pubblico e gli investimenti esteri. Rimane invece significativa la quota di ricchezza in liquidità (1.593,5 miliardi di euro), mentre crescono le obbligazioni (+76%) soprattutto titoli di Stato e bancari, insieme a una forte crescita delle obbligazioni estere. Gli intermediari, invece, hanno privilegiato i titoli di Stato, riducendo parallelamente gli impieghi verso le imprese produttive: i prestiti bancari alle aziende risultano infatti in calo del 13%.

I COMMENTI

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Nel suo intervento introduttivo, Federico Freni, sottosegretario del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha dichiarato: “Il contributo del private banking alla crescita del Paese è sempre più centrale e strategico: non esiste uno sviluppo dell’economia reale che non veda andare di pari passo investitori istituzionali, capitali regolamentati e, appunto, il private banking. I dati ci dicono che il private ha un ruolo cruciale per le piccole e medie imprese, la spina dorsale del nostro sistema produttivo. Occorre proseguire su questa strada incentivando la cultura dell’intercambiabilità tra il risparmio privato e il mercato regolamentato: solo così, infatti, potremo offrire al Paese nuove ed importanti opportunità di sviluppo”. Freni ha anche avvertito che le regole, come il nuovo Tuf (Testo unico della finanza), non servono senza un approccio culturale da parte di tutti (governo, operatori secondari, operatori di mercato) che permetta di lavorare tutti con lo stesso spirito.

Guglielmo Manetti (in foto, a destra), amministratore delegato Intermonte, ha commentato: “Abbiamo un saldo netto negativo di 12 società uscite dalla borsa e un saldo tecnico negativo di quasi 14 miliardi tra raccolta e uscite dalla borsa. Un mercato dei capitali funzionante è la condizione necessaria per trasformare il risparmio privato in sviluppo economico. Le aziende hanno bisogno di diversificare le fonti di finanziamento, superando la dipendenza dal solo canale bancario. In questo senso, ci auguriamo che il Fondo Nazionale Strategico, il cui lancio è atteso entro la fine dell’anno, possa agire da volano per attrarre il risparmio privato e convogliarlo verso il segmento delle piccole e medie imprese quotate. Anche i Pir hanno dimostrato di essere una fonte di liquidità fondamentale per il mondo delle mid-small cap, un esperimento che ha funzionato molto bene e che conserva un forte potenziale, pur richiedendo incentivi capaci di premiare la permanenza degli investitori”.

Angelo Viganò, responsabile della divisione private banking di Mediobanca, ha chiarito: “L’investitore di private banking è smart, per cui vuole guadagnare oltre che investire, altrimenti opta per altri strumenti o paesi. Serve un mercato più efficace e dinamico delle quotazioni, mentre ad oggi i delisting avvengono a prezzi pari alla metà di quelli di quotazione. Il private banker suggerisce agli imprenditori più il private equity per crescere perché ha migliori valutazioni delle ipo, ma poi i fondi hanno il problema delle exit perché non ci sono le quotazioni”.

Ugo Loeser, amministratore delegato di Arca Fondi sgr, ha evidenziato che a diverse modalità di crescita in Usa ed Ue corrispondono diversi investimenti. “In Usa la previdenza investe nell’azionario, mentre in Europa il risparmio è canalizzato sulle banche e creati dei fondi sovrani come Cdp. Questa tradizione degli ultimi 50 anni non si ribalta con un incentivo fiscale. Serve sviluppare la previdenza complementare, i cui investimenti sono bloccati dalla normativa, ad esempio l’obbligo di rendita vitalizia, che impone alle casse di previdenza di investire in Btp. La normativa deve lavorare sulla domanda, creandone una profondità, in modo che si investa in borsa. Ad oggi la quotazione per le aziende è solo un costo, per cui assistiamo all’ondata di delisting in atto”.

Infine Alessandro Melzi D’Eril, amministratore delegato di Anima Holding e Anima sgr, ha ricordato che “i Pir avevano un ottimo incentivo fiscale, che ha funzionato finché la normativa non ha imposto l’obbligo di inserirci anche il venture capital, bloccando gli investimenti”. Per favorire gli investimenti in borsa a suo avviso è importante la ricerca sulle società quotate. “Tuttavia, la Mifid 2 ha separato i costi della ricerca, causando una sua implosione per tutte le pmi, ossia la maggioranza delle aziende italiane. Ora le aziende devono pagare le ricerche, se vogliono che ci siano, e in Ue stanno cercando di ritornare alla normativa precedente, alla luce dei guasti creati”, ha concluso.



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