Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Carte bollate, imprese bollite – Economy Magazine


Se negli uffici pubblici italiani il tempo sembra fermarsi tra pile di pratiche, attese infinite e documenti da compilare (molti ancora a mano), qualcosa inizia finalmente a muoversi. Il 4 agosto il Consiglio dei Ministri ha acceso un faro sulla burocrazia con l’approvazione del nuovo disegno di legge “Semplificazioni per le imprese”, promettendo di ridurre oltre 600 procedure entro il 2026 e di introdurre la regola “once only”: le amministrazioni, finalmente, non potranno più chiedere le stesse informazioni a chi le ha già fornite altrove.

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

«Proseguiamo nel percorso di modernizzazione della Pubblica amministrazione. Continueremo a lavorare per costruire un’amministrazione più semplice, efficiente e vicina a chi vive e lavora in questo Paese», ha dichiarato il Ministro Paolo Zangrillo proprio in occasione del varo del provvedimento.

Eppure la realtà, fotografata dalla Cgia di Mestre a maggio 2025, resta severa: la burocrazia continua a costare al Paese 80 miliardi di euro l’anno, con micro e piccole imprese costrette a destreggiarsi tra norme, moduli e attese che rallentano investimenti e crescita. 

Ma come si arriva a calcolare questi 80 miliardi di euro? Facile: ogni ora passata a compilare un modulo, ogni dipendente sottratto alla produzione per rincorrere una firma o una marca da bollo, ogni coda agli sportelli pubblici è un investimento a perdere.

In Italia, il 24% delle imprese impiega oltre il 10% del proprio personale solo per adempiere agli obblighi normativi… un record europeo, visto che la media UE si ferma al 17%, mentre la rigorosissima Germania si accontenta di un modesto 11%. Insomma: in Italia la burocrazia è lo sport nazionale. 

La tassa occulta

Anche The European House – Ambrosetti, nel suo rapporto 2023, aveva provato a fare una stima: quella sugli oneri burocratici a carico delle imprese italiane, che raggiungerebbero i 57,2 miliardi di euro all’anno, pari al 3,3% del Pil.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

E ancora: secondo l’Osservatorio sulla Semplificazione di Assolombarda (dati 2015, ma ancora attualissimi, anche perché nessuno ha avuto il coraggio di aggiornarli), una piccola impresa spende in media 108.000 euro all’anno solo per adempiere agli obblighi burocratici, mentre una media impresa arriva a 710.000 euro. 

Non è solo questione di soldi, ma anche di tempo: provate a chiedere a chi ogni anno deve dedicare tra 45 e 190 giorni lavorativi di una persona solo per la burocrazia. Sempre secondo Assolombarda, una micro o piccola impresa dedica in media 313 ore all’anno – quasi due mesi lavorativi – solo agli adempimenti amministrativi.

E il costo medio? 9.210 euro a impresa, ogni anno. Non stupisce che, stando ai dati raccolti da Cgia e Ambrosetti, il 30,8% delle Pmi abbia rinunciato ad assumere nuovo personale a causa della burocrazia, il 26,6% abbia abbandonato progetti di innovazione, il 25,5% gli investimenti.

Come se non bastasse, la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione – la panacea di tutti i mali – arranca: l’Italia è solo al 20° posto in Europa per servizi pubblici digitali, e addirittura fanalino di coda per l’utilizzo dei servizi di eGovernment.

Il risultato? File chilometriche agli sportelli, tempi biblici per ottenere permessi e autorizzazioni (siamo tra i peggiori d’Europa anche qui), e una produttività che si sgonfia come un soufflé mal riuscito: negli ultimi anni, la produttività in Italia ha mostrato una dinamica complessa e, nel complesso, deludente: tra il 2000 e il 2024 il Pil per occupato è calato del 5,8%, mentre nello stesso periodo Paesi come Francia, Germania e Spagna hanno visto crescite fra l’11% e il 12%. 

Secondo le stime più aggiornate, l’indice della produttività in Italia ha mediato circa 98,85 punti nel primo trimestre 2025, lontano dai massimi raggiunti durante le particolari condizioni della pandemia nel 2020 (107,32 punti).

E allora, perché non cambiare? Bella domanda. I confronti internazionali non lasciano scampo: secondo Confartigianato, l’Italia è prima tra i 27 Paesi UE per pressione burocratica sulle imprese, con un indice di 75,5 punti su 100, davanti a Grecia, Francia e Romania, e ben distante da Spagna e Germania. E, come se non bastasse, siamo anche penultimi per fiducia nella Pubblica Amministrazione: una specie di doppietta da record, ma di quelli che nessuno vorrebbe mai vantare.

A livello legislativo, poi, c’è da mettersi le mani nei capelli: Tommaso Giommoni, Luigi Guiso, Claudio Michelacci e Massimo Morelli, economisti che collaborano con istituzioni come la Scuola Normale Superiore, Eief e la Bocconi, stimano che la scarsa chiarezza delle leggi italiane costi all’economia nazionale circa 110 miliardi di euro all’anno, equivalenti a quasi il 5% del Pil.

Microcredito

per le aziende

 

Analizzando oltre 75.000 testi legislativi, gli autori rilevano che l’85% delle frasi nei testi di legge supera le 25 parole e ogni cento parole sono presenti oltre quattro rimandi ad altri testi normativi, generando una complessità che compromette la chiarezza e aumenta l’incertezza giuridica. Secondo la loro ricerca, quando le norme sono scritte in modo particolarmente poco chiaro (ossia nel 10% peggiore delle leggi esaminate), la probabilità che la Corte di Cassazione ribalti una sentenza di merito sale al 36%, contro il 24% associato alle norme più comprensibili.

Questa incertezza ha effetti concreti sull’economia: un aumento di una deviazione standard nell’incertezza normativa riduce del 1,2% la crescita annuale delle imprese e dell’1,3% i loro investimenti. Quasi due terzi di questi costi sono emersi negli ultimi trent’anni, a causa del progressivo degrado della qualità della scrittura legislativa italiana.

Per non parlare (ma ne parliamo) del carico legislativo da smaltire: al 28 giugno 2025, i decreti attuativi ancora in attesa di adozione erano ancora a quota 535, contro i 555 di fine primo trimestre. Di questo passo, 20 decreti ogni trimestre, ci vorranno circa 7 anni per smaltire il lavoro. E in questi 7 anni chissà quanti atti andranno fuori tempo massimo: per ora sono già 156).

E se il monitoraggio, coordinato dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giovambattista Fazzolari, evidenzia come il tasso di adozione, al 63,7%, abbia raggiunto il valore massimo dall’inizio della legislatura, segnalando un impegno costante nell’attuazione di riforme e strategie, il Parlamento non sembra mantenere lo stesso passo: tra aprile e giugno sono stati sbloccati meno di 40 testi, saliti poi a 62 con gli aggiustamenti parlamentari. 

Danni collaterali

C’è di più: la burocrazia non è solo un fastidio quotidiano, ma un vero deterrente per gli investitori stranieri. Secondo l’Aibe (Associazione italiana banche estere) è il principale fattore che scoraggia chi vorrebbe portare capitali freschi nel Belpaese.

E i danni non si fermano qui: i ritardi nella realizzazione delle opere pubbliche, dovuti all’intreccio di procedure e passaggi amministrativi, pesano per oltre il 54% sui tempi complessivi dei cantieri, con punte che sfiorano il 61% in regioni come la Sicilia.

«Il mondo ha accelerato, ma la pubblica amministrazione è rimasta un’utilitaria: continua a muoversi alla velocità di 10 o 15 anni fa», spiega a Economy Giovanni Valotti, professore ordinario di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche presso l’Università Bocconi, che sul tema della burocrazia si è speso, negli anni, con libri, articoli, analisi e conferenze. «Poiché questa velocità è destinata ad aumentare ulteriormente, il rischio è che il divario tra settore pubblico e realtà esterna si ampli ancora di più».

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

Le cause di questa lentezza? «Innanzitutto, vi è una moltitudine di adempimenti richiesti a imprese e cittadini per qualsiasi esigenza. Recentemente, Sabino Cassese ha sottolineato come per aprire una gelateria siano necessari ben 72 adempimenti. Se per una gelateria servono 72 documenti, si può facilmente immaginare cosa comporti aprire un’impresa: esiste una ridondanza di adempimenti formali di varia natura.

A ciò si aggiunge una notevole incertezza sui tempi. Ho condotto recentemente una ricerca sui temi della transizione energetica e del passaggio dal fossile al fotovoltaico. Mentre il Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e per il clima) indica la necessità di passare al fotovoltaico, se si osservano i tempi delle autorizzazioni per realizzare un parco fotovoltaico o eolico in Italia, quelli previsti sono di qualche mese, mentre quelli effettivi si protraggono per diversi anni. Tra questi fattori vi sono la burocrazia, il contenzioso, le opposizioni locali ricorrenti dei cittadini, il cosiddetto effetto Nimby… Tutto ciò genera una grande incertezza».

Fosse solo questo. «In generale, vi è una scarsa responsabilizzazione sui risultati da parte di chi gestisce queste pratiche», aggiunge Valotti: «l’intero sistema si concentra maggiormente sulla correttezza formale dei procedimenti e meno sull’efficienza, ovvero sulla rapidità delle procedure. Non vi sono incentivi per un dipendente pubblico a svolgere le attività più rapidamente. Inoltre, quando si verifica o potrebbe verificarsi un evento negativo, emerge il fenomeno della sottrazione alla firma. E un’amministrazione difensiva, con un forte peso attribuito alla responsabilità formale,  non è bilanciata da una responsabilità effettiva sui risultati».

In più, c’è la sovrapproduzione normativa, con una moltitudine di norme spesso incerte nell’interpretazione, suscettibili di diverse letture e non di rado contraddittorie tra loro. «È un tema rilevante», sottolinea Valotti, «che riguarda le relazioni tra i diversi livelli di governo (Stato, regioni ed enti locali), con conseguente circolazione di numerosi documenti. Un altro aspetto rilevante è la duplicazione di documenti già in possesso della pubblica amministrazione: spesso vengono richiesti ai cittadini documenti che sono già presenti in qualche database pubblico, evidenziando il problema, ormai annoso, della mancata interoperabilità tra le banche dati».

Tutte queste cause generano effetti devastanti. L’effetto collaterale? «In Italia si presenta una domanda senza sapere se e quando otterrà una risposta. Tutto ciò contribuisce a trasmettere un’immagine del settore pubblico come un ambiente paludoso, lento e polveroso, il che non è un dettaglio trascurabile, poiché allontana molti talenti dalla pubblica amministrazione».

Cure sperimentali

Certo, elencare i problemi è sempre semplice, mentre trovare soluzioni è più difficile. Ma non impossibile: «Sarebbe necessario uno sforzo concreto per la produzione di testi unici, che uniscano la moltitudine normativa a livello statale e regionale, offrendo una guida chiara per imprese e cittadini, possibilmente in un linguaggio meno burocratico», elenca Valotti.

Contabilità

Buste paga

 

«Un aspetto che sembra mancare è la qualità delle normative: spesso sono contraddittorie al loro interno e anche mal scritte. Occorre un lavoro approfondito sulla produzione normativa».

E poi c’è l’annosa questione della semplificazione: «Non vi è ministro che non ne parli: l’attuale ha annunciato, nell’ambito del Pnrr, la semplificazione di oltre 600 procedimenti amministrativi e recentemente ha dichiarato di averne semplificati 300 o 400. Rimane il fatto che, pur semplificando i singoli procedimenti, l’intreccio tra essi crea disorientamento in chi deve svolgerli: sarebbe auspicabile una guida per imprese e cittadini».

Per non parlare della trasparenza: «sarebbe utile pubblicare in modo comprensibile a tutti lo stato di avanzamento dei procedimenti. Sui siti delle amministrazioni pubbliche, per legge, esiste una sezione denominata “amministrazione trasparente”, che però contiene una moltitudine di documenti che, in realtà, non favoriscono la trasparenza. In Europa, invece, molte amministrazioni pubblicano sui loro siti grafici, diagrammi a torta, barre colorate, che consentono di comprendere a colpo d’occhio lo stato di avanzamento. La trasparenza favorirebbe anche una maggiore responsabilizzazione delle amministrazioni. Infine, ritengo opportuno premiare la rapidità: se la retribuzione legata ai risultati di tutti i dipendenti pubblici fosse in qualche modo collegata alla capacità di accelerare i procedimenti, si creerebbe un incentivo concreto a operare con maggiore celerità».

Chissà se col ricambio generazionale, le cose cambieranno. «L’età media dei dipendenti pubblici supera i 52-53 anni», conferma Valotti. «Per forza di cose, nei prossimi anni si verificherà un ricambio generazionale. Il problema principale è riuscire ad attrarre e selezionare le persone più adatte. Purtroppo, nei piani triennali di assunzione, vi è un effetto trascinamento per cui gli enti tendono a ricoprire i posti vacanti con figure equivalenti. Molti giovani sono profondamente motivati da valori e desiderano impegnarsi per il bene comune: sarebbero attratti dal settore pubblico, dove si opera per il bene collettivo, ma temono la mancanza di meritocrazia, l’assenza di percorsi di carriera chiari e il rischio di perdita di professionalità».

La domanda sorge spontanea: quanto ancora possiamo permetterci di pagare questo prezzo? Quante energie, quanti talenti, quante opportunità continueremo a sacrificare sull’altare di una macchina amministrativa che sembra progettata più per complicare che per semplificare? Perché, diciamolo con ironia ma senza troppa leggerezza: la burocrazia sarà pure immortale, ma la competitività, no.

L’ossimoro della semplificazione digitale

La maratona a ostacoli, a ogni passaggio, comporta la compilazione di moduli, la raccolta di allegati, la produzione di autocertificazioni e, spesso, la ripetizione delle stesse informazioni per enti diversi. Per fortuna c’è la semplificazione digitale… o quasi. Perché la rivoluzione che promette semplicità, troppo spesso consegna una nuova complessità.

Partiamo dalla porta d’ingresso: la Spid. Nel 2024, oltre 36 milioni di identità digitali Spid erano attive in Italia, a cui si aggiunge la Carta d’Identità Elettronica (Cie), sempre più usata per l’accesso ai servizi online.

Contabilità

Buste paga

 

Dal 2025, è partita la transizione verso l’IT Wallet, la nuova piattaforma nazionale per l’identità digitale, che promette di integrare documenti pubblici e privati in un unico spazio digitale. Numeri da record, certo, ma anche qui il primo paradosso: la proliferazione di strumenti di accesso non sempre si traduce in semplicità.

Perché, diciamolo, chi non ha mai dimenticato la password dello Spid o si è trovato a dover scegliere tra mille livelli di autenticazione? E chi non si è mai chiesto se servisse davvero, per l’ennesima volta, inserire il codice fiscale già noto a tutte le banche dati della Repubblica? “Once only” solo sulla carta: la PA non dovrebbe mai chiedere due volte lo stesso dato, ma nella pratica capita di dover inserire ogni volta codice fiscale, indirizzo, dati anagrafici, anche con Spid o Cie. E il cittadino resta il principale “integratore” di informazioni.

Più portali, più password, meno semplicità: la promessa di un unico punto di accesso si scontra con la realtà di una giungla di portali, ciascuno con le sue credenziali e procedure. A cominciare dall’app IO, la regina della digitalizzazione: 39 milioni di download nel 2024, oltre 37 milioni di messaggi inviati nel solo gennaio 2025 e 400 milioni di notifiche spedite nel 2023.

Più di 14.000 enti pubblici attivi, il 90% dei Comuni italiani coinvolti e oltre il 50% degli utenti che apre le notifiche entro 24 ore. Un successo? Sì, ma attenzione: ogni servizio ha la sua app, il suo portale, le sue notifiche. E la semplificazione si trasforma in una giungla digitale.

In effetti, nonostante la crescita degli strumenti digitali, l’utilizzo reale dei servizi pubblici online resta sotto la media europea: nel 2024, solo il 55% degli italiani ha usato servizi digitali della PA, contro una media UE del 70% (Eurostat).

E tra le imprese? Il 70,2% delle Pmi ha raggiunto almeno un livello base di digitalizzazione, ma appena l’8,2% si può definire “avanzata”. Ed ecco il paradosso dell’inclusione digitale che diventa, talvolta, nuova esclusione.

La nuova trafila, insomma, è virtuale. Nel 2025, la sequenza tipica della burocrazia digitale prevede: identificazione digitale tramite Spid, Cie, IT Wallet, col rischio inciampare tra livelli di sicurezza, Otp, recupero password; accesso ai portali (app IO, portale Anpr, pagoPA, Suap, “Impresa in un giorno”, ciascuno con la sua interfaccia e le sue regole); moduli online, spesso con campi precompilati (quando va bene), ma ancora tanti Pdf da caricare, stampare, firmare, scansionare e rimandare, con tanto di autocertificazioni da allegare…

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Intanto, la piena interoperabilità tra enti è ancora un miraggio, le ricevute non sempre arrivano puntuali e tra email, Pec e app IO, il rischio è di perdersi qualche notifica fondamentale. Inclusa la firma digitale, che avrebbe dovuto semplificare, ma tra dispositivi da aggiornare, software da installare e codici da ricordare, rischia di diventare un nuovo ostacolo, non esattamente il futuro che ci era stato promesso…

Psicodramma collettivo

Partiamo da una domanda: perché la burocrazia esiste, e soprattutto, perché resiste? La risposta, almeno in parte, ce la offre Max Weber, il padre nobile della sociologia della burocrazia, che vedeva in essa la forma più razionale di organizzazione, capace di garantire prevedibilità e uguaglianza.

Ma, come ci ricorda la sociologa italiana Chiara Saraceno, «la burocrazia è anche una risposta al bisogno umano di sicurezza, di regole chiare, di confini netti tra ciò che si può e ciò che non si può fare». In altre parole, la burocrazia è la nostra coperta di Linus: ci rassicura, ci protegge dall’arbitrarietà, ci fa sentire (almeno in teoria) uguali davanti alla legge. Eppure, dietro questa facciata rassicurante, si nasconde un lato oscuro: la tendenza alla deresponsabilizzazione. “Non dipende da me, è la procedura”, quante volte l’abbiamo sentito? Secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli, la burocrazia offre un rifugio perfetto per chi teme il rischio e la responsabilità, trasformando l’individuo in un ingranaggio anonimo di una macchina impersonale.

Il risultato?Alienazione, perdita di senso, e una certa noia esistenziale. Ma non finisce qui. La burocrazia, come ci insegna il sociologo Robert K. Merton, tende a idolatrare i mezzi a scapito dei fini: le regole diventano un fine in sé, e il rispetto della procedura prevale sull’efficacia dell’azione.

È il cosiddetto “ritualismo burocratico”, che in Italia assume spesso i toni della commedia all’italiana: file interminabili, timbri che sembrano moltiplicarsi per partenogenesi, richieste di documenti già in possesso della stessa amministrazione che li richiede. Un paradosso? Certo. Ma anche un modo, forse, per esorcizzare l’ansia del cambiamento e dell’imprevisto.

E qui la sociologia italiana offre spunti preziosi: il sociologo Luciano Gallino sottolinea come la burocrazia sia, in fondo, una strategia di conservazione dell’ordine sociale, un baluardo contro il caos e l’imprevedibilità.

Peccato che questa funzione conservativa rischi di trasformarsi in rigidità, in incapacità di adattarsi ai mutamenti della società, in una sorta di “sindrome di Stendhal” al contrario. E veniamo al punto dolente: l’alienazione.

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Sì, perché la burocrazia, con la sua ossessione per la regola e la procedura, rischia di trasformare le persone in “pezzi dell’ingranaggio”, come scriveva Karl Marx, privandole del senso del proprio contributo e soffocando ogni slancio creativo. La cultura organizzativa che ne deriva privilegia la conformità rispetto all’innovazione, la fedeltà alla norma rispetto all’autonomia.

Ma la colpa, probabilmente, è tutta nostra, se, come scrive il sociologo Franco Ferrarotti, «la burocrazia non è un destino, ma una scelta collettiva».

La burofollia del GDPR, freno alla competitività

di Nicola Bernardi, presidente di Fedeprivacy

Lo scorso maggio la Commissione Europea aveva annunciato l’intenzione di voler mettere mano al GDPR per ridurne gli adempimenti ed agevolare soprattutto le piccole e medie imprese, ma se le aziende avevano ben sperato di vedere finalmente semplificata la gestione burocratica degli adempimenti necessari per la conformità alla normativa in materia di protezione dei dati personali, avevano poi anche fatto presto a disilludersi. 

Infatti, le aspettative si erano pressoché sgonfiate totalmente quando nel mese di luglio veniva pubblicata la proposta di revisione del Regolamento europeo sulla privacy, contenente giusto alcune misure del tutto trascurabili, come l’esenzione dall’obbligo di tenuta del registro dei trattamenti di dati personali per le aziende con meno di 750 dipendenti, e l’espansione di certificazioni e codici di condotta anche alle piccole realtà: strumenti indubbiamente utili, che però richiedono tempo (in genere diversi mesi) e investimenti economici per poter essere adottati e dare effettivamente luogo alle sperate semplificazioni.

E se le promesse della Commissione UE si sono rivelavate praticamente disattese, d’altra parte non si sono arrestate le crescenti complicazioni europee in materia di gestione dei dati, di cui l’introduzione del GDPR nel 2018 aveva segnato solo l’inizio di una lunga serie di altri regolamenti direttamente applicabili in tutti i 27 paesi membri dell’Unione Europea, Italia compresa.  

Dal Data Services Act al Digital Market Act, passando per il Data Governance Act e il Cyber Resilience Act, senza poi farsi mancare l’Artificial Intelligence Act per cercare di regolamentare l’incontenibile diffusione dell’intelligenza artificiale, per arrivare infine alla ciliegina sulla torta del Data Act in vigore dal 12 settembre 2025, la regolazione europea sui dati è diventata un vero e proprio labirinto che non a caso Mario Draghi ha definito una “babele normativa” con oltre 100 atti digitali e più di 270 direttive nazionali, ben lontana quindi dalle facilitazioni paventate dalle istituzioni dell’UE.

Ma come lo stesso Draghi ha evidenziato nel suo “Rapporto sulla competitività europea”, la frammentazione normativa non grava solo nell’aumento dei costi di compliance, ma genera un notevole rallentamento al processo di innovazione per la maggior parte del nostro tessuto imprenditoriale, in Italia composto per il 96% da piccole e medie imprese che così rischiano di perdere drasticamente competitività e rimanere tagliate fuori dalle opportunità derivanti dalla data economy, grazie alla quale potrebbero invece migliorare i propri processi decisionali, creare nuovi prodotti e servizi, e soprattutto sviluppare innovativi modelli di business.

Le attuali regole del gioco così concepite fanno quindi del vecchio continente il regno della burocrazia che affossa le piccole aziende per avvantaggiare invece colossi tecnologici ed altre multinazionali, perché se queste ultime sono comunque sempre in grado di fronteggiare le numerose complicazioni derivanti dal groviglio di norme sfornate dall’UE mettendo mano al portafoglio per adeguarsi, per le piccole imprese che hanno risorse e budget risicati si tratta invece di una partita persa in partenza.

Un po’ come avviene nel gioco del golf, dove vige la regola dell’handicap per rendere la competizione più equa tra giocatori di diversi livelli, le semplificazioni in materia di gestione e protezione dei dati personali dovrebbero piuttosto essere concepite secondo princìpi di equità ed essere proporzionali in base alla mole e alla delicatezza dei dati trattati, e non strettamente legate a criteri dimensionali dell’azienda, come lo è il numero dei dipendenti.

Tanto per fare un esempio, non ha infatti alcun senso che un’azienda vinicola con più di 750 operai agricoli che lavorano nelle vigne debba espletare complessi adempimenti del GDPR, mentre invece resti esente dagli stessi obblighi una startup con una manciata di addetti che gestisce enormi banche dati attraverso sistemi di intelligenza artificiale.

Se l’UE non vuole darsi la zappa sui piedi, deve quindi togliere il freno a mano della burocrazia digitale e correre urgentemente ai ripari mettendo a punto misure che snelliscano veramente gli aspetti burocratici badando alla sostanza della sicurezza delle informazioni, e che facilitino veramente le piccole e medie imprese per metterle in grado di cogliere le numerose opportunità derivanti dall’economia “data driven”, senza naturalmente penalizzare i diritti fondamentali dei cittadini, che sono un pilastro di tutele giuridiche a cui l’Europa non deve assolutamente rinunciare.

Il sogno della dematerializzazione

di Sergio Boaretto, Product Strategy Director, Wolters Kluwer Tax & Accounting Italia

Meno carta, operazioni più semplici, possibilmente automatizzate. Il sogno delle imprese, quello dei professionisti e, in teoria, anche dello Stato. 

Parrebbe che la dematerializzazione documentale e la semplificazione siano flussi convergenti verso un unico interesse: meno burocrazia. Un sogno che il digitale, soprattutto quello avanzato, promette di realizzare. Oggi sembra che l’Intelligenza Artificiale sia la panacea per tutto, ma la genesi di questo fenomeno digitale è datata. 

Sergio Boaretto, Product Strategy Director di Wolters Kluwer Tax & Accounting EU South Region sottolinea come: “in ambito UE si lavora da decenni alla digitalizzazione e dematerializzazione richiedendo a professionisti ed imprese l’adozione di sistemi di conservazione a norma che assicurino integrità, leggibilità e reperibilità dei documenti. L’Italia, con le normative su fatturazione elettronica e conservazione obbligatoria, si è distinta e primeggia, ma bisogna considerare un certo freno culturale e ancora una scarsa fiducia nella tecnologia. Questi sono ambiti nei quali provider come Wolters Kluwer hanno il compito di investire in sviluppo di soluzioni ad alta tecnologia e contemporanea facilità d’uso per portare a bordo gli scettici e i timorosi fra gli operatori.”

È fuori da ogni dubbio che l’IA stia rivoluzionando numerosi settori e quello della gestione delle imprese e della consulenza fiscale e contabile non fanno eccezione. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un’esplosione di strumenti basati sull’IA che promettono di automatizzare compiti monotoni, migliorare l’accuratezza del lavoro e fornire ai professionisti informazioni e spunti inediti.

Questa diffusione espone anche a rischi e proteggere dati e informazioni è ben più di un obbligo. 

“Il nostro obiettivo” – afferma Boaretto – “è quello di accelerare lo sviluppo tecnologico per adattare quanto più possibile il modello di business di professionisti e PMI alla trasformazione digitale attraverso risposte tecnologiche rapidamente adeguate alle esigenze sia normative sia operative in sicurezza digitale quanto più estesa.” 

Se l’obiettivo della dematerializzazione e semplificazione sono centrali nel concetto della sburocratizzazione, un altro campo nel quale l’IA può dare una decisa mano è il miglioramento dell’accuratezza e della conformità del lavoro dei professionisti.

“L’automazione innescata dall’IA elimina la possibilità di errori umani dovuti disattenzione. L’IA può inoltre incrociare dati provenienti da diverse fonti per identificare discrepanze e potenziali anomalie, contribuendo così a prevenire frodi e garantire la correttezza delle informazioni finanziarie. E, sempre restando nel campo del miglioramento dell’accuratezza, gli strumenti basati sull’IA possono essere configurati per ricevere aggiornamenti automatici su modifiche legislative o normative, garantendo che professionisti e imprese siano sempre al passo con le ultime disposizioni.”

Con l’aiuto di strumenti digitali dotati di IA si possono analizzare dati finanziari passati e attuali per identificare tendenze e prevedere potenziali problemi o opportunità future. Con queste capacità i professionisti sono in grado più agevolmente di fornire alle PMI consigli proattivi e strategie di pianificazione fiscale efficaci, più profonde e dettagliate.

“Sembra banale” conclude Boaretto, “ma ciò che semplifica e dematerializza concorre ad uno sviluppo che trova alla fine del percorso concreto riscontro nei conti delle imprese.” Una vera e propria condizione win/win. Ma bisogna crederci e investire.



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