Le prossime settimane saranno decisive per il pacchetto Omnibus, con cui la Commissione europea vuole semplificare drasticamente le normative sulla sostenibilità. A partire dalla due diligence, la vigilanza che i grandi gruppi dovranno esercitare sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nella loro filiera. Il voto della Commissione Juri, competente sul dossier, è in programma a ottobre e sarà seguito da quello dell’Europarlamento in plenaria. Si aprirà poi la fase di negoziazione con il Consiglio europeo su un testo finale, previsto per l’inizio del 2026.
«Il dossier avanza spedito, ma l’urgenza non è l’Omnibus: è una transizione giusta, climatica e sociale», scrivono tramite una nota le campagne Impresa 2030 e Abiti Puliti, insieme alla Cgil. Proprio per chiedere con forza agli eurodeputati e alle eurodeputate di respingere le proposte Omnibus, le tre realtà hanno organizzato per il 23 settembre al Parlamento europeo l’incontro “Revisione direttiva due diligence: semplificazione o deregolamentazione?“. Un appuntamento fortemente voluto per sottolineare che la revisione della direttiva non può tradursi in un via libera allo smantellamento delle tutele per lavoratori, comunità e ambiente lungo le catene globali del valore.
All’incontro hanno preso parte Ornella Cilona (CGIL), Cristiano Maugeri (Campagna Impresa 2030), Deborah Lucchetti (Campagna Abiti Puliti), Andrea Mone (CISL) e gli europarlamentari Brando Benifei – promotore dell’evento – Irene Tinagli (Partito Democratico), Mario Furore (Movimento 5 Stelle), Cristina Guarda (Europa Verde).
Le proposte, presentate come “semplificazione”, riducono in realtà le tutele per lavoratrici, lavoratori e piccole e medie imprese nelle filiere globali, indebolendo la due diligence e la rendicontazione di sostenibilità. Un intervento che favorisce le politiche di competitività dei grandi gruppi industriali e finanziari, scaricando i costi sociali e ambientali sulle comunità e ampliando le disuguaglianze.
L’85% della popolazione italiana è a favore della due diligence
Durante l’iniziativa sono stati presentati i risultati del sondaggio condotto da SWG e promosso da WeWorld e Manitese insieme a Impresa2030 e l’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) sul ruolo delle imprese per la tutela dei diritti umani e ambientali.
L’85% della popolazione italiana maggiorenne dichiara che le grandi imprese europee e quelle di altri Paesi che esportano nel mercato europeo devono essere obbligate per legge a prevenire i danni causati dalle loro attività a persone, ambiente e clima. Anche se questo comporta per loro dei costi in più. L’84% chiede che le grandi aziende siano responsabili dei danni causati dai loro prodotti o servizi lungo tutta la catena del valore. Il 79% vuole che le grandi aziende siano obbligate a fare piani per ridurre le emissioni di CO₂. Inoltre, solo una persona su tre pensa che i governi facciano abbastanza per limitare l’impatto negativo delle grandi aziende sui diritti umani e clima.
Emerge inoltre un’idea chiara di competitività. Tre italiani su quattro affermano che non può esserci competitività senza tutela dei diritti umani, dell’ambiente e senza contrasto ai cambiamenti climatici.
Quali rischi comporta il pacchetto Omnibus
«Fino ad oggi la direttiva due diligence è stata trattata come un argomento tecnico. Eppure si tratta di una norma indispensabile per tutelare i diritti e l’ambiente», sostiene Cristiano Maugeri di ActionAid, co-portavoce della Campagna Impresa 2030. «Quello che ci viene venduto come semplificazione con la procedura Omnibus altro non è che un tentativo di assecondare le ambizioni di un modello estrattivista che non solo i cittadini e le cittadine non vogliono più, ma non possiamo più permetterci. Per questo ci opponiamo e continuiamo a chiedere politiche giuste per la società e l’ambiente.
«Se il pacchetto Omnibus passasse, tornerebbero ad affacciarsi scenari già visti», avverte Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti. «Un nuovo Rana Plaza sarebbe possibile perché molte aziende coinvolte allora resterebbero oggi escluse dalla direttiva a causa della loro “dimensione troppo piccola”. Le inchieste sul caporalato, come quelle condotte dalla procura di Milano sui casi Armani, Alviero Martini, Valentino, Dior e Loro Piana, mostrerebbero di nuovo lo stesso sistema di sfruttamento, in cui la subfornitura viene scientemente usata dai grandi marchi del lusso per massimizzare i profitti, scaricando i costi sociali sui lavoratori più vulnerabili, in particolare donne e migranti. A pagare sarebbero ancora loro, insieme alle piccole e medie imprese, che continuerebbero a sostenere il peso della sostenibilità senza avere sostegni, strumenti né tutele, mentre i grandi committenti resterebbero esonerati dalle proprie responsabilità».
Infine, Enrico Giovannini, co-fondatore e direttore scientifico di ASviS, ha evidenziato il valore della direttiva per un’economia sostenibile, fornendo un contributo tecnico-scientifico alla discussione: «Le riforme all’insegna di una semplificazione che in realtà attacca la trasformazione verso un sistema economico sostenibile sono frutto di un approccio ideologico non supportato dai dati. Infatti, i dati mostrano che le imprese che investono in sostenibilità aumentano la competitività e la produttività. Con le nuove tecnologie – pensiamo ad esempio all’economia circolare – è fondamentale assicurare l’integrità delle filiere in termini di impatto ambientale e di rispetto dei diritti umani. Ecco perché snaturare la direttiva sulla due diligence sarebbe un errore».
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