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Millennials alla guida delle aziende tra burnout, stress e leadership


«Sono finito al pronto soccorso», racconta un direttore senior di poco sotto i quarant’anni che lavora nel settore pubblico, descrivendo un risveglio da un incubo con dolori al petto, formicolio al braccio sinistro e difficoltà respiratorie. Era convinto di avere un infarto. Il medico lo ha identificato come un attacco di panico, mentre il terapeuta ha collegato i sintomi al burnout da stress lavorativo, senza però dare una diagnosi ufficiale.

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I millennials alla guida delle aziende tra burnout, stress e leadership

Nel 2025 i millennials sono diventati la generazione che più di ogni altra guida le aziende: la fascia d’età tra 29 e 44 anni ha soppiantato la Generazione X nel ruolo di maggioranza dei leader aziendali. Ma cosa significa per «la generazione del burnout» essere ora al timone? Questi manager si trovano in un clima radicalmente diverso da quello dei loro predecessori, spesso privi di mentoring o di una guida adeguata.

Negli ultimi mesi, Fortune ha raccolto le testimonianze di oltre una dozzina di manager millennials da tutto il Paese, dal settore privato al nonprofit, trovando una generazione schiacciata tra le aspettative della vecchia guardia, una pressione quotidiana crescente e le sfide lavorative. Alcuni, come il direttore di comunicazione che è finito al pronto soccorso, hanno chiesto di restare anonimi per parlare liberamente. Emergono temi comuni.

I millennials sono entrati nel mercato del lavoro sperando di trovare organizzazioni e leader empatici, ma ora si ritrovano a dover soddisfare aspettative ancora più alte da parte dei loro collaboratori appartenenti alla Generazione Z. Inoltre, la carenza di modelli di leadership sani e programmi di formazione specifici si traduce in una crisi del mentoring: pochi sanno indicare esempi concreti o programmi che li abbiano preparati adeguatamente ai loro ruoli.

In prima linea nella crisi di burnout, come descrive l’economista capo di Glassdoor Daniel Zhao, i giovani manager stanno sperimentando nuovi modelli di empatia e flessibilità, spesso a un costo personale elevato.

Il processo militare come modello da seguire

«I millennials come generazione non sono molto preparati a prendere il comando e gestire le aziende», sostiene Andrew Rotz, consulente per il benessere finanziario e veterano della Marina americana. Nell’esercito, racconta, vengono forniti addestramenti pratici in servizio che preparano gradualmente a guidare organizzazioni sempre più grandi. Nel settore privato invece, spesso succede che “sei qui da un po’, stai facendo un buon lavoro, ecco la promozione”.

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Rotz non sostiene che l’esercito sia un modello perfetto, menzionando le politiche interne, ma giudica il processo militare più strutturato e funzionale di qualunque percorso civile. Invita perciò le aziende a migliorare la trasparenza nelle decisioni, spesso basate su giudizi soggettivi o poco approfonditi e scarsamente condivisi.

La mancanza di ambizione

Molti intervistati dicono di aver rinunciato alle ambizioni o di non voler fare carriera. Il direttore che ha avuto il malore confessa: «Non ho alcuna voglia di fare carriera. Gestisco l’azienda con empatia e flessibilità, ma sopra di me c’è ancora un atteggiamento rigido». Riguardo ai suoi collaboratori Gen Z, racconta che tutti hanno detto di non volere quel tipo di carriera. Questo lo preoccupa per il futuro della leadership, poiché la generazione manager millennial è esausta e lui stesso non ha più ambizioni: «Perché dovrei passare la vita in riunioni?».

Jane Swift, oggi a capo di Education at Work, vede il declino come una crisi. «Abbiamo eliminato tutti i programmi di formazione, e questo è accaduto quando sono scomparse le scalate di carriera». Non ci sono più percorsi di carriera definiti come negli anni ’80, con formazione e avanzamenti certi. «Non formiamo più i manager, quindi ci dobbiamo arrangiare», spiega. Anche la formazione di base è carente: «Mi sento impazzire a sentire certi leader lamentarsi che l’intelligenza artificiale “mangia” i lavori entry-level, ma poi pretendono candidati con esperienza».

Una sensazione di vuoto

Diversi manager millennials raccontano di aver raggiunto un punto in cui più denaro o status non portano a maggiore felicità, ma solo più problemi da risolvere. Un direttore di radiologia trentasettenne del Massachusetts racconta di aver ricevuto molte promozioni e di guadagnare il doppio rispetto a dieci anni fa, ma dopo una soglia di circa 150mila dollari non ha più sentito l’impatto di un aumento. Ricorda in particolare una promozione che gli è sembrata vuota: «Il giorno in cui il mio capo mi ha comunicato i termini finanziari, nulla è cambiato. Ho pensato solo che avrei avuto più problemi da risolvere».

Nei settori sanitario, educativo, tecnologico e non profit, i manager descrivono cicli incessanti di turnover, cambiamenti di regime e crescenti aspettative dall’alto. Una parte di queste difficoltà è legata alla pandemia. Il direttore che ha avuto il malore ritiene che dopo la pandemia si sarebbe dovuta «allentare la tensione», ma ha visto manager più anziani spingere al massimo.

Il mito e la trappola del «capo alla moda»

Tra i manager millennials c’è una particolare tensione: determinati a non replicare l’approccio gerarchico rigido dei loro predecessori Generazione X e boomers, spesso aspirano a essere il capo amichevole, aperto, trasparente e di supporto. Ma secondo alcune fonti questo modello può creare confusione tra leadership e amicizia, con nuove vulnerabilità.

Il direttore di radiologia racconta di essere stato promosso a ruolo manageriale quasi controvoglia, senza una formazione o mentoring adeguati. Anche se ha avuto qualche buon mentore sul versante clinico, un capo particolarmente valido aveva però molte responsabilità e i loro incontri sono diventati più operativi che orientati alla crescita personale. Partecipò di conseguenza a un programma di leadership di sei mesi che tutt’ora influenza il suo stile manageriale.

L’articolo completo è disponibile su Fortune.com

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