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Pordenonelegge: una città che si fa libro grazie al legame tra industria e cultura


Pescatori di idee e di parole. Per farne ingredienti di sapide conversazioni. E di civili relazioni. Vengono in mente pensieri leggeri e curiosi, guardando i manifesti di quest’anno di Pordenonelegge, il festival dei buoni libri e degli incontri colti e civili: c’è un amo che, invece che un pesce, solleva il lembo d’una pagina gialla e svela il lembo azzurro e stellato della bandiera europea. E su tutto, lo slogan esemplare: “amoleggere”, per dare senso alla “Festa del libro e della libertà”.

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Giallo è il colore simbolo di un’iniziativa, Pordenonelegge, arrivata alla sua 26° edizione che, a metà settembre, è oramai tappa obbligata per scrittori e lettori, personalità della cultura e giovani che arrivano da tutta Italia e anche dall’estero per ascoltare, leggere, discutere, cercare di capire, fare i conti insomma con quel mondo dei racconti e delle idee che in certi momenti sembra condannato al degrado e al declino e che invece, proprio qui, in queste strade d’un bellissimo centro storico e in queste piazze impavesate, appunto, di giallo, mostra non solo una robusta resilienza ma soprattutto un’inaspettata vitalità. Che adesso guarda a un altro ambizioso appuntamento: Pordenone come Capitale italiana della cultura nel 2027. 

Quali sono le radici di questo fenomeno, industriale e culturale? E che prospettive è possibile leggere, da qui, per il futuro dell’Italia produttiva e cioé, tutto sommato, dell’Italia che nella sua storia trova una straordinaria forza propulsiva e nell’Europa il suo destino? 

Appunto all’Europa è dedicata questa Festa del libro, nella piena consapevolezza dei suoi limiti ma anche della necessità di darle forza e sviluppo (gli imprenditori nordestini e qui friulani lo sanno bene per esperienza e cultura). Ed è dalla determinazione degli uomini e delle donne d’impresa che nasce la prima edizione, nel 2000 (cambio simbolico di secolo e di millennio, “Stiamo trasecolando”, avrebbe detto Enzo Sellerio che di libri e idee aveva profonda, ironica e critica conoscenza). 

La volontà fondatrice è della Camera di Commercio, all’epoca presieduta da Augusto Antonucci. E le danno appoggio concreto le associazioni delle categorie imprenditoriali, a cominciare da Confindustria e continuando con Confcommercio, Coldiretti, Confcooperative e Confartigianato. Una festa del libro che ha radici nel mondo economico, nelle forze produttive. La politica locale e regionale poi seguirà. 

Quest’anima imprenditoriale si rafforza nel corso del tempo. E da anni il suo esponente più dinamico è Michelangelo Agrusti, ex parlamentare Dc e imprenditore nel settore delle costruzioni navali, presidente di Confindustria Alto Adriatico (riunisce le imprese di Pordenone, Gorizia e Trieste) e della Fondazione Pordenonelegge. Industria e cultura, appunto, con una solida coscienza sociale e civile.

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Le intenzioni sono chiare fin dall’inizio: attirare sulla città l’attenzione dei media, del mondo dell’editoria e del pubblico, valorizzando le ricchezze culturali, storiche e paesaggistiche di un’area sino ad allora nota soprattutto come territorio manifatturiero. E dunque “aiutare istituzioni, imprenditori, operatori economici e cittadini ad ampliare ed approfondire le proprie conoscenze, stimolando il confronto con intellettuali, editori, autori e personalità di rilevo nazionale e internazionale in campo letterario, artistico e culturale”.

Nel tempo si cresce. E nel corso degli ultimi anni sono state registrate in media 120mila presenze annuali. Con un forte ritorno economico: per ogni euro pubblico investito ne ricadono sul territorio 10,24 (lo certifica una ricerca dell’Università Bocconi). 

Sostiene Agrusti: “Amoleggere quest’anno è una dichiarazione di interesse per il proprio tempo e per la decodificazione della sua complessità: chi legge non solo si informa, ma sceglie di approfondire criticamente i temi, con la consapevolezza che deriva dalla conoscenza”. E “anche quest’anno si è ripetuto il miracolo della città che si fa libro”.

Pordenonelegge è, per questo, un festival concepito “sull’uscio della storia, un osservatorio attivo della realtà contemporanea”. La dedica speciale all’Europa “insiste sull’istituzione della quale tutti abbiamo grande bisogno, nel contesto storico e geopolitico che stiamo attraversando. E che, a sua volta, è chiamata a superare i rischi di un declino strutturale e le sfide della crisi esistenziale prospettata dal Rapporto Draghi”. 

Europa, dunque, obbligata a rafforzare “il suo ruolo di riferimento dei valori costitutivi alla base dei Trattati: giustizia, democrazia, libertà, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani. Principi che il terzo millennio mette in discussione a tante, troppe latitudini del pianeta”. L’apertura della Festa con un incontro con Shirin Ebadi, la scrittrice iraniana premio Nobel per la Pace e la chiusura con l’Inno alla Gioia di Beethoven ne sono le connotazioni essenziali.

Industria e cultura, dicevamo. Ma anche, più significativamente, industria che fa cultura. E, meglio ancora, “industria è cultura”, se cultura, oltre che letteratura e arte, teatro e musica, sono anche la scienza, le tecnologie, un brevetto industriale o di design, un nuovo prodotto high tech, un algoritmo dell’Intelligenza Artificiale, un contratto di lavoro innovativo delle relazioni sociali, un modo sostenibile di organizzare la logistica o le relazioni positive tra industria e ambiente.

La lezione sull’importanza della “cultura materiale”, cara agli storici francesi della scuola delle Annales, anche qui, in territorio friulano, trova significative conferme.

Era territorio contadino, nel dopoguerra. Povero ma operoso. Segnato dall’emigrazione verso le aree industriali forti, la Lombardia e il Piemonte dell’auto. Ma con un forte orgoglio delle radici. E, tra chi restava, con una cultura diffusa del lavoro, della cooperazione, dei valori del credito locale, della solidarietà. Negli anni del boom, la scoperta dell’industria, a cominciare da quella del “bianco” (elettrodomestici: Zanussi e poi Electrolux) e dalla metalmeccanica leggera, del legno e dell’arredamento, delle macchine tessili e delle ceramiche e poi, in tempi più recenti, della cantieristica navale e del suo sofisticato indotto produttivo.

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Il racconto delle trasformazioni si può leggere in un libro snello e denso, “Laboratorio Pordenone”, di Giuseppe Lupo, storico dei rapporti tra letteratura e industria, recente vincitore del Premio letterario Friuli Venezia Giulia: “Il miracolo economico non si è concentrato solo a Milano o a Torino. Anzi sono state proprio le realtà ai margini a registrare il passaggio di civiltà in maniera meno traumatica rispetto alle metropoli, tant’è che a Pordenone l’antropologia della terra non è mai del tutto sparita. Su questa commistione tra industria e campagna, fra usanze vecchie di secoli e spregiudicatezza imprenditoriale, diciamo pure su una mistica del lavoro quasi calvinista, il Nord Est italiano ha fondato la sua fortuna economica contribuendo a formare la figura del metalmezzadro”.

Una figura diffusa, metà operaio metà contadino, frequente anche negli stabilimenti industriali del Mezzogiorno, da Melfi a Termini Imerese. Con alcune differenze: nelle imprese del Sud le stagioni dei raccolti (il grano, le ulive, l’uva…) coincidevano con picchi di assenteismo in fabbrica. Nel Nord Est, invece, con una compatibilità più virtuosa, con una somma di tempi di lavoro.

Scrive Lupo, infatti, che a Pordenone “il vecchio mondo ha continuato a resistere anche in presenza del nuovo, l’anima contadina, quella che parlava in dialetto e si sentiva radicata al territorio, non ha mai ceduto fino in fondo all’incedere della modernità, quasi opponesse una specie di nascosta resistenza (o di rivincita) al pericolo che essa, la modernità, rendesse ogni cosa omologabile, sia nella Pordenone in bianco e nero degli anni Sessanta, sia negli ultimi decenni, quando il bisogno di manodopera ha spinto Confindustria a inventarsi una strategia per regolamentare il trasferimento in città di singoli individui o di famiglie da inserire nel tessuto produttivo”.

Insiste Lupo: “In assenza di istituzioni culturali, è toccato alle aziende candidarsi a motore di sviluppo promuovendo iniziative che riguardano i libri, la lettura, l’arte, il cinema, il teatro. Così è nato il festival Pordenonelegge, uno degli appuntamenti dedicato ai libri più importanti dell’anno nel panorama italiano”. Perché? “Nessun benessere materiale può realizzarsi senza cultura e questa città declina in maniera particolare il rapporto tra azienda e territorio perfino in una fase delicata come il passaggio all’industria 4.0”. 

La conferma viene dal Polo Tecnologico, progettato come un incubatore di nuove imprese, con sostegni legati alle competenze tecniche e alle risorse finanziarie, nella transizione digitale e ambientale, senza rigidità burocratiche e una solida idea della produttività. Esemplare anche la Lef e cioè la “Lean Experience Factory”, inaugurata nel 2011 alle porte di Pordenone (Agrusti ne è il presidente). Racconta Lupo: “È una sorta di fabbrica-scuola, sarebbe meglio definire centro di formazione esperienziale che insegna a ottimizzare i processi produttivi. Più che fabbrica modello, si tratta di un modellatore di fabbrica perché elabora (con gli interessati) il miglior modello produttivo di certi processi industriali. Un’officina pedagogica, insomma, a metà strada tra fabbrica del fare e fabbrica del pensare. Vale per la Lef, ma potrebbe funzionare per l’intero sistema Pordenone”.

Rieccola, dunque, la sintesi virtuosa “impresa è cultura”. Cultura del saper fare. E del fare sapere. Pordenonelegge, con la sua “Festa del libro e della libertà” ne è strumento fondamentale.



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