La Val di Sangro si conferma epicentro di una crisi che non è più solo locale ma nazionale ed europea: quella dell’automotive italiano. Una crisi che attraversa Stellantis e che rischia di lasciare cicatrici profonde, sul piano occupazionale come su quello industriale. Se n’è discusso in un affollato dibattito all’interno di Val di Sangro Expo, nel panel dal titolo eloquente “Crisi e prospettive dell’automotive”.
Promosso dal Comune di Atessa, l’incontro ha visto confrontarsi rappresentanti sindacali, istituzioni locali e nazionali, mondo accademico e figure politiche di primo piano. Sul tavolo, temi che da mesi agitano il settore: la sorte della Gigafactory di Termoli, il crollo produttivo, la concorrenza estera, gli incentivi, i costi dell’energia e, soprattutto, il ruolo del governo in una transizione che non può essere lasciata al caso.
La fotografia scattata all’inizio del convegno è impietosa. Lo stabilimento Stellantis della Val di Sangro, fiore all’occhiello del settore, ha perso 1.600 posti di lavoro dal 2021. La produzione, che tre anni fa superava i 310mila furgoni l’anno, nel 2024 si è fermata a quota 192mila. Un calo vertiginoso che mette a rischio non solo migliaia di lavoratori diretti, ma anche l’indotto di piccole e medie imprese che orbitano intorno alla fabbrica.
Per un territorio che ha legato il proprio sviluppo industriale e sociale all’automotive, questi numeri non sono statistiche: sono la misura di un declino che rischia di travolgere famiglie, comunità e intere aree produttive. La domanda che incombe è una sola: come reagire?
Collegato in videoconferenza, Carlo Calenda ha parlato senza mezzi termini: «Quella che stiamo vivendo è una deindustrializzazione mascherata. Stellantis non chiude di colpo, perché così si scatenerebbero reazioni immediate, ma sposta gradualmente investimenti e produzioni all’estero. Il risultato, però, sarà lo stesso: svuotare i nostri stabilimenti».
Per il leader di Azione non ci sono attenuanti: «Non basta scaricare la colpa sull’Europa o sul Green Deal. Serve una visione industriale italiana, fatta di scelte concrete: riduzione dei costi energetici, infrastrutture adeguate, un serio piano per la mobilità elettrica. Se non si interviene ora, tra qualche anno scopriremo che il settore è stato smantellato pezzo dopo pezzo».
Calenda ha accusato Stellantis di avere un «management disastroso», incapace di pianificare nel lungo termine e pronto a sacrificare l’Italia per convenienza. Ha chiesto al governo «di non nascondersi dietro la burocrazia europea», ma di introdurre vincoli e incentivi che costringano le multinazionali a mantenere produzione e occupazione nel Paese.
Durissimo l’intervento di Stefano Boschini, segretario nazionale della Fim-Cisl. «La Gigafactory è oggi il tema più importante non solo per il Molise, ma per l’intero sistema automotive italiano. Termoli è un’area delicata: lì non possiamo permetterci di perdere posti di lavoro. Ma non è solo questione occupazionale: senza la produzione di batterie, l’Italia resta tagliata fuori dal futuro della mobilità elettrica».
Boschini ha ricordato che Stellantis aveva costruito un vantaggio competitivo sui motori endotermici, ma la transizione rischia di azzerarlo. «Se perdiamo la Gigafactory – ha ammonito – perdiamo la capacità di produrre l’intero veicolo. Dal corteo di Termoli del 12 settembre 2024 a oggi non solo non ci sono stati passi avanti, ma addirittura passi indietro. Il piano industriale è sospeso, la scadenza di giugno 2025 è saltata e Stellantis non comunica nulla di ufficiale. Servono nuove produzioni nel breve, ma senza rinunciare al nodo centrale: le batterie».
Sulla stessa linea Samuele Lodi, segretario nazionale Fiom-Cgil: «Il futuro dell’automotive si può costruire, ma servono scelte coraggiose. Non possiamo continuare a vivere di cassa integrazione e ammortizzatori sociali. Dopo l’abbandono della Gigafactory, Termoli non può diventare terra di nessuno. Per questo abbiamo chiesto un incontro diretto con l’amministratore delegato: il piano industriale non può essere calato dall’alto».
Lodi ha chiamato in causa direttamente Palazzo Chigi: «La premier deve assumersi la responsabilità di questa vertenza. L’automotive è un settore strategico. Non possiamo accettare che Stellantis e governo scarichino tutto sull’Europa. La crisi non è figlia della transizione ecologica, ma di una strategia precisa della multinazionale che sta progressivamente disinvestendo».
Il sindacato ha ricordato anche le mobilitazioni degli ultimi mesi: la manifestazione nazionale dell’automotive a Roma (ottobre 2024), la mobilitazione unitaria di Bruxelles (febbraio 2025) e i presidi davanti ai cancelli di Termoli con la partecipazione del Movimento 5 stelle. «Dobbiamo continuare a mobilitarci – ha concluso Lodi – perché in gioco non c’è solo il lavoro, ma la possibilità di avere ancora un’industria automobilistica in Italia».
A chiudere il fronte sindacale, Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, che non ha risparmiato critiche: «Gli impegni assunti da Stellantis sono stati disattesi. Oggi ci troviamo senza una Gigafactory, senza una strategia e senza risposte. Intanto l’ondata di auto cinesi è già qui: nei nostri showroom troviamo modelli a 5mila euro, mentre le Fiat 500 oscillano da 40mila a 10mila euro. Questo significa due cose: o ci hanno preso in giro prima, oppure stiamo svendendo il mercato. E in ogni caso, a perderci è il lavoro in Italia».
Il leader Uilm ha aggiunto: «La transizione non può fermarsi. Non basta restare ancorati ai motori endotermici. Dobbiamo investire sull’elettrico, altrimenti fra pochi anni non avremo più capacità produttiva. Se la Gigafactory non si farà bisogna capire subito cosa fare in alternativa. Il nulla non è un’opzione».
Il convegno non è stato solo la voce dei sindacati. Lorenzo Sospiri, presidente del Consiglio regionale abruzzese, ha definito la questione «non solo locale ma europea». Ha avvertito: «Così come sono impostate, certe politiche del Green Deal rischiano di essere un suicidio industriale per territori come la Val di Sangro. Servono infrastrutture, adeguamenti tecnologici e politiche energetiche capaci di ridurre il divario competitivo con altri Paesi».
Paola Inverardi, rettrice del Gran Sasso Science Institute, ha sottolineato l’urgenza di investire in ricerca e innovazione: «Solo puntando sulle eccellenze tecnologiche e accademiche possiamo recuperare competitività».
Daniela Di Pancrazio, vicepresidente di Confindustria Abruzzo, ha posto l’accento sul capitale umano: «Formazione, nuove competenze, aggiornamento continuo. La riconversione industriale non significa solo cambiare motore, ma cambiare processi, catene del valore, modelli produttivi».
Marco Matteucci, responsabile automotive di Confindustria Medio Adriatico, ha evidenziato il rischio di un cambiamento solo teorico: «Le ibride crescono nelle vendite, ma senza incentivi stabili e reti di ricarica diffuse l’elettrico non decollerà».
Sorprendente anche l’intervento di Luigi Galante, storico direttore della ex Sevel/Stellantis, che ha portato un punto di vista interno: «Gli errori di strategia ci sono stati, ma ci sono anche leve che possono essere usate: dialogo continuo col territorio, investimenti infrastrutturali, un serio piano energetico».
Dal dibattito sono emersi con chiarezza alcuni nodi strutturali che frenano l’automotive italiano. Energia: in Italia costa troppo, rendendo non competitiva la produzione di batterie e componenti. Gigafactory di Termoli: promessa mancata, rischio di ridimensionamento o abbandono. Concorrenza cinese: prodotti low-cost e più avanzati tecnologicamente che invadono i mercati.
Governance della transizione: oggi decisa nei vertici aziendali, senza coinvolgimento reale di sindacati e territori. Politiche industriali: incentivi concentrati sugli acquisti, poco su produzione, R&S e filiera. Urgenza: i dati in calo parlano chiaro, il tempo per recuperare competitività è ormai ridotto.
Da Atessa è partita una richiesta precisa al governo: convocare tavoli dedicati con la Presidenza del Consiglio per definire un piano industriale nazionale per l’automotive; pretendere da Stellantis trasparenza sui piani e coinvolgimento dei sindacati; introdurre incentivi forti per la produzione nazionale e la filiera delle batterie; strategie per abbassare i costi energetici, anche con tariffe dedicate ai grandi consumatori; investimenti in formazione e infrastrutture industriali, dalle reti di ricarica alla logistica.
A tirare le somme è stato di nuovo Carlo Calenda, con un monito: «Siamo davanti a una delocalizzazione silenziosa: non chiusure improvvise, ma un trasferimento graduale di componenti e investimenti all’estero. Quando ce ne accorgeremo sarà troppo tardi».
Il convegno ha lasciato un messaggio chiaro e trasversale: la transizione non è rinviabile, ma senza un piano chiaro e una regia nazionale la desertificazione industriale è dietro l’angolo. Atessa paga un crollo produttivo vertiginoso, Termoli è a un bivio: reinventarsi o morire. E senza scelte concrete, l’Italia rischia di restare senza un’industria automobilistica. Il tempo per invertire la rotta è già scaduto.
Emanuele Bracone
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