Il Centro comune di ricerca (Jrc) della Commissione europea ha pubblicato un nuovo studio volto a indagare il flusso dei materiali in plastica che attraversa l’Europa, insieme ai relativi impatti ambientali. Il dato di partenza è che la produzione di plastica nell’Ue-27 è ammontata a 57,9 Mt nel 2022, con solo l’1,1% delle esigenze totali coperto da plastica bio-based. Viene inoltre messo in evidenza il predominio del settore imballaggi, che rappresenta il 33,9% del consumo totale di plastica, ma rilevanti flussi vanno anche a costruzioni (22,3%) e trasporti (8,1%).
Nonostante siano stati raccolti correttamente 36,6 Mt di rifiuti (86% dei rifiuti plastici generati), quantità significative di plastica sono state perse o gestite male lungo la catena del valore, ammontando a 6,6 Mt (11,4%). Il tasso medio di riciclo alla fine della vita nell’Ue-27 era del 19,6%, principalmente grazie alle attività di riciclo meccanico (con un contributo oggi trascurabile del riciclo chimico).
Di grande interesse il dato di flusso che riguarda gli output. Il 67,7% delle plastiche immesse al consumo diventa rifiuto nello stesso anno della commercializzazione e solo il 29,8% compone gli stock di prodotti e manufatti di più lunga durata.
È questo il contesto in cui l’Associazione europea dei riciclatori di plastica (Pre) ha lanciato nei giorni scorsi un allarme drammatico: «Un’ondata di chiusure di impianti di riciclaggio della plastica colpisce l’Europa», sottolineando che «l’industria europea del riciclo della plastica è sull’orlo del collasso». E le imprese italiane sono investite appieno dal problema.
Assorimap, l’Associazione nazionale riciclatori e rigeneratori di materie plastiche aderente a Confimi Industria, ha inviato una lettera al ministro Pichetto sostenendo che «l’industria privata del riciclo, a seguito di una serie di congiunture negative, non è più in condizione di proseguire le attività». La filiera che conta complessivamente oltre 350 imprese, impiega più di 10mila addetti e dispone di una capacità installata di riciclo pari a 1 milione 800mila tonnellate, rischia il collasso. Pur ribadendo al ministro dell’Ambiente «l’apprezzamento per la disponibilità dimostrata dalla sua struttura in occasione degli incontri intercorsi, dopo diversi mesi non abbiamo riscontri sostanziali», si legge nella lettera. Un niente di fatto che si traduce in «un’assenza di provvedimenti di supporto a differenza di quello che accade in altre Paesi – come Francia e Spagna». Prima la crisi pandemica, poi i costi energia e la concorrenza della produzione di polimeri vergini low cost di provenienza asiatica: da anni le imprese del riciclo meccanico delle plastiche denunciano la crisi.
«Chiediamo di avviare tempestivamente le necessarie azioni e, contestualmente – conclude la lettera a firma del presidente di Assorimap Walter Regis – istituire un Tavolo istituzionale permanente per il riciclo meccanico delle plastiche, indispensabili per evitare la chiusura delle attività».
Sulla stessa linea Claudia Salvestrini, direttrice generale del Consorzio nazionale dei rifiuti dei beni in polietilene Polieco: «La crisi del riciclo è stata determinata dall’assenza di una visione politica lungimirante che non ha consentito di prevenire cattive prassi nella gestione dei rifiuti. Aver puntato su una raccolta di rifiuti basata sulla quantità e non sulla qualità è stato deleterio e questo – sottolinea Salvestrini – lo diciamo ormai da tempo».
Il consorzio Polieco, che nella sua mission ha il monitoraggio della tracciabilità dei rifiuti dei beni in polietilene, fin dai primi anni Duemila, ha denunciato e segnalato alle Autorità competenti l’esistenza di flussi, rivelatisi illegali, verso Paesi esteri: «Forse, la nostra azione sarebbe stata maggiormente incisiva se fossimo stati affiancati con più vigore proprio da chi avrebbe dovuto rappresentare il settore e invece – incalza la direttrice – troppe volte siamo stati voce fuori dal coro nel segnalare le esportazioni dei rifiuti prodotti in Italia destinati a impianti esteri, spesso inesistenti o inadeguati, con la conseguenza di ingenti quantità sottratte al circuito del riciclo: se sul fenomeno si sono accesi i riflettori, lo si deve soprattutto al lavoro dei giornalisti investigativi e di una politica europea più vicina alle esigenze del comparto».
Dinanzi a una crisi così evidente, Salvestrini si chiede come questa possa essere conciliabile «con le altissime percentuali di riciclo puntualmente presentate come modello d’eccellenza: c’è evidentemente da riflettere sull’attendibilità dei numeri e sulla necessità di certificare i dati. Se la miopia politica ha demotivato gli imprenditori che non hanno più investito in nuove tecnologie, adesso è arrivato il momento di cambiare rotta con investimenti nell’innovazione e condizioni che rendano concorrenziali le imprese italiane del riciclo».
«I dati della Fondazione Openpolis lasciano pochi dubbi – aggiunge nel merito Patty L’Abbate, vicepresidente della commissione Ambiente della Camera – nella mission ‘transizione ecologica’ del Pnrr, alla voce specifica sui progetti “Faro” di economia circolare, non c’è stato in questo 2025 il cambio di passo tanto sventagliato da Foti, Fratin e compagnia. Dei 75 progetti previsti per ammodernare il trattamento meccanico e chimico dei rifiuti con particolare riferimento alle plastiche, solo 54 ne sono stati avviati e solo tre hanno ricevuto il 100% del finanziamento previsto. Se si allarga il discorso a tutti i progetti per il trattamento rifiuti o per le nuove tecniche di riciclo previsti dal piano, anche per carta, vetro e organico, dei 600 milioni previsti per 167 progetti ne sono stati elargiti malapena il 17%, cioè poco più di 100 milioni. Ancora una volta, la sensazione è che il governo non creda minimamente in tutto ciò che è transizione green».
Per quanto riguarda la filiera circolare della plastica, a soffrire è soprattutto chi fa “solo” riciclo: ovvero acquista sul mercato gli imballaggi post-differenziata già selezionati dalle apposite piattaforme, li ricicla e poi li vende sul mercato generalista scontrandosi coi prezzi più bassi delle plastiche vergini o del riciclato estero. Sta assorbendo invece meglio il colpo chi può contare su una filiera integrata, gestendo al contempo la raccolta sul territorio, la selezione degli imballaggi e il riciclo effettivo delle frazioni plastiche; in questo modo le due attività a monte compensano in parte le difficoltà dell’ultimo tassello, dove comunque va meglio chi è in grado di produrre granuli sulla base di specifiche precise da parte dei clienti finali anziché presentarsi semplicemente sul mercato con un prodotto generico.
Che fare? Per Alessia Scappini, amministratrice delegata di Revet – il principale hub per il riciclo dell’Italia centrale, con base a Pontedera, che rientra tra gli attori di filiera integrata – occorre una risposta rapida quanto decisa ai segnali in corso: «L’Ue e in particolare l’Italia, da essere modello dell’industria del riciclo della plastica stanno vivendo una forte crisi di settore. L’importazione di materiali “riciclati” che entrano in Ue senza soddisfare gli standard di sostenibilità e sicurezza normativi rendono poco competitiva l’industria europea: in questo contesto l’Italia sotto la morsa del caro energia è ancora più danneggiata. Per questo serve un intervento più coraggioso del legislatore, che si muove su questi temi ancora a macchia di leopardo, introducendo controlli efficaci nelle importazioni, misurazione delle performance ambientali con riconoscimento dei crediti di carbonio, accesso ad energia rinnovabile a prezzi calmierati per il settore della green economy».
L’auspicio è che questa consapevolezza possa essere ben radicata nel Tavolo istituzionale che, dopo gli appelli del settore, il Mase si è appena deciso a convocare per l’8 ottobre: oltre ad Assorimap, a partecipare saranno anche a Conai e Corepla, Polieco, Coripet, Assoambiente, Enea, Centro Nazionale Rifiuti di Ispra, Anci e Utilitalia.
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