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“La sovranità dell’Europa è a rischio”


Eppure vi avevo avvisati. L’ex presidente della Bce e del Consiglio Mario Draghi, davanti alla platea riunita da Ursula von der Leyen al palazzo Charlemagne, a Bruxelles, per celebrare un anno dalla presentazione del suo rapporto sulla competitività dell’Ue, non lo ha detto, ma il suo discorso, un anno dopo, è suonato come una rampogna agli Stati membri dell’Ue, incapaci di avere una reazione collettiva all’altezza della gravità della situazione, e alle stesse istituzioni europee, troppo timide per imporsi su Paesi membri che insistono ad agire secondo linee nazionali, anziché unirsi in uno sforzo comune, il solo che potrebbe dar loro una chance di recuperare il divario che separa l’Europa da Usa e Cina.

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L’Ue e i dazi

Divario che si va allargando. Come si vanno facendo più “acute” le “sfide” che l’Europa ha di fronte a sé, dato che “le fondamenta della crescita dell’Europa, un commercio mondiale in espansione ed esportazioni ad alto valore aggiunto, si sono ulteriormente indebolite“. Mentre gli Usa “hanno imposto i dazi più elevati dal tempo dello Smoot-Hawley Tariff Act”, che il presidente Herbert Hoover volle nel 1930 come risposta alla Grande Crisi scatenata dal crollo di Wall Street dell’ottobre 1929, la Cina “è diventata un concorrente ancora più forte”, scaricando le sue merci sull’Europa. Prova ne sia che, “dal dicembre dello scorso anno, il surplus commerciale della Cina nei confronti dell’Ue è cresciuto del 20%”.

Draghi ha ringraziato von der Leyen, che ha fortemente voluto la conferenza a Bruxelles per preparare il terreno in vista dei summit di ottobre, per aver ricordato il “servizio” che ha prestato all’Europa (“Grazie, Mario”, ha detto la presidente in italiano). Lui, che è e resta un ‘civil servant’, ha apprezzato: “Grazie per avermi dato l’opportunità di servire l’Europa, cosa che cerco di fare al meglio delle mie possibilità”, ha detto. Per poi ricordare a tutti il prezzo dell’inazione: “Abbiamo visto – ha notato – come la capacità dell’Europa di rispondere sia limitata dalle sue dipendenze, anche quando il nostro peso economico è considerevole”.

Con il ritorno della politica di potenza, quella puramente economica della ‘potenza erbivora’, sempre meno rilevante sullo scacchiere internazionale, non basta più, come hanno constatato gli europei, a loro spese, quando l’America di Donald Trump ha messo sul tavolo della trattativa sui dazi anche la difesa dell’Europa e il destino dell’Ucraina. Non solo. “La dipendenza dalle materie prime critiche cinesi ha limitato la nostra capacità di impedire alla sovraccapacità cinese di inondare l’Europa, o di contrastare il suo appoggio alla Russia”, ha constatato Draghi.

L’Ue, ha concesso, “ha iniziato a rispondere”, ma deve fare molto di più. Sostituire gli Usa, che assorbono “circa tre quarti del deficit delle partite correnti globale”, è semplicemente “irrealistico”, almeno “nel breve termine”, ma l’accordo con il Mercosur darà “qualche sollievo” agli esportatori europei. La Commissione “ha lanciato progetti strategici per le materie prime critiche” e la spesa per la difesa “sta crescendo rapidamente”. E qui è arrivato l’affondo rivolto alle capitali, che l’anno scorso fecero orecchie da mercante, e in qualche caso accolsero con malcelato sarcasmo la stima di almeno 800 mld di euro l’anno di investimenti aggiuntivi che il rapporto Draghi conteneva, citando peraltro la stessa Commissione.

Lui l’aveva detto chiaramente: ottocento miliardi l’anno erano una stima “conservativa”. Ora, dopo un anno di ‘melina’, il conto è aumentato: “La Bce ora pone i requisiti annui di investimenti per il 2025-31 a quasi 1.200 miliardi di euro, in rialzo da 800 mld un anno fa”, un balzo del 50%. Come se non bastasse, “la quota pubblica” di questi investimenti “è quasi raddoppiata, dal 24% al 43%, 510 mld di euro in più l’anno, dato che la difesa è finanziata principalmente dal pubblico”. Eppure lui l’aveva detto ai ministri delle Finanze: “Please do something!”, per favore fate qualcosa. A Berlino e all’Aja stamani sarà fischiato qualche orecchio.

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Il fatto è, ha aggiunto Draghi, che “lo spazio nei bilanci è scarso“, dato che, anche “senza queste nuove spese”, il debito pubblico dell’Ue “dovrebbe crescere di 10 punti percentuali nel corso del prossimo decennio”, raggiungendo “il 93% del Pil”. E questo “su ipotesi di crescita superiori alla realtà odierna”. Quindi, “un anno dopo, l’Europa si trova in una posizione più difficile. Il nostro modello di crescita si sta afflosciando. Le vulnerabilità crescono e non c’è un percorso chiaro per finanziare gli investimenti che ci servono”. E di recente, ha aggiunto, “ci è stato ricordato, dolorosamente, che l’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra stessa sovranità“.

Le tre priorità del rapporto Draghi

Il rapporto che porta il suo nome, ha ricordato Draghi, individua “tre priorità”, e cioè “chiudere il differenziale nell’innovazione riguardante le tecnologie più avanzate”, “tracciare un percorso di decarbonizzazione che sostenga la crescita” e “rafforzare la sicurezza economica”. Tutte priorità che sono “al centro dell’agenda della Commissione”, eppure i cittadini sono sempre più “frustrati” quando vedono “quanto lentamente si muove l’Europa”. I cittadini europei “temono che i loro governi non abbiano colto la gravità del momento”.

E “troppo spesso – ha notato – vengono accampate scuse per questa lentezza”, come quando si dice che il “processo” è “complesso” e “tutti gli attori devono essere rispettati”. Di più: “A volte l’inerzia è presentata come rispetto dello Stato di diritto”. Questo, ha affondato Draghi, significa “dormire sugli allori”, dato che i concorrenti Usa e Cina “sono assai meno contenuti” nelle loro azioni. E “andare avanti come se nulla fosse significa rassegnarci a restare indietro”. Quindi, occorrono “una nuova velocità, una nuova dimensione e una nuova intensità”. Questo vuol dire “agire insieme”, non “frammentare i nostri sforzi”. Significa “focalizzare le nostre risorse dove l’impatto è maggiore” e produrre risultati “nel giro di mesi, non di anni”. Perché, di tempo, l’Ue ne ha sempre di meno.

L’intelligenza artificiale

A questo punto, l’ex presidente della Bce ha impugnato, metaforicamente, il bastone. E ha consegnato alla platea della ‘bubble’ bruxellese una disamina realistica, dura e spietata della condizione in cui versa l’Europa, partendo dall’intelligenza artificiale, per “l’adozione” della quale, aveva appena detto von der Leyen (usando la parola adozione non a caso, perché nella creazione dell’Ia la corsa è a due, tra Usa e Cina), il Vecchio Continente sarebbe ben posizionato. L'”adozione” dell’Ia, ha concesso Draghi, in Europa sta “crescendo”, con le imprese che stanno adottando tecnologie avanzate “a un tasso simile a quello delle imprese Usa”, anche se “partendo da una base minore”. Ma “i divari sono grandi”. Sulla “frontiera” dell’innovazione, gli Usa hanno prodotto “40” grandi modelli fondativi l’anno scorso, la Cina “15”, l’Ue “solo 3”.

E, tra le pmi del Vecchio Continente, il tasso di adozione “è ancora basso, intorno al 13-21%”. Come se non bastasse, sul punto “più strategico”, l’Ia “costruita su proprietà intellettuale europea”, il progresso è “minimo”. Per Draghi, occorre dunque “più ambizione” in diverse aree. Il cosiddetto “28esimo regime” normativo, che dovrebbe aiutare le imprese a crescere rapidamente, sarebbe “importante per dare ai giovani europei una chance nel loro continente” e su questo la Commissione “sta andando nella direzione giusta”. Ma, “con il sostegno incerto da parte degli Stati membri – prevede – il primo passo sarà probabilmente limitato a una identità digitale per le imprese”. Per crescere, ha ricordato, le start up hanno bisogno di fondi. E il fondo ScaleUp Europe “può aiutarle a crescere”. Beninteso, “se la sua dimensione corrisponde al loro fabbisogno finanziario”.

E l’aumento della dotazione del fondo per la ricerca Horizon Europe a “175 mld” di euro è “benvenuto”, ma, per una ricerca che produca “progressi decisivi”, non sarà sufficiente, a meno che le risorse non vengano “concentrate” su programmi “prioritari” con una dimensione adeguata. I soldi devono andare ai “centri di eccellenza”, focalizzandosi su progetti di ricerca “ad alto rischio e ad alto rendimento”, scelti con un procedimento “simile a quelli che usa la Darpa”, agenzia federale degli Usa. Devono esserci “forti legami con l’industria” con le università, per trasformare la ricerca “in applicazioni reali”. Qui è arrivato un altro affondo: “L’attuazione deve essere affidata a esperti manager di progetto, non a burocrati”.

La legislazione

Un’altra area sulla quale l’Ue dovrebbe intervenire è la legislazione. Draghi ha citato il Gdpr, il regolamento Ue sulla protezione dei dati, che aumenta il costo di acquisizione dei dati per le imprese europee del “20%” rispetto alle concorrenti Usa. Andrebbe sfrondato “radicalmente” e non basta qualche “semplificazione” a beneficio delle pmi.

Ha quindi criticato, ancora una volta, l’Ia Act, legge della quale il Parlamento Europeo andava molto fiero. Ciò che riguarda la “prossima fase”, cioè “i sistemi di Ia ad alto rischio in aree come infrastrutture e salute”, deve essere “proporzionato” e “sostenere innovazione e sviluppo”. A suo parere, “l’attuazione di questa fase” normativa dovrebbe essere “messa in pausa”, almeno “finché non ne capiremo meglio” le implicazioni. Per Draghi, inoltre, sarà fondamentale per l’Europa lavorare sulle “applicazioni settoriali” dell’Ia, area in cui ha un “vero vantaggio” data la competenza europea nelle macchine utensili. Per questo, “industrie e governi devono lavorare insieme” per sviluppare “soluzioni di proprietà europea”.

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L’energia

Altro nodo critico, l’energia. I prezzi del gas, ha notato Draghi, sono “il quadruplo” di quelli degli Usa. I costi dell’energia pagati dalle industrie sono circa “il doppio” di quelli sostenuti dalle concorrenti americane. “A meno che questo divario non venga ridotto, la transizione ad una economia ad alta tecnologia andrà in stallo”, ha ammonito. La Commissione ha agito, con il Clean Industrial Deal e altri provvedimenti, ma principalmente ha “allentato le norme sugli aiuti di Stato”, consentendo ai Paesi di “sovvenzionare i prezzi”. Anche se ciò porta un “sollievo temporaneo”, non risolve le “ragioni strutturali” per le quali l’energia in Europa è “così costosa”.

Le ragioni del caro-energia sono diverse, a partire dal “prezzo del gas”, che è ancora “doppio” rispetto all’era pre-Covid, nonché “sistemi di prezzo per cui il prezzo del gas fissa ancora il prezzo di mercato dell’elettricità, anche se le rinnovabili si espandono”, oltre ad alte “tasse” e oneri di vario tipo. Per Draghi, la decarbonizzazione “è il modo migliore, a lungo termine, per raggiungere l’indipendenza energetica”, ma non è un pranzo di gala. Per metterla a terra servono “investimenti molto più rapidi” per far funzionare un sistema “ad alto tasso di rinnovabili”, e cioè “reti, interconnessioni e una base di generazione pulita come il nucleare”.

E, anche qui, ha affondato: oggi “la metà” della capacità transfrontaliera “non ha alcun piano di investimenti”. Anche quando i progetti vengono approvati, in Europa procedono con una lentezza esasperante: “Prendono oltre dieci anni”, nota, e “la metà del tempo va persa” per ottenere permessi, autorizzazioni e licenze. Anche se le interconnessioni e gli investimenti nelle reti sono necessari, non porteranno risultati a breve: per questo, servono misure per “tagliare i prezzi” dell’energia “velocemente”. Questi mezzi sono due: “Migliorare il funzionamento dei mercati del gas e allentare la presa del gas sui prezzi dell’elettricità”, ha detto, riecheggiando battaglie per cui si era speso anche quando era presidente del Consiglio, insieme all’allora ministro Roberto Cingolani. Allora gli interessi particolari degli Stati membri si frapposero in Consiglio: i Paesi Bassi, in particolare, dove ha sede il mercato del gas Ttf, hanno sempre opposto resistenza ai tentativi di riforma.

Per Draghi, la decarbonizzazione deve essere “pragmatica” e “flessibile”, non dogmatica. E, altro affondo, “in alcuni settori, come nell’automotive, gli obiettivi sono basati su assuzioni che non tengono più”. Per passare davvero all’elettrico, ha ricordato, l’installazione di punti di ricarica “deve accelerare di 4-5 volte nei prossimi cinque anni”, al fine di raggiungere una “copertura adeguata”, mentre nell’e-car “l’innovazione Ue è rimasta indietro” e i modelli disponibili “restano costosi”, mentre le catene del valore sono tuttora “frammentate”. Nei prossimi mesi, ha avvertito, il settore automotive “metterà alla prova la capacità dell’Ue di allineare regolazione, infrastrutture e sviluppo della catena del valore in una strategia coerente”, indispensabile per un’industria che “dà lavoro ad oltre 13 milioni di persone”.

Nazionalismo economico

Davanti al risorgere del protezionismo e del “nazionalismo economico”, ha continuato Draghi, la risposta europea a quello che è un “mondo molto diverso” da quello in cui l’Ue credeva di vivere è caduta in due “trappole”. Prima trappola, una risposta degli Stati “non coordinata”. Seconda trappola, una “cieca fede” nella mano invisibile del mercato. La prima, ha notato l’ex allievo di Federico Caffé, “non potrà mai garantire la scala necessaria. La seconda è impossibile, quando altri distorcono i mercati e alterano il campo di gioco”.

E dunque, all’Europa occorrono “tre leve” per agire. La prima, un “nuovo approccio” al “coordinamento degli aiuti di Stato”, che spesso agiscono come “protezionismo, chiudendo l’attività dentro i confini” nazionali, anziché “costruire imprese europee competitive a livello globale”. Uno strumento c’è: sono i progetti di interesse comune europeo (Ipcei), ma sono “essenzialmente nazionali nel loro disegno e finanziamento”, cosa che crea un “tetto” rispetto ai concorrenti.

Proprio per questo, come ha già detto la Corte dei Conti Ue, è “molto improbabile” che l’Ipcei per i microchip raggiunga l’obiettivo che si è dato, una quota di mercato globale nella produzione di semiconduttori del 20% entro il 2030. L’Ue dovrebbe imparare dal programma Rapidus del Giappone, che concentra le risorse disponibili su un “singolo leader di grandi dimensioni attivo nei semiconduttori avanzati”.

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Un’altra leva, ha notato l’ex premier, è quella degli appalti pubblici, che sono uno “strumento potente” per “creare un mercato”. Tra l’altro, dato che nell’Ue pesano per il 16% del Pil, riservarne anche solo “una piccola parte” alle industrie europee creerebbe una “domanda stabile di innovazione e rafforzerebbe settori strategici”. Ma, per avere successo, la gestione degli appalti va “armonizzata” tra gli Stati membri, per evitare di “scivolare nel protezionismo”, senza raggiungere la “dimensione” necessaria.

La terza leva è la politica di concorrenza. Nel settore della difesa, le fusioni non sono “necessariamente una minaccia per i consumatori”. Al contrario, tagliano le “duplicazioni” nella ricerca e sviluppo, abbassano i costi e “accelerano l’innovazione”. Negli Usa e in Cina, i colossi degli armamenti non beneficiano solo dei “sostegni dello Stato” e dei “vasti mercati degli appalti”, ma anche dal “consolidamento” che avviene nel settore. L’Europa, invece, resta “divisa” tra “più campioni nazionali”, con “basi industriali” piagate da “sovrapposizioni”. Pertanto, la “revisione” delle linee guida sulle fusioni deve accelerare, perché l’industria “non può aspettare fino al 2027”. Come “minimo”, serve un processo di “fast track”.

L’Ue deve andare più veloce

In ultima analisi, l’Ue deve andare “più veloce”. Occorrerebbe riformare i trattati, ma per questo “occorre tempo”, tempo che “potremmo non avere”. E dunque, l’Ue deve procedere e andare avanti usando le “cooperazioni rafforzate”, coalizioni di “volenterosi” tra i Paesi che ci stanno. Se riuscirà, questo percorso porterà “naturalmente” a valutare l’emissione di “debito comune” per perseguire “obiettivi comuni”, ha aggiunto il salvatore dell’euro. Un’emissione congiunta di obbligazioni, ha osservato, “non espanderebbe magicamente lo spazio di bilancio”. Tuttavia, consentirebbe all’Europa di finanziare “progetti più grandi in aree che aumentano la produttività, dove la spesa nazionale frammentata non può più bastare”.

Questi progetti, “aumentando la produzione più rapidamente dei costi di interesse”, ripristinerebbero “gradualmente lo spazio di bilancio” e renderebbero “più facile” finanziare esigenze di investimento “più ampie”. Non solo. Abbattendo le barriere che rendono un ginepraio il mercato unico, si faciliterebbe anche “la crescita dei mercati europei” dei capitali, oggi frammentati e dalle capacità limitate. Certo, bisognerà superare dei “tabù” consolidati, ma altri, come Cina e Usa, lo hanno già fatto. L’Europa non può farsi frenare da limiti “autoimposti”.

E quindi, ecco il messaggio in vista dei Consigli Europei di ottobre, uno informale a Copenhagen e l’altro a Bruxelles: i leader europei dovranno mettere in campo “azioni straordinarie”, adatte ai “tempi straordinari” che viviamo. E l’Ue dovrà abbandonare le “ampie strategie”, per passare a “date concrete” e “risultati misurabili”.

Perché, ha avvertito infine, “i cittadini europei chiedono che i loro leader sollevino gli occhi dalle loro preoccupazioni quotidiane, guardando al comune destino europeo, e colgano la dimensione della sfida”. Solo “l’unità di intenti e l’urgenza della risposta” dimostreranno che hanno recepito il messaggio. Chissà se questa volta i Ventisette, che hanno tutti, chi più chi meno, il problema di come farsi rieleggere, lo ascolteranno.

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