di Paolo Longobardi, Presidente di Unimpresa
Le parole di Mario Draghi, pronunciate oggi a Bruxelles, risuonano come un monito severo ma necessario. L’ex presidente della Bce non è mai stato incline agli eccessi retorici: la sua forza è sempre stata la sobrietà dei toni, la precisione dei numeri, la capacità di guardare oltre l’immediato. Eppure, quando Draghi afferma che “l’inazione minaccia non solo la nostra competitività, ma anche la nostra stessa sovranità”, l’Europa dovrebbe fermarsi, riflettere e assumersi la responsabilità di scelte non più rinviabili.
Il cuore della questione è duplice: da un lato, il modello di crescita che ha sostenuto l’Unione negli ultimi decenni mostra crepe evidenti; dall’altro, la mancanza di una visione comune per finanziare gli investimenti strategici rischia di consegnarci a un declino silenzioso, fatto di dipendenze esterne e di vulnerabilità interne. Non è una riflessione tecnica per pochi addetti ai lavori: riguarda la vita quotidiana delle imprese, dei lavoratori, delle famiglie europee.
Le piccole e medie imprese, che rappresentano l’ossatura produttiva dell’Italia e dell’Europa, ne sanno qualcosa. La transizione digitale ed ecologica, la concorrenza globale sempre più aggressiva, i costi energetici e finanziari che restano elevati: tutto questo mette in discussione la loro capacità di restare competitive. Se l’Europa non costruisce un sistema di politiche comuni – industriali, fiscali, finanziarie – il rischio è che ogni Stato membro cerchi soluzioni in solitudine, con un inevitabile indebolimento dell’intero progetto europeo.
Il punto non è solo economico. Draghi tocca il nervo scoperto della sovranità. Un continente che non investe su se stesso, che non innova, che non protegge i propri settori strategici, non è sovrano. Diventa terreno di conquista di interessi esterni, incapace di difendere la propria autonomia politica. L’inazione non è neutralità: è resa.
Per l’Italia, questo discorso vale doppio. La nostra economia, più fragile e più esposta di altre, ha bisogno di un’Europa forte e coesa. Il consolidamento fiscale, che il governo ha perseguito con disciplina, non basta se non è accompagnato da una strategia europea capace di sostenere la crescita e di indirizzare gli investimenti. Senza un quadro comune, rischiamo che le politiche nazionali diventino esercizi solitari, destinati a produrre risultati parziali.
Non si tratta di evocare allarmismi, ma di prendere coscienza che il tempo è scaduto. L’Europa deve dotarsi di strumenti finanziari comuni per affrontare le sfide globali, esattamente come ha fatto durante la pandemia. Allora l’Unione seppe trovare la forza di superare i veti e di immaginare il Next Generation EU. Oggi serve un passo ulteriore: un’Europa che non sia solo custode delle regole di bilancio, ma motore di sviluppo e garante della sua stessa indipendenza.
Unimpresa non può che condividere la preoccupazione di Draghi: le nostre piccole e medie imprese hanno bisogno di certezze, di una cornice politica e istituzionale chiara. In gioco non c’è soltanto la competitività economica. C’è la possibilità, o meno, che l’Europa resti protagonista sulla scena mondiale e non diventi una periferia industriale e politica di altri poteri.
Le parole di Draghi non devono restare un grido isolato. Sarebbe un errore imperdonabile relegarle a un convegno. L’Europa non ha più il lusso dell’inazione.
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