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“La sinistra ha smesso di immaginare il futuro per parlare di numeri, così la destra populista conquista il cuore degli elettori. Servono nuove forme di partecipazione”


TRENTO. In un mondo, quello democratico e occidentale, sempre più polarizzato tra toni esasperati, violenze politiche e posizioni radicali – di questi tempi gli esempi sono molti –, tra le chiavi di lettura più significative per interpretare e governare i grandi cambiamenti degli ultimi anni ce n’è una che si muove al di là dei ristretti orizzonti dati dai calcoli elettorali, così predominanti nel definire le strategie e l’agenda di partiti che in molti casi sembrano bloccati in un eterno presente emergenziale.

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Una chiave di lettura che inverte l’ordine naturale del tempo e parte dall’analisi del concett di futuro per poi risalire a ritroso verso la definizione degli strumenti presenti necessari a definire quella visione, quell’idea di mondo. Parliamo di una funzione, d’altra parte, storicamente originaria dei partiti, il cui ruolo è sempre stato proprio quello di aggregare visioni del futuro da tradurre in progetti politici tramite gli strumenti forniti dal sistema democratico.

 

Come spiega però nel suo ultimo lavoro Jonathan White, professore di Politica alla London School of Economics, quello stesso sistema democratico si trova oggi in una profonda crisi proprio nelle sue capacità di immaginare il futuro – il naturale presupposto per definire un’agenda politica sulla quale lavorare. E proprio perché la democrazia è naturalmente orientata al futuro, riconoscendo implicitamente la possibilità di agire per modificarlo, l’insieme delle emergenze che oggi sembrano “chiudere” o perlomeno mettere “in pericolo” il futuro – dalla crisi climatica alle tensioni geopolitiche – porta a una sorta di presenzialismo, a un insieme statico di politiche reattive più che progettuali.

 

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Come uscire quindi dal circolo vizioso di emergenza-reazione? È questa la domanda che guida i ragionamenti di White nel suo “In the Long Run: the Future as a Political Idea” e intorno alla quale lo stesso professore svilupperà il suo intervento in programma per questo lunedì (15 settembre) a Bolzano, in un evento (“Envisioning the future: democracy, governance, and the politics of tomorrow”) organizzato da Eurac.

 

“Nel volume – spiega White a il Dolomiti – parto da un’analisi storica dell’idea di futuro, di come il concetto di futuro a livello politico sia cambiato profondamente a partire dal 18esimo secolo e di come oggi sia spesso abusato”. La democrazia, ribadisce, dipende per diverse ragioni dal modo in cui una comunità politica guarda al futuro: “Il sistema generalmente regge finché la percezione delle persone è di avere davanti a loro un futuro ‘lungo’, nel quale è possibile intraprendere progetti a lungo termine. Una delle ragioni che mi hanno portato a interessarmi a questo tema è proprio il cambiamento che oggi abbiamo nei confronti di questa percezione: c’è un senso generale di crisi imminente, sia legata alle sfide poste dal cambiamento climatico o dalle crisi geopolitiche”.

 

Un’assenza di tempo – percepita perlomeno –, con effetti pesanti in termini di ricadute sul funzionamento di un sistema democratico: “Così la politica oggi non trova uno ‘spazio’ per lavorare concretamente rispetto al futuro – continua White – ed è fissata più con il raggiungimento di una serie di obiettivi, di target economici, piuttosto che con principi generali e visioni d’insieme”. E la mancanza di spazio immaginativo si riflette in definitiva sull’elettorato: “Un secolo fa i partiti politici erano lo strumento principale per immagine il futuro, questi strumenti integrativi nel 21esimo secolo però sono diventati progressivamente più deboli, sindacati compresi”.

 

Sintomo – o concausa – di una progressiva atomizzazione sociale delle democrazie liberali: “Quel che è certo però è che a livello politico – aggiunge il professore – gli individui che pensano attivamente al futuro, che propongono idee di sviluppo chiare e ambiziose, vengono sistematicamente allontanati dalle posizioni di potere all’interno di molti partiti ‘storici’. Qui sta a mio avviso il punto principale: i partiti stessi devono aprirsi, rendersi più accessibili, meno dominati dalle elite e dal ristretto orizzonte della vittoria elettorale”.

 

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Un obiettivo ambizioso in particolare se inserito nella cornice teoretica che già un secolo fa Michels aveva posto con la sua famosa “Legge ferrea dell’oligarchia” – che postula l’inevitabile formazione di elite all’interno di ogni organizzazione democratica. “Proprio per questo – replica però White – abbiamo forse bisogno oggi di nuovi partiti, nei quali gli strumenti di democrazia partecipativa siano incentivati, anche sulla base delle possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico. I partiti più longevi sono proprio quelli in cui le elite ‘escludenti‘ hanno avuto più modo di formarsi e radicarsi. Questo non vuol dire rinunciare agli strumenti rappresentativi, anzi, ma immaginare un insieme di corpi politici che favoriscano, invece di inibire, la partecipazione dei cittadini a un’idea di futuro che fornisca un indirizzo”.

 

Oggi proprio i partiti di sinistra, che della partecipazione e di una chiara visione di futuro hanno storicamente fatto delle bandiere politiche, sembrano quelli più in crisi in questo paradigma, spiega White: “Le destre populiste e sovraniste, in particolare se si analizza l’idea di tecnocrazia che una figura come Musk sembra incarnare, guardano chiaramente al futuro, tracciando addirittura paralleli con figure come Filippo Tommaso Marinetti. Il centro liberale e il centro-sinistra si preoccupano del domani in termini molto differenti: come di un elemento da calcolare e controllare. Gli indici economici e i target per l’inflazione descrivono tanto le azioni politiche dei governi quanto le traiettorie di enti tecnocratici per definizione come le Banche centrali. La stessa dinamica si può osservare negli obiettivi di decarbonizzazione: il futuro viene immaginato di obiettivo in obiettivo, non in un unicum programmatico”.

 

Una tensione silenziosa tra pragmatismo e idealismo che sempre più spesso si sta risolvendo, a livello elettorale, in favore di quest’ultimo: “E’ chiaro che a destra ci sia la convinzione che gli avversari abbiano ‘abbandonatoil futuro, facendone un terreno politico sul quale capitalizzare consensi. Certo, a livello di policy, nel concreto dunque, raramente le destre sono convincenti: il loro successo è dovuto in larga parte proprio alla decisione del centro-sinistra liberale di appaltare sempre di più la propria idea di futuro a istituzioni di fatto tecnocratiche, restituendo un messaggio politico arido, incapace di arrivare al cuore delle persone”.

 

I primi due step per cercare di invertire la rotta li abbiamo già sottolineati: favorire la partecipazione politica all’interno dei partiti – arrivando se necessario a immaginarne di nuovi – e interrompere il ciclo vizioso del presenzialismo emergenziale e della visione elettorale a breve termine. Il collante necessario per rendere fertile il terreno politico, aggiunge il professore della London School of Economics, è dato però dall’inclusione culturale ed extra-istituzionale di chi, a vari livelli, immagina un futuro diverso.

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“In altre parole – conclude – fare dei partiti anche un luogo di bilanciamento tra l’immaginazione utopica e la praticabilità delle politiche da concretizzare. La maggior inclusione di sperimentazioni culturali nell’universo partitico può essere motore di innovazione e un importante strumento di discussione da traslare anche nell’ambito politico”.





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