Parte oggi la campagna Oxfam Stop Trade With Settlements, a un anno dalla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu che chiedeva a Israele di porre fine all’occupazione illegale in Cisgiordania. Un nuovo rapporto allegato denuncia come i rapporti commerciali degli Stati esteri – in particolare dell’Unione europea – con aziende israeliane nei Territori occupati contribuiscano ad alimentare la crisi umanitaria. Mentre Israele intensifica l’occupazione e l’espoliazione di quei territori, con l’estensione dell’operazione “Muro di Ferro” e la costruzione di nuovi insediamenti abitativi illegali.
Ne abbiamo parlato con Paolo Pezzati, portavoce per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia.
Qual è l’appello più urgente che rivolgete all’Italia e all’Unione europea con questa mobilitazione?
La principale richiesta che emerge dalla nostra campagna riguarda l’introduzione di normative nazionali e, in prospettiva, di provvedimenti di carattere europeo affinché venga messo al bando il commercio con gli insediamenti illegali. Questo commercio, infatti, non fa altro che consolidare e rafforzare una situazione di irregolarità: la presenza stessa delle colonie. La Corte di Giustizia Internazionale, il 19 luglio 2024, non solo ha stabilito l’illegalità dell’occupazione israeliana, ma ha anche invitato Israele a ritirarsi e a risarcire gli sfollati e le vittime. Introdurre una normativa che vieti il commercio con gli insediamenti significa togliere il carburante all’esistenza e allo sviluppo delle colonie.
Negli ultimi cinque anni, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono aumentati del 180%. Israele ha il totale controllo delle risorse idriche e solo nel 2023 ha vandalizzato o distrutto più di 10.000 ulivi di proprietà di agricoltori palestinesi. Tutti questi elementi che conseguenze hanno dal punto di vista sociale ed economico per la popolazione palestinese in Cisgiordania?
Il 7 ottobre non ha rappresentato un punto di svolta, ma ha fornito un pretesto a Israele per accelerare e amplificare dinamiche già in corso. Dopo quella data sono aumentati esponenzialmente gli ordini di demolizione, la violenza dei coloni, gli sfollamenti forzati. Gli ulivi, che rappresentano circa il 14% dell’economia della Cisgiordania, vengono incendiati e distrutti, colpendo duramente i mezzi di sussistenza dei contadini palestinesi. Parallelamente procede un piano record di sviluppo delle colonie e di progressiva annessione della Cisgiordania, ormai dichiarata apertamente da diversi ministri israeliani come parte del progetto della “Grande Israele”. In questo contesto, registriamo un aumento dei check-point, della violenza e un peggioramento delle condizioni di vita, documentati nel rapporto: la povertà è cresciuta fino al 28% negli ultimi due anni e la disoccupazione ha raggiunto il 35%.
Perché arrivano prodotti dai Territori occupati con etichette Made in Israel?
Già vent’anni fa l’Ue aveva chiesto agli esportatori israeliani di fornire il codice postale e i luoghi di produzione dei beni, per distinguere quelli provenienti dagli insediamenti. Ma queste misure non sono state applicate con rigore, e anzi sono state indebolite da accordi bilaterali tra Israele e singoli Stati membri. In più, gli esportatori spesso aggirano le regole “mescolando” produzioni: un prodotto finalizzato in Israele può essere etichettato come israeliano, anche se parte dei materiali proviene dalle colonie. Queste pratiche rendono inefficaci le attuali politiche di differenziazione geografica.
Veniamo all’Unione Europea: è il maggiore partner commerciale di Israele, con un volume di scambi di oltre 42 miliardi di euro nel 2024. Quali misure concrete chiedete per garantire che gli articoli degli insediamenti non arrivino nei nostri supermercati?
Chiediamo di andare oltre le misure esistenti – che non sono state sufficienti – e introdurre un vero divieto, che imponga l’onere della prova affinché un bene o servizio non provenga, neanche parzialmente, dagli insediamenti illegali. È una sfida, ma credo che ora come ora diventi urgente, dato il quadro e il piano generale di Israele: se i paesi europei vogliono con i fatti portare avanti la soluzione millantata dei due popoli due stati, allora questo è uno degli strumenti che permette loro di indebolire la strategia di crescita degli insediamenti. Un’altra misura deve essere quella di investire nello sviluppo delle risorse e delle competenze della popolazione palestinese per rafforzarne l’autodeterminazione.
Multinazionali come Carrefour, Siemens o Barclays continuano a intrattenere rapporti con imprese israeliane insediate in Cisgiordania. Quale messaggio mandate al settore privato?
Abbiamo stilato un elenco di aziende che mantengono relazioni dirette o indirette con gli insediamenti. A loro chiediamo di rafforzare i processi di due diligence sulla catena di fornitura, affinché sia coerente con il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale. Le imprese devono dare segnali chiari: lavorare con gli insediamenti significa perpetuare una situazione di illegalità. Collaborare con associazioni, sindacati e persone colpite dalle violazioni di questi diritti può aiutare a individuare alternative sostenibili nella catena del valore. Anche le aziende possono contribuire, rivedendo parzialmente le loro linee guida e le loro scelte di business.
Infine, cosa chiedete al governo italiano?
Ci rivolgiamo direttamente al parlamento e al governo: le dichiarazioni di condanna rispetto a Gaza e Cisgiordania non bastano più. Chiediamo la sospensione dell’Accordo bilaterale di Difesa con Israele e una revisione della posizione italiana sull’Accordo di Associazione UE–Israele, fino a una interruzione almeno parziale degli accordi commerciali. L’Italia ha un volume di scambi con Israele pari a 4 miliardi: è una leva enorme, insieme a quella europea. Se davvero si crede nella soluzione “due popoli due stati”, è ora di passare ai fatti.
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