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Made in Italy tra guerre e tariffe. Granelli, Confartigianato: «Effetti…


Dalle guerre combattute sul campo, in Ucraina e Palestina, alla tempesta delle tariffe commerciali, gli ostacoli per le imprese (soprattutto quelle piccole) aumentano in uno scenario che rischia di farsi sempre più difficile.

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 Un esempio? A febbraio, esattamente tre anni dopo l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina, i danni economici in Italia sono stimati in 171,4 miliardi di euro. Una cifra che comprende calo delle esportazioni, maggiori oneri finanziari e rincari in bolletta (Fonte: Confartigianato).

Marco Granelli, Presidente di Confartigianato Imprese

«La principale vulnerabilità delle nostre micro e piccole imprese»,  dice a Il Bollettino Marco Granelli, Presidente di Confartigianato Imprese, «è la loro esposizione a shock esterni. Infatti su quelli difficilmente hanno potere d’intervento diretto, anche se impattano fortemente sui costi, sulla logistica e sulla stabilità dei Mercati di sbocco». Qualche dato per capire meglio. I conflitti attualmente in corso mettono a rischio circa 61,4 miliardi di euro di export Made in Italy, mentre il 40% dell’import energetico è esposto. Le imprese potenzialmente più colpite – con esportazioni geograficamente concentrate e rilevanti sul fatturato totale – sono circa 23mila, lo 0,5%, per un totale di 415mila addetti. Ma queste contingenze toccano l’intero sistema produttivo. Minacce sostanziali per una struttura economica come quella italiana, in cui le piccole e medie imprese sono oggi circa 4,9 milioni su un totale di 5,1, contribuendo per il 63% del valore aggiunto e il 76% degli occupati (Fonte: ISTAT).

«Le tensioni internazionali hanno un effetto immediato e spesso sproporzionato sul nostro tessuto produttivo, che rappresenta il cuore del Made in Italy anche se spesso lavora con margini molto ridotti e dipende da forniture globali. Le PMI hanno una grande capacità di adattamento, ma non possono essere lasciate sole a fronteggiare crisi sistemiche».

Quali sono i comparti più colpiti?

«Sicuramente la manifattura, in particolare quella ad alta intensità energetica come la meccanica, l’automotive, la moda, l’alimentare e la chimica. Sono settori che hanno una forte vocazione all’export e che, quindi, soffrono quando i Mercati internazionali diventano instabili o le catene di approvvigionamento si interrompono».

Chi resiste meglio o, paradossalmente, beneficia di questi shock?

«Alcune filiere legate alla digitalizzazione, alla difesa e alla componentistica per l’automazione industriale stanno reggendo bene e, in alcuni casi, trovano nuove opportunità. Inoltre il comparto agroalimentare di qualità, fortemente legato al Made in Italy, continua a essere molto apprezzato all’estero, anche in contesti di crisi. Ma non bisogna farsi illusioni: anche questi settori soffrono per i costi crescenti e per la volatilità del contesto geopolitico».

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L’altro fronte di guerra è quello commerciale…

«I dazi sono un ostacolo pesante soprattutto per le micro imprese, che spesso non hanno le risorse per affrontare lunghi iter doganali, adeguarsi a nuove normative o sostenere costi aggiuntivi. In molti casi, si vedono costrette a rinunciare a Mercati strategici».

Che cosa chiedete?

«All’Europa e al governo italiano chiediamo di intervenire con misure compensative mirate, come agevolazioni fiscali, strumenti di accompagnamento all’export e fondi per la diversificazione dei Mercati».

Il Presidente di CIA, Cristiano Fini, ha parlato di un fondo “azzera-dazi” europeo: è realizzabile?

«Può essere una proposta condivisibile, soprattutto se pensata come strumento temporaneo e selettivo per proteggere le imprese più esposte. Un fondo europeo di questo tipo andrebbe nella direzione di una maggiore solidarietà e coesione all’interno dell’Unione, rappresentando un segnale di vicinanza al mondo produttivo. La sua realizzabilità dipenderà dalla volontà politica dei singoli Stati membri».

«Partiamo da un dato: le imprese italiane pagano l’energia elettrica il 28% in più della media europea. Questo anche a causa del prelievo fiscale e parafiscale sul costo dell’energia elettrica che, per noi, è maggiore del 122,3% rispetto alla media dell’Unione. Questo divario sale al 144,6% per le piccole imprese con consumi fino a 20 megawattora. Una situazione che dipende da squilibri nella tassazione delle bollette delle piccole imprese, che sono penalizzate rispetto alle grandi aziende energivore in nome di un assurdo principio “meno consumi, più paghi”. Da tempo chiediamo che venga modificata questa modalità di imposizione fiscale. Confartigianato dispone di una rete di Consorzi Energia dedicati proprio a garantire l’acquisto di energia elettrica e di gas alle migliori condizioni e al prezzo più basso sul Mercato. Inoltre, i Consorzi svolgono attività di consulenza sulla scelta dei fornitori più adatti alle diverse esigenze dei clienti, offrono consigli su risparmio ed efficientamento energetico, controllo e soluzione di problemi come il mancato rispetto dei diritti contrattuali, la correttezza della fatturazione, i tempi per il cambio di fornitore».

Quali provvedimenti si possono mettere in campo?

«Sollecitiamo interventi di politica energetica su più fronti: diversificazione delle fonti di approvvigionamento, sostegno convinto delle rinnovabili, sviluppo delle Comunità energiche, dei sistemi di autoproduzione di energia, azioni per l’efficientamento e la riqualificazione energetici degli edifici, incentivi per lo sviluppo dell’idrogeno come vettore energetico strategico. Senza trascurare la ricerca sul nucleare pulito, puntando sulle opportunità offerte dalle innovazioni tecnologiche introdotte con i reattori di nuova generazione».

Ci sono i margini strategici per avviare una strategia di diversificazione su scala nazionale?

«Sì, ma serve una visione industriale di medio-lungo periodo. L’Italia deve puntare su una politica energetica nazionale più autonoma, valorizzando le fonti rinnovabili e costruendo una filiera dell’energia distribuita che veda protagoniste le imprese. La diversificazione non è solo geografica, ma anche tecnologica e organizzativa. Le nostre PMI sono pronte a innovare, ma vanno sostenute con strumenti snelli, finanziamenti adeguati e semplificazioni vere».

Nel breve termine, quali sono le mosse più urgenti da fare?

«Tre sono le priorità: ridurre il costo dell’energia per le imprese, semplificare le regole per chi investe in innovazione e garantire accesso alla liquidità. Inoltre, rafforzare le politiche per l’internazionalizzazione, magari con sportelli unici per le PMI che vogliono esportare. Infine, serve stabilità normativa: cambiare continuamente le regole rende impossibile fare programmazione».

Nel sentiment delle imprese prevale la preoccupazione o la voglia di reagire?

«È quasi banale dirlo, ma l’incertezza è proprio la condizione peggiore in cui operare. In tutti i settori, il lavoro dell’imprenditore si basa sulla ragionevole certezza di previsione dei consumi, sulla fiducia dei consumatori, sulla disponibilità di spesa, sugli investimenti pubblici e privati. Gli imprenditori artigiani e delle micro e piccole imprese non si arrendono facilmente: sono abituati a fare i conti con le difficoltà, a reinventarsi. Quello che chiedono, oggi più che mai, è di non essere lasciati soli. La stabilità di cui parliamo è quella che permette loro di fare impresa con fiducia, non con paura. Attenzione quindi a garantire condizioni di efficienza della macchina pubblica per ciò che riguarda le nostre attività imprenditoriali. A tal fine, servono una riduzione della pressione fiscale e del peso della burocrazia, una migliore accessibilità agli incentivi per l’innovazione tecnologica, la capacità di spendere tutti i fondi del PNRR. Infine, politiche energetiche capaci di tenere sotto controllo i costi delle bollette degli imprenditori, migliore accesso al credito e ai finanziamenti indispensabili per affrontare le transizioni Green e digitale».

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©️

Marco Battistone





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