La questione federale è tornata al centro del dibattito europeo, non solo per l’avanzare dell’autonomia differenziata in Italia, ma anche per le crescenti tensioni tra centro e periferia in molte democrazie mature. I dibattiti sulla coesione territoriale, sulla giustizia distributiva e sulla capacità degli Stati di rispondere ai bisogni locali con strumenti efficaci e legittimi stanno assumendo una rilevanza sempre maggiore. In questo contesto, guardare all’Argentina ؘ– una Repubblica federale con una lunga tradizione costituzionale e profonde disparità regionali – può offrire una prospettiva utile, in parte inattesa, ma sorprendentemente illuminante.
L’esperienza argentina evidenzia, in maniera forse più esplicita rispetto ai casi europei, le contraddizioni di un federalismo congelato, dove le regole di ripartizione delle risorse rimangono ferme nel tempo nonostante i cambiamenti sociali, economici e demografici. Non si tratta solo di un problema di efficienza amministrativa o di contabilità pubblica: è in gioco la tenuta stessa del patto federale, e con essa la credibilità delle istituzioni democratiche.
Dal 1994, l’Argentina vive con un sistema di ripartizione fiscale tra Stato centrale e province – noto come coparticipación – che avrebbe dovuto essere transitorio. La riforma costituzionale di quell’anno stabiliva che una nuova legge, fondata su criteri di equità, solidarietà ed efficienza, sarebbe stata approvata “entro il termine di un anno”. Tuttavia, dopo quasi tre decenni, quella legge non è mai stata emanata. Il meccanismo provvisorio è diventato la regola, bloccando ogni possibilità di aggiornamento e adattamento. Le percentuali di trasferimento, concordate in un altro tempo politico ed economico, sono rimaste fisse, indipendenti dai mutamenti della realtà. Questo immobilismo istituzionale ha generato squilibri crescenti, al punto che oggi, in molti territori, la percezione è quella di una ingiustizia strutturale.
Uno dei casi più emblematici di questa distorsione è la provincia di Buenos Aires. Con quasi 17 milioni di abitanti –circa il 40% della popolazione nazionale – contribuisce in modo significativo al Prodotto interno lordo dell’Argentina e ospita la più grande concentrazione di infrastrutture, scuole, ospedali e circuiti produttivi del Paese. Eppure, riceve soltanto il 22% dei fondi ripartiti attraverso il sistema federale. Province molto meno popolate, come La Rioja o Formosa, percepiscono invece trasferimenti pro capite più che doppi. Questa situazione ha costretto il governo provinciale di Buenos Aires a incrementare la pressione fiscale locale, con conseguenze tangibili: aumento delle tasse sugli immobili, tributi sui redditi delle imprese e tensioni crescenti tra necessità di bilancio e qualità dei servizi offerti.
Oltre ai numeri, emerge una crisi di legittimità, ed è qui che l’esperienza europea offre una possibile chiave di lettura alternativa
Ma, oltre ai numeri, ciò che emerge è una crisi di legittimità. Quando milioni di cittadini percepiscono che lo Stato – nelle sue articolazioni federali – non è in grado di distribuire risorse secondo criteri giusti e trasparenti, si rafforza il sentimento di abbandono, s’indebolisce il vincolo democratico e si minano le basi della solidarietà interterritoriale. Ed è qui che l’esperienza europea offre una possibile chiave di lettura alternativa.
Il Fondo sociale europeo (Fse) rappresenta uno dei pilastri della politica di coesione dell’Unione europea. La sua logica è chiaramente redistributiva, ma non si limita a una semplice compensazione tra regioni ricche e povere; al contrario, si fonda su criteri dinamici e verificabili: i fondi sono assegnati sulla base di indicatori oggettivi come il tasso di disoccupazione, il livello di istruzione, la povertà strutturale e la capacità istituzionale dei territori. Inoltre, il sistema prevede cicli di programmazione pluriennali (attualmente 2021-2027), con revisioni intermedie, controlli incrociati e una governance multilivello che coinvolge sia le autorità centrali sia quelle locali.
Tale approccio – che unisce pianificazione strategica, monitoraggio continuo e flessibilità operativa – potrebbe offrire ispirazione anche al dibattito argentino (e più in generale latinoamericano), dove le istituzioni federali mostrano spesso rigidità e opacità. In un Paese in cui la distribuzione dei fondi pubblici è ancora fortemente politicizzata e poco sensibile agli esiti reali delle politiche, la lezione europea può fungere da catalizzatore per una riforma tanto urgente quanto elusa.
Il congelamento della legge sulla copartecipazione in Argentina non è solo una questione tecnica o amministrativa: è una manifestazione tangibile di una crisi più profonda della rappresentanza e della legittimità istituzionale. In un contesto in cui le regole del gioco non cambiano da oltre trent’anni, nonostante mutamenti demografici, economici e sociali profondi, il rischio è che la cittadinanza percepisca lo Stato come distante, iniquo o autoreferenziale.
La distribuzione delle risorse pubbliche è, in ogni democrazia, uno dei momenti centrali in cui si realizza il patto tra rappresentanti e rappresentati. Quando questo meccanismo appare arbitrario, anacronistico o politicamente opaco, s’incrina la fiducia nelle istituzioni e si rafforza la retorica dell’autonomia individuale o locale come unica via di salvezza. In Argentina, questo si traduce spesso in discorsi disgreganti, in cui alcune province difendono lo status quo mentre altre – soprattutto quelle più penalizzate come Buenos Aires – invocano una riforma sistemica.
La mancanza di un aggiornamento legislativo si riflette anche sulla qualità del dibattito politico. La questione federale non è stata centrale nelle ultime campagne elettorali, e solo pochi partiti o candidati hanno proposto con serietà una revisione del sistema. Questo silenzio riflette una cultura politica poco propensa alla negoziazione e al compromesso interprovinciale, e alimenta una forma di “federalismo a bassa intensità”, in cui le istituzioni esistono formalmente ma non producono strumenti efficaci di coordinamento, controllo e riequilibrio.
In questo quadro, il confronto con l’Europa appare ancor più stimolante. L’Unione europea, pur tra mille difficoltà, ha costruito negli anni una rete di organismi, regolamenti e fondi che permettono alle regioni di dialogare, collaborare e pianificare politiche comuni. I meccanismi di coesione non sono solo economici, ma anche deliberativi: coinvolgono città, province, ong, università e società civile in processi di governance multilivello. In America Latina, dove le istituzioni multilivello sono ancora deboli, il rafforzamento di queste dinamiche rappresenta una condizione necessaria per uscire dall’impasse.
Alla luce di queste esperienze, è possibile immaginare per l’Argentina un modello di federalismo fiscale più coerente con le sue sfide attuali, ispirato alla logica della coesione territoriale europea. La proposta potrebbe articolarsi in tre livelli complementari.
Primo: una quota di copartecipazione automatica, rivista periodicamente, che garantisca un livello minimo di funzionamento statale in tutte le province. Tale quota dovrebbe essere aggiornata ogni cinque anni in base a criteri trasparenti: popolazione reale (non teorica), densità abitativa, grado di sforzo fiscale locale e indicatori sociali come il livello di accesso a servizi essenziali. Questo meccanismo sarebbe simile al “livello minimo garantito” presente in molte politiche redistributive europee.
Secondo: la creazione di un Fondo federale per la convergenza territoriale, finalizzato al finanziamento di progetti strategici nelle aree ad alta vulnerabilità. Non si tratterebbe solo delle province del Nord meno sviluppate, ma anche di zone critiche all’interno di province più grandi, come il conurbano bonaerense, caratterizzato da elevati livelli di disuguaglianza sociale e urbanizzazione caotica. In questi contesti, anche i comuni formalmente ricchi presentano sacche di povertà profonda e gravi carenze infrastrutturali. Il fondo potrebbe sostenere interventi in materia di trasporti, edilizia scolastica, sanità territoriale e rigenerazione urbana.
Terzo: un Fondo per l’innovazione e la transizione giusta, dedicato a sostenere processi di riconversione produttiva, decarbonizzazione e digitalizzazione, con un’attenzione specifica alla sostenibilità ambientale e all’inclusione lavorativa. Questo strumento, simile al Just Transition Fund europeo, aiuterebbe le regioni a rischio di marginalizzazione tecnologica o ambientale a intraprendere percorsi di sviluppo compatibili con le nuove sfide globali.
Un sistema che non si limita a redistribuire risorse in modo orizzontale ma che promuove l’innovazione, premia lo sforzo e costruisce capacità istituzionale a lungo termine
In Italia, il dibattito sull’autonomia differenziata e sul futuro della coesione interna rende ancora più attuale la riflessione sul federalismo. Le tensioni tra le regioni a statuto speciale e quelle ordinarie, le divergenze nei livelli di spesa sociale e le resistenze politiche alla redistribuzione sono dinamiche che, pur con caratteristiche diverse, ricordano i nodi irrisolti del modello argentino. Anche in Europa, dunque, la coesione territoriale non può essere data per scontata: richiede istituzioni capaci di rinnovarsi, strumenti flessibili e un patto sociale che non si esaurisca nella retorica delle autonomie, ma si fondi su equità, solidarietà e responsabilità condivisa.
Un tale schema permetterebbe di affrontare non solo le disuguaglianze tra province, ma anche quelle intraprovinciali, spesso ignorate. La provincia di Buenos Aires, ad esempio, contiene al suo interno realtà profondamente divergenti: dai distretti industrializzati con alti livelli di sviluppo umano ai municipi rurali con accesso limitato a strade asfaltate, sanità pubblica e istruzione secondaria. Senza un meccanismo che riconosca queste fratture interne, qualunque riforma rimarrà incompleta.
A livello internazionale, diverse organizzazioni multilaterali come la Cepal (Commissione economica per l’America latina e i Caraibi), la Banca mondiale e il Bid (Biodiversity Information for Development) hanno evidenziato l’importanza di rafforzare le capacità fiscali subnazionali nei Paesi federali dell’America Latina. In molti casi, i fondi trasferiti dal centro non sono accompagnati da obblighi chiari di trasparenza, efficienza o aggiornamento fiscale. Ciò genera un circuito vizioso in cui alcune province dipendono in modo strutturale dai trasferimenti, senza incentivare la crescita delle proprie entrate o il miglioramento dei servizi pubblici. In questo contesto, la promozione di strumenti di benchmarking, la valutazione comparativa delle performance e la costruzione di indicatori condivisi potrebbero contribuire a una riforma più equa e sostenibile.
Ripensare il federalismo non significa solo rivedere le formule di ripartizione dei fondi pubblici: significa interrogarsi sulla natura del patto sociale tra centro e periferia, sulla capacità dello Stato di essere percepito come equo dai suoi cittadini e sulla tenuta stessa della democrazia rappresentativa in contesti di disuguaglianza territoriale crescente. L’esperienza argentina mostra come un sistema bloccato – incapace di adattarsi ai mutamenti storici e sociali – possa produrre effetti perversi: penalizzare i territori più popolosi e produttivi, incentivare la dipendenza finanziaria di alcune province e alimentare la sfiducia nei confronti delle istituzioni. Ma allo stesso tempo rivela uno spazio di possibilità: l’opportunità di costruire un federalismo basato non sull’immutabilità delle quote, bensì sulla capacità di rispondere in modo differenziato e mirato ai bisogni reali dei territori.
In questo senso, l’approccio europeo alla coesione offre non un modello da imitare meccanicamente, ma un principio guida: quello di un federalismo dinamico, negoziale e basato su evidenze. Un sistema che non si limita a redistribuire risorse in modo orizzontale, ma che promuove l’innovazione, premia lo sforzo e costruisce capacità istituzionale a lungo termine. Un federalismo che non teme la complessità, ma la affronta attraverso strumenti trasparenti, verificabili e partecipativi.
Per l’Europa, osservare casi come quello argentino significa anche interrogarsi sui propri limiti. Le tensioni tra regioni centrali e marginali, tra autonomie e solidarietà, sono presenti anche nei Paesi membri dell’Unione. Rilanciare un dibattito sul federalismo significa, in definitiva, rilanciare l’idea stessa di cittadinanza attiva e giustizia territoriale.
Se l’Unione europea riesce a far convivere 27 Stati con storie, lingue e interessi diversi attorno a un principio di coesione, allora un Paese come l’Argentina dovrebbe poter affrontare – con strumenti moderni e volontà politica – le disuguaglianze tra le sue 24 giurisdizioni; ma per farlo, è necessario superare la paralisi normativa e restituire al federalismo la sua dimensione costitutiva: quella della responsabilità condivisa verso un progetto comune di sviluppo, dignità e inclusione.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link