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il nodo delle concessioni tra UE, regioni e transizione


Tra vincoli UE, governance regionale e modelli ibridi, l’Italia è chiamata a sciogliere un nodo strategico per la transizione e la sovranità energetica.

Alla base della nostra sicurezza energetica scorre un filo d’acqua. Invisibile ai più, ma decisivo. L’idroelettrico italiano, con i suoi oltre 50 TWh annui, rappresenta quasi la metà della produzione rinnovabile nazionale. Un patrimonio strategico che oggi rischia di rimanere ostaggio dell’incertezza normativa e di un contenzioso istituzionale che sembra non trovare una via d’uscita.

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La domanda è semplice: cosa succede quando scade una concessione idroelettrica? La risposta, invece, è tutt’altro che lineare. Negli ultimi anni il legislatore ha cercato di allineare il sistema italiano ai principi della concorrenza europea, eliminando la prassi delle proroghe automatiche e imponendo gare pubbliche per l’assegnazione degli impianti. La Legge sulla Concorrenza del 2021, in attuazione degli impegni presi nel Pnrr, prevede tre strade percorribili: gare “secche”, società miste pubblico-private o partenariati con project financing.

Si tratta di un impianto che, pur rispondendo formalmente ai principi comunitari, ha mostrato limiti evidenti nella sua applicazione pratica vista l’impostazione attuale. Le tre opzioni previste dalla legge – pur valide nei presupposti – hanno prodotto finora un contesto operativo frammentato, rallentando gli investimenti e lasciando irrisolti diversi nodi di governance. Il settore si è trovato immerso in un contesto di incertezza: tra ricorsi, leggi regionali impugnate, regioni che legiferano in ordine sparso, e attori pubblici e privati in attesa di capire quale sarà davvero il percorso da seguire. Il rischio, per il sistema paese, è quello di perdere tempo prezioso proprio nel momento in cui la transizione ecologica richiede velocità, chiarezza e investimenti consistenti. Tutti elementi che potrebbero confluire nel prossimo decreto Energia, atteso entro la fine di settembre.

Tra le proposte emerse in questi giorni figura anche quella avanzata dal “tavolo della domanda” di Confindustria, che guarda ai cosiddetti contratti tripartiti tra produttori, industria energivora e Stato. Ispirati all’Affordable Energy Plan europeo, questi accordi puntano a stabilizzare il quadro normativo e incentivare gli investimenti, soprattutto da parte di imprese ad alta intensità energetica.

In questo scenario è tornata con forza la proposta di una “quarta via”, non prevista dalla normativa nazionale ma implicitamente evocata da quanto sta accadendo in Europa. Si tratterebbe di una forma di riassegnazione delle concessioni agli attuali gestori, subordinata a un piano industriale vincolante, nuovi investimenti e condizioni rafforzate di regolazione. Un modello che, secondo alcuni osservatori, consentirebbe di superare l’alternativa binaria tra gare e proroghe, valorizzando il ruolo delle regioni – che detengono la competenza primaria in materia – e salvaguardando al contempo l’interesse pubblico.

Un precedente importante è arrivato proprio lo scorso 28 agosto. Il governo francese ha annunciato di aver raggiunto con la Commissione europea un accordo che pone fine al contenzioso aperto da anni sulla mancata apertura alla concorrenza delle concessioni idroelettriche transalpine. L’intesa prevede che la Francia mantenga il controllo pubblico degli impianti, consenta la continuità gestionale per gli attuali operatori e, in parallelo, apra una quota della capacità idroelettrica a nuovi entranti attraverso procedure trasparenti. Una soluzione pragmatica, accolta con favore anche a Bruxelles, che apre uno spiraglio significativo per il caso italiano.

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Le parole del ministro dell’Ambiente e della Transizione energetica, Gilberto Pichetto Fratin, in una intervista rilasciata in merito, sembrano raccogliere questa nuova possibilità. “Siamo disponibili a ragionare”, ha dichiarato. “La norma attuale non prevede una quarta via, perché è un vincolo del Pnrr. Però un intervento può essere fatto costruendo qualcosa, come hanno fatto alcune regioni, su project e modalità che rispettino i principi europei”.

Proprio il partenariato pubblico-privato – già previsto dalla legge – viene oggi indicato da molti attori istituzionali e industriali come la strada più percorribile per garantire efficienza, velocità e rispetto delle regole. In alternativa, alcune voci tornano a rilanciare il concetto di una “quarta via”, da costruire attraverso un dialogo con la Commissione europea, sulla scia dell’accordo raggiunto dalla Francia.

Secondo uno studio realizzato da The European House – Ambrosetti e presentato alla 51esima edizione del Forum di Cernobbio, la mancata chiarezza normativa rischia di ritardare il piano di investimenti fino a sei anni, con impatti negativi per tutto il sistema. Al contrario, una soluzione condivisa e stabile potrebbe liberare fino a 16 miliardi di euro di nuovi investimenti, incrementare la produzione idroelettrica del 10 % e creare oltre 20.000 posti di lavoro.

Il dibattito, tuttavia, è aperto e articolato. Accanto a chi invoca soluzioni continuative, esistono operatori che vedono nelle gare uno strumento di riequilibrio del mercato, di accesso più equo alle risorse e di valorizzazione della concorrenza. A supporto di questa visione, vi è lo studio pubblicato recentemente dall’Istituto Bruno Leoni che sottolinea come l’interesse generale non coincide necessariamente con quello dei concessionari uscenti, e che le gare rappresentano il modo più trasparente per misurare il reale valore degli asset e attivare nuovi investimenti. È proprio la diversità del tessuto industriale italiano, fatto di grandi gestori ma anche di imprese locali, enti territoriali e consorzi, a rendere il confronto più complesso – e, al tempo stesso, più necessario.

La vera posta in gioco va oltre il piano normativo. Tocca la sicurezza nazionale, l’indipendenza energetica, la tutela di una filiera tecnologica avanzata che vale miliardi e occupa decine di migliaia di persone. In un momento in cui l’Europa intera è chiamata a blindare le proprie infrastrutture critiche, l’acqua italiana rischia di diventare terreno di contesa o, peggio, di rimanere inutilizzata, prigioniera della burocrazia.

Ma costruire una soluzione efficace, oggi, significa anche garantire equilibrio tra trasparenza e continuità, coinvolgere davvero le regioni – titolari delle competenze – e valorizzare tutte le voci del settore, ascoltando sia chi chiede aperture sia chi difende la gestione esistente.

La domanda, a questo punto, non è se si debba fare una gara o no. La vera questione è: come possiamo costruire un modello che tenga insieme sicurezza energetica, interesse pubblico e pluralismo industriale, senza perdere altri anni – e investimenti – preziosi?







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