Quando si va a tracciare la geografia delle opportunità in Italia, come abbiamo spiegato in un precedente articolo di introduzione al tema, emergono profonde fratture e contraddizioni che caratterizzano il nostro Paese. Oggi infatti intere zone sono ai margini dei servizi e dello sviluppo ma, al contempo, nuove forme di iniziativa locale provano a cucire numerose ferite che derivano da tali situazioni. In questo articolo vorremmo approfondire due casi emblematici che illustrano, da un lato, il dramma dell’abbandono delle aree interne e la povertà educativa, e dall’altro le sperimentazioni civiche di secondo welfare come iniziative di comunità che nascono per contrastare queste disuguaglianze.
Scuole perdute nelle aree interne: il circolo vizioso dello spopolamento
L’Italia dei borghi montani e delle campagne lontane dai servizi è il laboratorio più crudele delle nostre disuguaglianze. I dati del Rapporto Aree Interne 2024 di Istat mostrano che nei comuni periferici e ultraperiferici la popolazione è crollata del 19% dal 1951 ad oggi, con punte di oltre il 25% nelle zone più isolate . Questo spopolamento ha una causa e insieme una conseguenza: la povertà educativa. Le indagini INVALSI – come mostra il Rapporto nazionale 2023 – confermano che gli studenti delle aree interne hanno performance sistematica più basse rispetto a quelli delle aree metropolitane. Non solo: nelle province dove oltre la metà dei comuni non ha un asilo nido, la natalità è destinata a crollare entro il 2030 di oltre il 15%. Meno bambini, meno scuole; meno scuole, meno famiglie che scelgono di restare. È un circolo vizioso che si autoalimenta, e che trasforma i territori in aree del non ritorno.
Non si tratta di un destino naturale ma di una costruzione sociale: l’assenza di trasporti, mense, palestre, servizi di prossimità priva i giovani di opportunità formative, condizionandone l’intera traiettoria di vita. La scuola, che dovrebbe essere il motore della mobilità sociale, diventa nelle aree interne una lente che ingigantisce i divari. Se la Costituzione proclama l’uguaglianza come diritto universale, questi dati ci ricordano che l’uguaglianza educativa oggi è ancora fortemente condizionata dal codice postale.
Alcuni dati chiave elaborati da OpenPolis e Con i Bambini aiutano a delineare la gravità del fenomeno e individuare alcuni elementi di riflessione.
- Meno bambini, meno futuro: le province con più alta percentuale di minori che vivono in aree interne sono proprio quelle destinate al peggior declino demografico nei prossimi anni. In 10 province italiane si prevede entro il 2030 un calo di oltre il 15% dei bambini sotto i 4 anni.
- Carenza di servizi educativi: questi territori scontano anche un forte deficit di servizi scolastici e per l’infanzia. In 9 province su 10 tra quelle a maggior spopolamento, meno del 50% dei comuni offre un asilo nido.
In aree come Nuoro, Isernia, Potenza o Cosenza, oggi la gran parte dei bambini vive in piccoli centri periferici e ultraperiferici, e se nulla cambia avranno entro pochi anni fino al 20% di giovani in meno. In alcune aree estreme, come la provincia di Oristano, nei comuni interni vi sono appena 5-6 posti di asilo ogni 100 bambini (contro una media nazionale del 25%). Strutture carenti e distanze elevate scoraggiano le famiglie dal restare e penalizzano i bambini sin dai primissimi anni di vita.
Sembra costituirsi quindi un’Italia a doppia velocità: da un lato le città e le zone ben collegate investono e trattengono popolazione giovane; dall’altro, zone interne condannate a svuotarsi, prive delle condizioni minime per garantire ai bambini un’istruzione di qualità vicino a casa. Come sottolinea la Strategia Nazionale per le Aree Interne – da ultimo attraverso il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2025 – si rischia un circolo vizioso di marginalità per cui all’emorragia demografica segue una continua rarefazione dei servizi, precludendo l’utilità di qualsiasi intervento di sviluppo.
In altri termini, se in un luogo mancano la scuola, i trasporti, le opportunità culturali, quel luogo smette di essere vivibile per le famiglie – e così interi paesi lentamente spariscono dalla mappa. Di fronte a ciò, l’uguaglianza di opportunità diventa un miraggio: il diritto di un bambino a istruirsi e a costruirsi un futuro dipende ancora fortemente dal capriccio geografico di dove egli nasca. E molti giovani dell’entroterra si trovano costretti a partire, non per scelta ma per necessità, perpetuando lo spopolamento.
Eppure, queste terre “perdute” non sono condannate senza appello. Proprio la consapevolezza della loro marginalità sta generando, in alcune comunità, una risposta tenace e creativa: i cittadini stessi si organizzano per rompere l’isolamento, riportare servizi e speranza dove lo Stato fatica ad arrivare. Nascono così sperimentazioni di welfare locale che provano a invertire la rotta dello spopolamento. Vediamone un esempio.
Comunità che si organizzano: imprese di comunità e secondo welfare in azione
In diversi territori “dimenticati” d’Italia sta emergendo una forma inedita di riscatto: le imprese di comunità. Si tratta di imprese cooperative fondate e gestite dagli stessi abitanti, con lo scopo di rispondere ai bisogni locali – dalla mancanza di servizi al lavoro che non c’è – mobilitando le risorse della comunità.
Immaginiamo un piccolo paese di montagna rimasto senza negozi né presìdi essenziali: un gruppo di residenti si unisce, costituisce una cooperativa e riapre l’emporio chiuso da anni, avviando magari anche un servizio di doposcuola o un ambulatorio di base. Quello che era un villaggio destinato a scomparire ritrova così una ragione di vita collettiva. Questo movimento dal basso, quasi silenzioso, sta prendendo piede soprattutto nelle aree interne del Centro-Nord Italia, ma non solo.
Un esempio di secondo welfare dove attori non statali – come cittadini, associazioni, fondazioni – si attivano e si uniscono per integrare il welfare pubblico e supplire alle sue mancanze.
Secondo il Rapporto sulle imprese di comunità in Italia 2023 curato da Euricse, queste realtà si distribuiscono in una pluralità di settori. Il turismo rappresenta l’ambito prevalente, con circa il 28% delle cooperative di comunità attive in questo comparto, seguito dal welfare, dalla tutela del territorio, dall’agricoltura, dal commercio e dalla gestione di spazi comunitari. Questa varietà riflette un tratto distintivo: ogni comunità costruisce la propria impresa a partire dalle risorse locali e dalle urgenze del territorio. C’è chi sceglie di valorizzare il patrimonio culturale e naturale attraverso iniziative turistiche, e chi invece apre un servizio socioeducativo laddove lo Stato non arriva.
Coprogettare l’inclusione nelle aree interne colpite dal terremoto del 2016
Un elemento comune ricorre però in tutte le esperienze: la partecipazione diretta degli abitanti, non solo come beneficiari ma come soci e promotori. La governance inclusiva di queste cooperative è infatti la chiave per trasformare i cittadini in protagonisti del cambiamento.
Non si tratta di un fenomeno marginale. Nel 2023 si contavano 243 imprese di comunità attive in Italia, prevalentemente in contesti rurali e periferici. Alcune regioni sono particolarmente dinamiche: la Toscana ne ospita 49, l’Abruzzo 31. La loro missione è esplicita: fungere da “baluardi contro lo spopolamento e la carenza di opportunità” nei territori più fragili. Non a caso, i dati mostrano che nei comuni delle aree interne la probabilità di nascita di un’impresa di comunità è superiore del 18,5% rispetto alla media nazionale. In altre parole, più una zona è periferica e impoverita, più la comunità sente l’urgenza di attivarsi in prima persona per invertire la rotta
Vale la pena evidenziare cosa spinge queste comunità ad agire. Le motivazioni dichiarate sono spesso molteplici, ma le principali sono due: da un lato offrire nuove opportunità economiche a chi vive sul territorio (è il motivo fondante nel 26% dei casi), dall’altro fornire servizi essenziali prima inesistenti (24% dei casi). A seguire vi sono la volontà di valorizzare le risorse locali (es. recuperare beni ambientali o culturali) e di riqualificare spazi abbandonati. In concreto, queste cooperative creano piccoli ecosistemi di welfare comunitario: c’è chi apre un asilo nido o una ludoteca dove mancava, chi organizza un sistema di trasporto sociale per anziani, chi mette in piedi una cooperativa agricola o turistica che reinveste gli utili nella comunità stessa. Servizi, lavoro e solidarietà si intrecciano, dando risposta a quei bisogni che altrimenti resterebbero inevasi.
Coinvolgere e integrare: come ribaltare la condanna
Queste esperienze di innovazione sociale dimostrano che le disuguaglianze territoriali non sono una condanna immodificabile. Anche nei luoghi più svantaggiati è possibile accendere scintille di sviluppo e coesione, a patto di investire nelle persone e nelle reti locali. Naturalmente, tutto questo non basta da solo a colmare divari storici: servono politiche pubbliche che sostengano e coordinino tali sforzi.
Ma l’esistenza stessa di queste cooperative indica una strada: coinvolgere chi vive il problema nella costruzione della soluzione. In un Paese in cui nascere in un piccolo borgo montano o in una famiglia fragile rischia ancora di pregiudicare il futuro, l’attivazione delle comunità locali è un segnale di speranza e di “democrazia dal basso”. Come sottolineano diversi esperti, l’uguaglianza di opportunità si costruisce mettendo in sinergia più fronti di intervento. Da un lato occorre rafforzare i servizi di base (istruzione, salute, trasporti) ovunque, dall’altro vanno incoraggiate e sostenute le iniziative mirate sul territorio – siano esse progetti di secondo welfare, cooperative di comunità o altri partenariati locali.
Solo integrando politiche pubbliche e innovazione sociale si potrà davvero colmare la distanza tra le due Italie: quella ricca di opportunità e quella “in ombra”. Come dimostrano numerosi casi riequilibrare le opportunità è possibile, ma richiede investimenti mirati, visione a lungo termine e la partecipazione attiva delle comunità. In fondo, dare a tutti i cittadini – indipendentemente dal luogo in cui nascono – la libertà di restare, partire o tornare è l’essenza di una democrazia compiuta. E non c’è geografia sfavorevole che tenga, di fronte a una comunità determinata a ridisegnare il proprio destino.
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