Tra Stati Uniti e Unione europea è stata un’estate trafficata. Prima il summit NATO nei Paesi Bassi a fine giugno con nuovi obiettivi di spesa militare, poi la corsa a sancire all’ultima curva una tregua commerciale dopo mesi di minacce e (scarse) contro-minacce. A seguito dell’intesa politica dello scorso 27 luglio a Turnberry (Scozia) tra Ursula von der Leyen e Donald Trump e l’incertezza legata ad alcuni elementi effettivamente pattuiti, il 21 agosto è finalmente arrivato il comunicato congiunto sull’accordo quadro USA-UE e alcuni punti sono già stati messi in moto. La Casa Bianca ha modificato settimane fa i suo dazi “reciproci” nel rispetto di quanto concordato, mentre il 28 agosto la Commissione europea ha proposto due regolamenti per attuare le riduzioni tariffarie sulle merci statunitensi. Il confine tra concessione ottenuta e concessione mancata per Bruxelles non è mai stato così labile.
I risultati dell’accordo: 0-15
Facciamo un passo indietro. Lo scorso 2 aprile, il celebre “Giorno della liberazione”, Trump aveva inserito l’UE (considerata come un solo Paese) nella lista delle 57 controparti ree di aver alimentato ingiustamente gli squilibri commerciali degli USA e dunque soggette a dazi “reciproci” più punitivi dell’aliquota di base del 10%. Ai Ventisette Stati membri era stata annunciata un’aliquota tariffaria unica del 20% sui loro beni esportati oltre Atlantico, al netto di esenzioni settoriali, in virtù di un surplus bilaterale stabilmente sopra i 200 miliardi di dollari. Il 9 aprile, dopo la reazione negativa dei mercati finanziari americani, l’iniziativa era stata congelata fino a inizio luglio e poi inizio agosto, lasciando temporaneamente a quasi tutti i Paesi del mondo il 10%.[1] Questa finestra temporale è stata utilizzata dal commissario europeo per il Commercio e la Sicurezza economica, Maroš Šefčovič, per negoziare un nuovo equilibrio con il nervoso alleato transatlantico. Gli incontri con la controparte statunitense sono stati ben 10. Tuttavia, nei mesi di trattative Trump ha lasciato più volte intendere che avrebbe alzato l’aliquota “reciproca” del 10% sui beni UE, minacciando di tornare alla soluzione del 2 aprile o a versioni più estreme pari al 30 o al 50%.
Questo atteggiamento sfrontato della Casa Bianca è risultato credibile, alzando leggermente la posta con il resto del mondo senza far infuriare Wall Street. L’intesa tra Bruxelles e Washington, non giuridicamente vincolante e denominata “Framework on an Agreement on Reciprocal, Fair, and Balanced Trade”, è arrivata, concentrandosi su barriere tariffarie e non tariffarie, investimenti e aree di cooperazione. Quali sono i dettagli principali dell’accordo quadro?
- L’UE eliminerà i dazi su tutti i beni industriali (già due terzi di queste importazioni erano esenti da prelievi in dogana), come auto, gomma, ferro e ceramica, e fornirà accesso preferenziale di mercato, tramite parziale liberalizzazione e contingenti tariffari, ad alcuni beni agroalimentari e ittici che hanno origine negli Stati Uniti. Per le aziende europee importatrici si stima un risparmio daziario pari a circa 5 miliardi di euro all’anno.
- L’UE è riuscita a concordare un’aliquota tariffaria massima e onnicomprensiva del 15% per i beni colpiti dai dazi “reciproci”. Il 15% strappato da Bruxelles e introdotto lo scorso mese dall’amministrazione Trump rappresenta dunque un valore di riferimento. Tradotto: i prodotti UE soggetti a dazi della nazione più favorita (Most Favoured Nation, MFN) inferiori al 15% vedranno l’aliquota aumentare al 15%; i prodotti già soggetti a dazi MFN pari o superiori al 15% non vedranno ulteriori prelievi in dogana ma solo quelli MFN. Nessun partner ha ricevuto una configurazione simile.
- L’UE è riuscita a strappare concessioni anche per quei beni che Trump aveva esentato ad aprile dai dazi “reciproci” perché già sotto iniziative settoriali ai sensi della Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962. Chi importerà acciaio, alluminio e prodotti derivati siderurgici dall’UE negli USA dovrà ancora versare un dazio del 50%, ma Washington si sarebbe detta aperta a concordare un sistema di quote tariffarie (come con il Regno Unito) e a collaborare per fronteggiare la sovraccapacità asiatica. Vittoria chiara, invece, per auto e parti, che vedranno l’aliquota scendere dal 27,5% al 15% con applicazione retroattiva al 1° agosto non appena l’UE proporrà nelle sue sedi il taglio dei dazi menzionato al primo punto. Il 28 agosto la Commissione ha messo sul tavolo un regolamento in tal senso (un secondo è specifico per astici e aragoste, un successo per il Maine), in attesa della pronuncia di Parlamento e Consiglio UE con la procedura ordinaria e della risposta della Casa Bianca. E vittoria anche per prodotti farmaceutici, semiconduttori e legname europei: qualunque sia il responso delle indagini in corso da parte del dipartimento del Commercio USA, il dazio non supererà il 15%; nell’attesa verranno applicate solo le tariffe MFN.
- A partire dal 1° settembre, diversi prodotti UE beneficeranno di un regime speciale, con l’applicazione delle sole tariffe MFN (già in media bassi o nulli). Tra questi rientrano risorse naturali non disponibili nel mercato americano (come il sughero), tutti gli aerei e le relative parti, i farmaci generici e i loro ingredienti, i precursori chimici. Vini e liquori sono rimasti fuori da questa lista merceologica, che però non è scolpita nella pietra e potrà allungarsi nei prossimi mesi.
- Sono stati mantenuti nel testo finale dell’accordo quadro quei controversi impegni/intenzioni di acquisti e investimenti menzionati da von der Leyen dopo il vertice scozzese, ovvero 750 miliardi di dollari di petrolio, gas naturale liquefatto e prodotti dell’energia nucleare entro il 2028 (quindi 250 miliardi all’anno per i prossimi tre anni) e 40 miliardi di dollari di chip di intelligenza artificiale (qui l’orizzonte temporale non è chiaro) provenienti dagli Stati Uniti. I 600 miliardi di dollari di investimenti in settori strategici negli USA al 2028-29 restano “intenzioni” delle aziende. Sono cifre più che ambiziose, specialmente per l’import di energia, e per lo più al di fuori del controllo dei governi. Ma come reagirà la Casa Bianca quando i conti non torneranno?
- Bruxelles non ha fatto concessioni particolari e vincolanti su acquisti in difesa e sull’abbattimento delle barriere non tariffarie (DMA, DSA, CBAM, EUDR ecc.). Tasse sui servizi digitali e IVA non sono state nemmeno menzionate nel testo finale dell’accordo quadro. È risultato vago il linguaggio attorno alla cooperazione nell’area delle regole di origine e della sicurezza economica. In quest’ultimo campo un allineamento automatico è fuori discussione.
L’incertezza non dissipata
L’intesa tra Bruxelles e Washington ha ricevuto giudizi discordanti in Europa. Da una parte, la Commissione è stata criticata aspramente da più parti per aver concluso un accordo asimmetrico, una resa non certo all’altezza del più grande blocco commerciale e che soffre di deficit di competitività rispetto a Cina e Stati Uniti. L’intesa arriva dopo lo stallo al Summit UE-Cina di fine luglio, restituendoci l’immagine di Ventisette Paesi impotenti con le grandi potenze. Ancora, la vaghezza del linguaggio dell’accordo quadro, la natura non giuridicamente vincolante e l’assenza di un meccanismo di risoluzione creano solo sulla carta quella “certezza in tempi incerti” sbandierata da von der Leyen in Scozia a fine luglio. Il rinnovato attacco di Trump alla legislazione digitale degli altri Paesi lo dimostra. Dall’altra parte, assecondando alcune richieste di Trump, l’UE rischia di tradire il principio della nazione più favorita se non concederà la stessa riduzione tariffaria menzionata al punto 1 del precedente elenco a tutti gli altri membri dell’Organizzazione mondiale del commercio.[2]
Le accuse sopracitate sono legittime, ma devono anche essere considerati i seguenti quattro elementi.
- Le richieste iniziali di Trump non riguardavano solo i dazi, ma anche un variegato numero di barriere non tariffarie o altre presunte discriminazioni extra-territoriali (si pensi all’IVA). È vero che sui primi non si torna affatto alla situazione del 2024 o migliore; allo stesso tempo, va riconosciuto che l’accordo quadro non prevede arretramenti sul piano normativo da parte dell’UE.
- Quasi nessun governo al mondo ha strappato un trattamento in termini di dazi e investimenti meno oneroso di quello raggiunto dalla Commissione. Il 15% è un dazio onnicomprensivo e non addizionale, lasciando un vantaggio relativo ai prodotti UE rispetto agli altri esportati negli USA; gli impegni di investimento non hanno nulla a che vedere con la soluzione trovata dal Giappone riguardo a un nebuloso veicolo ad hoc. Solo Canada e Messico “godono” al momento di un trattamento migliore.
- Le divisioni a livello nazionale e sovranazionale e le diverse ripercussioni a livello settoriale hanno indebolito il mandato negoziale della Commissione e reso scarsamente credibile il sistema di deterrenza comunitario, con tutte le contromisure congelate e con lo Strumento anti-coercizione mai seriamente sul tavolo.
- Come confermato dal presidente del Consiglio europeo António Costa, la guerra in Ucraina è stata un fattore rilevante nel contenere la capacità di risposta dell’esecutivo UE all’offensiva commerciale di Trump. L’obiettivo principale era limitare i danni economici e non solo, soprattutto in una fase in cui l’amministrazione statunitense sta dando segnali incoraggianti sull’impegno per la sicurezza di Kiev. E così è stato.
Al di là delle discussioni presenti, degli equilibri precari e dei negoziati futuri, le relazioni transatlantiche rimarranno fragili con Trump alla Casa Bianca. E occorre sottolineare che per ogni futura amministrazione USA sarà complicato cancellare tasse sulle importazioni di questo ammontare con un solo tratto di penna. Pertanto, la strada che l’UE ha davanti a sé non cambia, ovvero alimentare e diversificare la sua grande rete commerciale globale e rafforzare la sua competitività nel mondo di oggi. Sul primo fronte, sono mesi decisivi: la Commissione ha avviato il 3 settembre la fase finale per concludere gli accordi commerciali con Mercosur e Messico, o almeno una parte. Sul secondo fronte, la prima proposta di bilancio pluriennale pari a 2mila miliardi di euro per il periodo 2028-2034, di cui 168 miliardi per l’inizio del ripagamento dei debiti contratti per NextGenerationEU, non è assolutamente all’altezza della portata delle sfide enunciate nei rapporti Draghi e Letta.
Oltre Atlantico, se l’estate non è ancora finita, non lo sono nemmeno le novità sui dazi. Il futuro delle tariffe introdotte da Trump tra febbraio e aprile 2025, tra cui quelli “reciproci”, sulla base dello International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) del 1977, resta appeso alla decisione della Corte suprema dopo l’opinione negativa della Corte d’appello per il circuito federale della settimana scorsa sull’utilizzo dell’autorità da parte di Trump. Un’eventuale abrogazione di questi dazi rigetterebbe nel caos la politica commerciale dell’amministrazione MAGA (le alternative statutarie esistenti non avrebbero la stessa potenza di fuoco dello IEEPA) e invaliderebbe quel 15% applicato alle importazioni dall’UE. Senza dimenticare quanto pesi per gli umori di Trump l’andamento dell’economia statunitense e quello di Wall Street: proprio oggi sono usciti dati importantissimi sull’occupazione nazionale relativi al mese di agosto, che hanno confermato l’evidente indebolimento del mercato del lavoro.
[1] Messico e Canada non sono stati toccati dai dazi “reciproci” di aprile.
[2] È difficile che possa reggere l’idea di giustificare una mossa del genere presentando l’accordo quadro come un primo passo verso un accordo di libero scambio, un’eccezione riconosciuta all’articolo XXIV del GATT.
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