Il documento del CNDCEC propone un’analisi organica dei fattori addizionali di rischio nel costo del capitale, con riferimento a valutazioni di bilancio e impairment test.
Vengono illustrati il country risk premium, il size risk premium, l’execution risk premium e il total beta, spiegandone logiche, modalità di stima e impatti sul tasso di attualizzazione.
Centrale è la distinzione tra prospettiva stand-alone e aggregata, legata alla struttura dell’azionariato e al grado di diversificazione.
Gli esempi applicativi dimostrano come variazioni anche modeste del costo del capitale proprio (Ke) possano produrre differenziali di valore rilevanti. L’approccio suggerito coniuga rigore teorico, coerenza con i principi contabili e attenzione alla prassi professionale.
1) Contesto normativo e basi del costo del capitale
In fasi caratterizzate da instabilità macroeconomica e da un’elevata volatilità dei mercati, determinare correttamente il tasso di attualizzazione diventa un passaggio determinante per verificare la recuperabilità delle poste di bilancio, trattandosi di un elemento ad alta sensibilità nel processo valutativo.
Il recente documento di ricerca del CNDCEC del luglio 2025 ricorda che, quando emergono indizi di impairment, il valore contabile deve essere confrontato con il valore recuperabile, definito come il maggiore tra il fair value al netto dei costi di vendita e il valore d’uso; l’operazione è condotta, a seconda dei casi, facendo riferimento all’OIC 9 per i soggetti OIC adopter e agli IFRS 3 e IAS 36 per i soggetti IAS/IFRS, con la consapevolezza che il calcolo del tasso di rischio è strumentale proprio alla determinazione di quel valore recuperabile, in quanto il valore d’uso (e, quando si adotta un criterio finanziario, anche il fair value) discendono dall’attualizzazione di flussi finanziari prospettici.
Il punto di partenza resta l’architettura del costo del capitale.
Per il debito rileva, accanto al tasso privo di rischio, lo spread di credito coerente con il merito dell’impresa; per l’equity la prassi fa capo al CAPM (Capital Asset Pricing Model), che lega il premio per il rischio azionario alla sensibilità del titolo rispetto al mercato (beta) moltiplicata per il market risk premium.
Il beta si ricava dalla correlazione tra i rendimenti del titolo e quelli dell’indice di mercato, rapportando le rispettive deviazioni standard; il beta levered riflette congiuntamente rischi operativi e finanziari, mentre il beta unlevered, depurato della leva, permette di ricondurre la misura al solo rischio operativo e di rileverarla poi sulla struttura finanziaria target dell’impresa oggetto di stima.
Su questa base “di scuola” si innesta, da almeno quarant’anni, una prassi valutativa che ha progressivamente accolto evidenze empiriche e accademiche: in contesti specifici la sola componente sistematica del rischio non è sufficiente a rappresentare il profilo di incertezza percepito dall’investitore.
L’inclusione di fattori addizionali può incidere in misura rilevante sul costo del capitale, determinando incrementi anche di diversi punti percentuali rispetto alla stima base. Tale variazione, apparentemente contenuta, può produrre effetti amplificati quando si applicano metodi valutativi fondati sull’attualizzazione dei flussi di cassa, come la Discounted Cash Flow Analysis: un aumento del tasso di attualizzazione riduce in modo significativo il valore attuale dei flussi prospettici, con possibili conseguenze dirette sulla determinazione del valore recuperabile e, in ultima analisi, sull’esito dell’impairment test.
Proprio per questo il documento del CNDCEC del luglio 2025 non si limita a elencare i principali fattori di rischio, ma propone un percorso logico-strutturato che consenta al valutatore di stabilire se tali componenti siano realmente pertinenti al caso concreto e, in tal caso, di stimarle con criteri omogenei, evitando duplicazioni e assicurando coerenza metodologica lungo l’intero processo di valutazione.
2) Analisi dei principali fattori addizionali di rischio
Il primo tema trattato riguarda il Country Risk Premium (CRP), ovvero il rendimento addizionale che gli investitori richiedono per compensare l’incertezza legata all’operare in un determinato contesto geografico. Questo surplus riflette il rischio sovrano e integra considerazioni politiche, economiche e istituzionali che possono incidere sulla stabilità e sull’affidabilità del mercato di riferimento tenendo conto di variabili quali la stabilità politico-istituzionale, la solidità macroeconomica, il rispetto dello Stato di diritto e la prevedibilità del contesto normativo e fiscale. Il CRP è particolarmente rilevante nelle valutazioni che coinvolgono mercati emergenti o Paesi caratterizzati da instabilità, poiché tali condizioni possono incidere in modo significativo sul rendimento atteso dagli investitori e, di conseguenza, sul costo complessivo del capitale. La sua funzione è remunerare i detentori di capitale di rischio per l’esposizione a fattori politico-sociali, squilibri macroeconomici, tensioni geopolitiche o debolezze istituzionali, spesso più accentuate nei mercati in via di sviluppo.
Nella pratica operativa, il punto di partenza per la stima del country risk premium è rappresentato dal default spread, ossia dalla differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato a lungo termine emessi dal Paese “di destinazione” e quelli emessi dal Paese “di origine” dell’investitore o di riferimento per il mercato domestico. Questo differenziale esprime la maggiore remunerazione richiesta dagli investitori per compensare il rischio sovrano associato al Paese target, riflettendo elementi quali l’affidabilità creditizia, la stabilità politica e la solidità macroeconomica.
Tuttavia – come avverte il documento del CNDCEC – è necessario prestare attenzione al fatto che, in determinate metodologie di stima, parte di tale rischio Paese può risultare già implicitamente incorporata nel market risk premium di base utilizzato nel CAPM. In tali circostanze, un’aggiunta meccanica del default spread al premio per il rischio azionario comporterebbe una duplicazione del medesimo fattore di rischio, con il risultato di sovrastimare il costo del capitale e penalizzare ingiustificatamente la valutazione dell’impresa.
Per calibrare in modo mirato l’entità del country risk premium rispetto alle caratteristiche operative e finanziarie dell’impresa, il documento propone quattro possibili approcci:
- Bludgeon approach: assegna indistintamente a tutte le imprese lo stesso livello di esposizione al CRP, senza tenere conto delle specificità settoriali o geografiche;
- Beta approach: somma il CRP al market risk premium e moltiplica il risultato per il beta della società, assumendo che la sensibilità al rischio di mercato sia perfettamente allineata a quella del rischio Paese;
- Lambda approach: utilizza un coefficiente specifico (λ) per misurare la sensibilità dell’impresa al rischio Paese in modo distinto dal beta di mercato, stimabile ad esempio in base al peso dei ricavi o degli utili generati nel Paese considerato, o tramite regressioni sui rendimenti obbligazionari locali;
- Melded approach: combina il market risk premium globale con una quota del CRP, ponderata in funzione del grado effettivo di esposizione dell’impresa al mercato del Paese a rischio.
In ogni caso, il documento raccomanda di verificare attentamente che il CRP aggiunto non duplichi una componente di rischio già incorporata nel market risk premium di partenza.
Il secondo tassello è il size risk premium. A valle di studi empirici come quello di Banz, la prassi ha riconosciuto che le small-cap hanno generato, in diverse fasi, extra-rendimenti non spiegati dal CAPM tradizionale; in sede valutativa si è quindi consolidata l’idea di un sovrappremio dimensionale in presenza di imprese di minori dimensioni.
Le modalità operative ruotano attorno a due strade: una stima “professionale”, fondata su un set di indicatori quali la patrimonializzazione, il fatturato o la quota di mercato; e una stima “di mercato”, ancorata a basi dati che forniscono, per fasce di capitalizzazione, un alfa rappresentativo del premio dimensionale osservato.
Vengono inoltre riportati esempi aggiornati di stime per specifici cluster di micro-cap, sviluppati a partire da dati empirici recenti, che offrono al valutatore una cornice quantitativa utile per contestualizzare l’analisi e per orientare la stima del premio dimensionale in sede applicativa. Tali benchmark, suddivisi per fasce di capitalizzazione e settore, consentono di avere un’idea preliminare dell’ordine di grandezza del sovrappremio dimensionale applicabile, costituendo un valido punto di partenza per le analisi.
Resta tuttavia imprescindibile – come sottolineato dal CNDCEC – adattare l’applicazione al caso specifico, considerando la struttura patrimoniale, la solidità finanziaria, il posizionamento competitivo e le prospettive operative dell’impresa oggetto di stima.
L’uso di dati medi di settore non può infatti sostituire una valutazione calibrata sulla realtà aziendale concreta, pena il rischio di attribuire un premio per il rischio dimensionale non coerente con il profilo effettivo della società.
Terzo elemento è l’execution risk premium. La sua logica è catturare il rischio di mancato o parziale raggiungimento degli obiettivi del piano, tipicamente più avvertibile nelle fasi iniziali di nuove iniziative o nei percorsi di ristrutturazione. Mancando archivi uniformi, la quantificazione è più discrezionale e spesso passa per analisi sistematiche degli scostamenti storici tra budget e consuntivi. Dal punto di vista valutativo il documento avverte di non confondere tale componente con il size risk, specie nelle start-up dove la compresenza dei due profili è frequente: l’execution risk è un add-on che presuppone un’incertezza specifica sulla realizzazione del piano e non una semplice “proxy” della minore dimensione.
Nei casi in cui l’azionista non disponga di un portafoglio diversificato, oppure quando risulti complesso isolare e quantificare in modo affidabile ogni singolo fattore di rischio, viene suggerito il ricorso al total beta. Questo indicatore misura il rischio complessivo sopportato dall’investitore, includendo sia la componente sistematica sia quella specifica. La metrica, distinta dal beta “di portafoglio” del CAPM, prende la deviazione standard dei rendimenti del titolo e la rapporta a quella dell’indice di mercato, catturando così il rischio totale sopportato dall’azionista. Sostituire il beta sistematico con il total beta nel CAPM accresce il Ke e, di riflesso, il WACC; la scelta va dunque motivata, specificando perché il profilo degli azionisti (non diversificati) giustifichi l’adozione di una misura di rischio assoluto.
3) Prospettive valutative, esempi applicativi e cautele operative
La scelta della prospettiva di valutazione rappresenta un passaggio metodologico decisivo. Prima di un’operazione di integrazione, la società oggetto di analisi viene generalmente valutata considerando esclusivamente i propri rischi e potenzialità (stand-alone). Dopo l’acquisizione, tali rischi si fondono con quelli complessivi del gruppo, rendendo necessaria un’analisi in ottica aggregata, come previsto anche dai principi contabili.
Ne deriva che, in presenza di un azionariato ampio e fortemente diversificato – come accade per le “blue chip” – i fattori addizionali non vanno, di regola, inseriti; viceversa, in presenza di proprietà concentrate e non diversificate, il valutatore deve rilevare e stimare i fattori specifici oppure, quando ciò non sia possibile con sufficiente precisione, ricorrere al total beta.
Le implicazioni pratiche emergono chiaramente negli esempi applicativi. Nel primo, l’impairment test su una partecipazione è svolto in ottica asset side tramite UDCF (Unlevered Discounted Cash Flow). Il tasso privo di rischio è costruito come paniere ponderato dei rendimenti governativi dei Paesi in cui l’impresa opera; il market risk premium è tratto da fonte accademica; il beta di settore è stimato con approccio bottom-up e poi ri-leverato; a ciò si aggiunge un company specific risk premium riconducibile alla dimensione. Ne risulta un Ke del 12,53%, con struttura finanziaria media dei comparables e WACC post-tax del 10,85%; l’attualizzazione dei flussi 2025-2029, più il terminal value, conduce a un Enterprise Value di circa 77,8 milioni, che – al netto di una PFN pari a 4 milioni – esprime un Equity Value di 73,8 milioni e una copertura ampia rispetto al valore di bilancio della partecipazione (32 milioni).
Il secondo caso mette a fuoco la sensibilità del valore alle ipotesi sui fattori addizionali, a parità di flussi. Con risk free 3%, beta 0,9 e market premium 6%, una base azionaria pienamente diversificata porta a Ke 8,4%; se la proprietà è non diversificata e si giudicano rilevanti 1 punto di CRP e 2 punti di size premium, si sale a Ke 11,4% (impostazione “Bludgeon”). Quando, poi, non sia possibile misurare puntualmente gli add-on e si intenda riflettere l’esposizione totale dell’azionista non diversificato, si può sostituire il beta con un total beta 1,5, ottenendo Ke 12%.
Con un Kd (Cost of Debt) 4%, tax rate 24% e D/E 0,5, il WACC passa dal 6,61% all’8,61%: l’Enterprise Value scende da circa 383,18 milioni a 289,15 milioni, con un differenziale di oltre 94 milioni dovuto ai soli due punti di incremento del Ke.
Dal quadro applicativo discendono tre cautele metodologiche. Primo, presidiare la coerenza tra tassi e flussi: benché lo IAS 36 nasca con un’impostazione pre-tax, il documento segnala che – stante le considerazioni in corso presso lo IASB e la prassi prevalente – è ammissibile un WACC post-tax se la coerenza informativa è garantita e dimostrata nel lavoro di stima.
Secondo, mappare l’esposizione effettiva dell’impresa ai rischi Paese (onde calibrare CRP con approcci Bludgeon, Beta o Lambda senza duplicazioni) e distinguere con rigore tra execution risk e size premium, soprattutto nelle start-up.
Terzo, in presenza di azionisti non diversificati o di impossibilità di misurare singolarmente i rischi specifici, motivare l’adozione del total beta e le sue implicazioni in termini di costo del capitale e valore.
In conclusione, il documento del CNDCEC offre al professionista una cornice teorica e operativa coerente con i principi contabili e con la prassi di mercato per trattare i fattori addizionali di rischio nel costo del capitale.
Per il commercialista valutatore ciò significa ancorare ogni stima a basi verificabili, decidere con consapevolezza quando l’add-on è necessario e quando no, e soprattutto preservare la coerenza tra profilo dell’azionariato, natura dei rischi e metrica adottata: CAPM “puro”, CAPM con add-on mirati oppure CAPM con total beta, a seconda che la base proprietaria sia diversificata, esposta a rischi specifici misurabili o non diversificata. È su questa coerenza – metodologica e documentale – che si gioca, in concreto, la qualità del giudizio professionale in sede di bilancio e di impairment test.
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