E’ una escalation nei rapporti tra Usa ed Europa la recente iniziativa della Federal Trade Commission statunitense.
Con lettere datate 21 agosto 2025, ammonisce Apple, Alphabet e altri operatori digitali a non piegare la tutela della privacy e della sicurezza dei dati degli utenti americani alle richieste derivanti dal Digital Services Act dell’Unione, dall’Online Safety Act e dall’Investigatory Powers Act del Regno Unito.
Gli Usa contro le nostre regole digitali: che succede
Così si staglia con nettezza una faglia normativa transatlantica che non è mero attrito contingente ma sintomo di incompatibilità sistemiche tra modelli regolatori: la diffida del Chairman Andrew N. Ferguson – che richiama esplicitamente l’applicabilità della Sezione 5 del FTC Act in caso di pratiche sleali o ingannevoli ove un’impresa prometta certe garanzie di sicurezza e poi le riduca “al cospetto” di sollecitazioni straniere – si inserisce infatti in una più ampia postura dell’amministrazione federale volta a contrastare l’estensione extraterritoriale di regimi europei e britannici quando essi incidano, direttamente o per riflesso, su diritti e aspettative giuridiche di utenti situati negli Stati Uniti.
In tale contesto, l’annuncio secondo cui Londra avrebbe ritirato la richiesta di una “backdoor” a Apple ( richiesta che avrebbe comportato l’accesso a dati cifrati di cittadini americani) sembrava preludere a una distensione; ma le rivelazioni emerse due giorni dopo dinanzi all’Investigatory Powers Tribunal, ove si evince che il Ministero dell’Interno britannico abbia perseguito un mandato di capacità tecnica volto ad ampliare la sfera di accesso a iCloud oltre quanto pubblicamente noto, mostrano un quadro meno lineare e confermano l’instabilità del terreno su cui le imprese sono chiamate a operare.
A rendere la tensione più acuta contribuisce l’impostazione comunicata dalla FTC: non mera moral suasion, ma la prospettazione che l’allineamento cieco a standard esteri possa tradursi, sul mercato domestico, in una violazione della promessa contrattuale e informativa resa ai consumatori statunitensi, con conseguente responsabilità per pratiche ingannevoli o sleali.
Un messaggio indirizzato tanto ai “campioni” dell’economia delle piattaforme quanto a soggetti minori (X, Signal, Slack), sui quali incombe la tentazione di adottare policy uniformi cross–jurisdiction per semplificare governance e compliance.
Una sovranità frammentata
Questa vicenda, lungi dall’esaurirsi nella cronaca dei giorni, impone una riflessione di ordine superiore sull’architettura della legalità digitale nel tempo della sovranità frammentata: l’Europa muove da una grammatica dei diritti fondamentali che, nella bilanciata proporzionalità tra libertà di espressione e protezione della dignità, pretende accountability sistemica alle piattaforme circa la gestione dei rischi e la circolazione dei contenuti.
Il Regno Unito, con l’Online Safety Act e l’arsenale dell’Investigatory Powers Act, esige capacità tecniche di intercettazione e abbassamenti di opacità crittografica in nome della sicurezza pubblica e della tutela dei minori.
Dal canto loro, gli Stati Uniti, attraverso l’azione della Federal Trade Commission in quanto autorità di tutela dei consumatori, avvertono che un eventuale abbassamento degli standard di sicurezza o l’introduzione di sistemi di rimozione e filtraggio dei contenuti su richiesta dei governi stranieri, qualora abbiano effetti sugli utenti americani, potrebbero configurare pratiche sleali o ingannevoli ai sensi del diritto consumeristico federale, oltre a incidere indirettamente sulla libertà di espressione garantita dal Primo Emendamento, laddove tali obblighi si traducano in un effetto raggelante che scoraggia o reprime l’esercizio del diritto alla parola.
Ne discende quindi una condizione di conflitto di leggi “a geometria mobile”, dove la scelta d’impresa tra codificare una policy globale uniforme, frammentare per territorio (geofencing regolatorio), o mantenere fork di prodotto e funzionalità divergenti non è più mera strategia operativa, bensì decisione giuridica gravida di responsabilità extracontrattuale, di rischio sanzionatorio e, non ultimo, di conseguenze costituzionali indirette.
Il nodo crittografia
L’attrito sull’end-to-end encryption è paradigmatico: l’UE e il Regno Unito tendono a leggere la cifratura come bene da bilanciare, ammettendo ipotesi di eccezione o “scansioni lato client” per finalità imperative, mentre l’autorità statunitense ragiona in termini di specifiche promesse al consumatore che, se arretrate per un ordine estero, tramutano l’impossibilità tecnica in discrezionalità negoziale e, quindi, in inganno.
Usa ed Europa, due diverse nozioni di responsabilità
In questo passaggio si coglie una scissione filosofica oltre che giuridica: l’Europa richiama le piattaforme alla responsabilità “di risultato” nella conformazione dello spazio pubblico digitale, gli Stati Uniti enfatizzano la responsabilità “di verità” nelle dichiarazioni al pubblico e la libertà negativa da ingerenze governative, dirette o mediate, sul discorso online.
L’effetto sistemico è la tentazione del “minimo comune denominatore globale” che, tuttavia, non coincide necessariamente con la soluzione più sicura o più libera.
Le imprese, per evitare duplicazioni di codice, catene di fornitura normative e complessità di auditing, potrebbero abbassare standard crittografici ovunque o potenziare filtri e rimozioni su scala globale là dove un ordinamento li imponga.
Effetto dello scontro su regole Usa Europa: allineamento al ribasso
Ma proprio la prospettazione di un enforcement domestico da parte della Federal Trade Commission induce le imprese tecnologiche a ritenere più conveniente non un allineamento globale al ribasso, bensì una radicale regionalizzazione delle proprie funzionalità, con l’esito di una inevitabile frammentazione dell’esperienza utente e, in ultima istanza, con il rischio di alimentare uno splinternet stratificato per livelli differenziati di diritti digitali, e proprio qui si innesta, con tutta la sua carica controversa, l’idea di “disobbedienza digitale”.
Non trasgressione anarchica, ma resistenza legale, argomentata e trasparente, all’ordine ingiuntivo straniero che, se eseguito, determinerebbe violazioni nel foro domestico o, più sottilmente, tradirebbe l’affidamento degli utenti; una disobbedienza che assume forme giuridicamente note – dall’impugnazione giurisdizionale dei Technical Capability Notices al ritiro selettivo di funzionalità, fino alle autodichiarazioni di incompatibilità con clausole regolatorie ritenute sproporzionate.
Non adottare una strategia deliberata di risoluzione del conflitto, per esempio, non predisporre una mappa di impatti tra DSA/OSA/IPA e le promesse consumeristiche statunitensi, non circoscrivere geograficamente le modifiche funzionali, non spiegare in disclosure granulari la ragione e il perimetro delle restrizioni, è esso stesso un comportamento passibile di qualificazione come sleale o ingannevole, perché confonde l’utente circa la natura della protezione acquistata.
La scissione transatlantica, in altri termini, non è un duello tra “più o meno libertà”, ma un conflitto tra semantiche della responsabilità: la responsabilità come governance dei rischi sistemici (UE/UK) e la responsabilità come coerenza promozionale e non-manipolazione del consumatore (USA), con il Primo Emendamento sullo sfondo a funzione di metaregola che filtra gli eccessi delle richieste di contenimento del discorso quando si riverberino nel mercato interno e la cronaca recente mostra quanto sia fragile la frontiera tra regolazione di sicurezza e controllo di contenuti, e quanto rapido sia il passaggio dalla tutela dell’integrità informativa alla profilazione ideologica di condotte algorithmiche.
Sul piano del diritto internazionale privato, sarebbe ingenuo confidare che la sola comity risolva la collisione: entrambi i lati dell’Atlantico praticano, con intensità diverse, l’extraterritorialità regolatoria; l’UE affida al “Brussels effect” la proiezione dei propri standard mediante la forza del mercato, gli Stati Uniti combinano enforcement federale e poteri delle agenzie per proteggere la sfera domestica dagli effetti incidentali di norme altrui.
Laddove i trattati esistono – si pensi al CLOUD Act e ai suoi accordi esecutivi, o al Secondo Protocollo della Convenzione di Budapest – la cooperazione funziona sul terreno probatorio-penale;
nella governance dei contenuti e nella crittografia, invece, mancano cornici comuni robuste e, di conseguenza, sono le corti nazionali a doversi misurare con ordini stranieri sotto la lente dell’ordine pubblico e della proporzionalità.
Per le imprese, ciò impone una grammatica di compliance “a stati di eccezione”: matrici di conflitto legge-per-legge, fork di prodotto, geofencing severo, clausole di riserva nei termini di servizio, impact assessment che trattino il rischio di enforcement estero non solo come rischio-Paese ma come rischio-utente, e, soprattutto, un linguaggio informativo capace di rendere all’utente americano la trasparenza di ciò che accade quando entra in vigore una misura europea o britannica che tocca funzioni a cui egli si attendeva di accedere con determinate garanzie.
È su questo crinale che la “disobbedienza digitale” può divenire virtù civica d’impresa: la resistenza motivata a ordini incompatibili non è sabotaggio dell’interesse pubblico, ma sua tutela indiretta quando l’alternativa sarebbe la normalizzazione silente di pratiche erosive della sicurezza o della libertà di parola sul territorio statunitense.
Al contempo, sarebbe miope non considerare il punto di vista europeo e britannico: nell’ecosistema digitale odierno, la mera auto-regolazione ha mostrato limiti e la repressione di contenuti illeciti e dannosi o la lotta alla pedocriminalità esigono strumenti efficaci; ma l’efficacia, in uno Stato di diritto, non può farsi sinonimo di opacità tecnologica generalizzata o di scorciatoie che trasformino la cifratura da presidio universale a privilegio condizionato
Quale via d’uscita dallo scontro sulle regole
La via d’uscita dall’impasse non è, probabilmente, una resa dell’uno al paradigma dell’altro, bensì una doppia convergenza: da un lato, costruire passaggi istituzionali di mutuo riconoscimento che circoscrivano con precisione quando e come un ordine estero possa legittimamente incidere su promesse consumeristiche domestiche; dall’altro, innestare nella cultura regolatoria americana, senza violarne le premesse costituzionali, la dimensione di accountability sistemica richiesta dal DSA, depurandola però da derive censorie o da design obbligatori che obblighino a interferenze pervasive con l’E2EE.
In assenza di tale doppio movimento, la scissione USA–Europa non solo continuerà, ma si approfondirà in una “secessione funzionale” del web: servizi frammentati per territorio, promesse divergenti, sicurezza modulare a scapito della fiducia globale, con crescente arbitraggio regolatorio tra mercati e, soprattutto, con l’utente, europeo o americano, costretto a un pellegrinaggio informativo per comprendere quale combinazione di diritti, filtri e vulnerabilità gli sia stata appiccicata addosso in ragione del suo indirizzo IP.
Scrivere oggi significa allora invitare imprese e regolatori a un patto di verità: che non si prometta ciò che non si può mantenere; che non si imponga ciò che non si può dimostrare necessario e proporzionato; che non si pretenda dall’architettura tecnica il compito di sanare il vuoto di fiducia politica.
Solo su queste basi, la “disobbedienza digitale” cessa di essere un gesto di antagonismo e si fa, paradossalmente, nuovo linguaggio di fedeltà all’ordinamento: fedeltà alla legalità interna, fedeltà alla parola data agli utenti, fedeltà all’idea secondo cui la sicurezza non può essere acquistata a debito della libertà, e la libertà non può essere esercitata ignorando la responsabilità di chi progetta gli spazi del discorso.
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