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al Meeting di Rimini il focus sul «capitalismo malato»


Gli attacchi ai «giudici politicizzati» non sono una novità; l’annuncio di un «piano casa» è troppo vago per essere anche solo brevemente commentato; dire che Israele a Gaza «è andata oltre il principio di proporzionalità» è il minimo che si possa dire. Insomma, il passaggio della premier Giorgia Meloni al Meeting di Rimini non ha lasciato un gran segno. Diversamente, molto interessante è stato l’incontro dal titolo “Il capitalismo malato” in cui si sono confrontati Luigi Zingales, economista della University of Chicago e direttore dello Stigler Center, Emilio Colombo, docente di Politica Economica all’Università Cattolica e Piergiovanna Natale, economista all’Università di Milano-Bicocca.

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Punto di partenza della discussione è stato il rapporto tra profitto e responsabilità morale di un’azienda, ovvero la questione se la manipolazione di dati anche pericolosi al fine di non mettere a rischio i conti di un’impresa sia un’eccezione o una dinamica strutturale. Senza generalizzare, Zingales ha ricordato il drammatico crollo del Ponte Morandi a Genova. «Il rischio del crollo era conosciuto da anni. Nel 2010 se ne discuteva nei Consigli di amministrazione, nel 2013 era addirittura segnalato come il maggiore pericolo per la società. Eppure non si intervenne». Il punto, secondo l’economista, è la divergenza tra diverse prospettive: «Dal punto di vista morale, la scelta corretta era intervenire immediatamente. Dal punto di vista dei profitti, i consiglieri hanno fatto la cosa giusta. Dal punto di vista delle carriere personali, ribellarsi avrebbe significato isolamento. E così nessuno ha agito». E non si tratta, ha sottolineato, di un problema solo di casa nostra, ma globale, come dimostrano i casi Boeing, Volkswagen, DuPont, Exxon: «Società che hanno nascosto difetti mortali nei prodotti, inquinato consapevolmente, finanziato la disinformazione. Non si tratta di malvagità individuale, ma della banalità del male applicata alle corporations. Persone decenti, inserite in meccanismi che le inducono a scelte dannose per la collettività».

A incidere su simili dinamiche è oggi anche il fatto che in passato le imprese erano radicate nelle comunità, mentre ormai la globalizzazione ha portato a una perdita di responsabilità sociale. «I dirigenti vivevano vicino agli stabilimenti, incontravano operai e cittadini, subivano conseguenze sociali dirette delle loro scelte. Oggi, con la globalizzazione, stabilimenti e investitori sono distribuiti nel mondo. I vertici vivono in quartieri esclusivi, lontani dai lavoratori. Così si è dissolta la pressione sociale che un tempo fungeva da correttivo». A ciò, ha aggiunto Zingales, si somma una teoria economica dominante che ha ridotto tutto alla massimizzazione dei profitti: «Secondo Friedman, i manager devono solo fare soldi per gli azionisti. Questi ultimi, poi, decideranno individualmente come usarli. Ma questa separazione tra economia e morale non regge. Ci sono scelte che non possono essere disgiunte: non si può prima inquinare e poi ripulire, o far crollare un ponte e dopo risuscitare i morti. Non siamo Gesù Cristo».

Sottolineando che «l’errore è pensare che l’unico obiettivo sia il profitto», Zingales ha proposto un modello innovativo: la democrazia azionaria. «Occorre riportare scelte morali nei Consigli di amministrazione. Non basta la regolamentazione esterna, spesso debole e manipolata dalle stesse imprese. Serve dare voce agli azionisti». Come? Secondo Zingales, con assemblee estratte a sorte tra gli azionisti, simili alle giurie popolari: «Un campione di 100-200 persone, rappresentativo della popolazione, con il compito di esprimersi su decisioni di grande impatto sociale. Non scelte tecniche, ma morali. In questo modo i piccoli azionisti, oggi esclusi, avrebbero finalmente voce».

Una questione affrontata nel corso della tavola rotonda riguarda però anche le dimensioni delle imprese. Colombo ha infatti sottolineato come questo discorso riguardi soprattutto le grandi corporations: «Le imprese di medie dimensioni, radicate nei territori, hanno rapporti più stretti con le comunità. In Italia e in Europa prevalgono le piccole imprese, con vantaggi e limiti. La sfida è crescere mantenendo il legame sociale». Zingales ha concordato: «Le piccole imprese italiane hanno una forte responsabilità verso i lavoratori, ma spesso ignorano i temi ambientali. E comunque l’economia richiederà aziende più grandi. Il problema tornerà con forza».

Natale ha sollevato questioni pratiche: «Chi decide i temi su cui le assemblee di investitori devono esprimersi? Non rischiamo che siano più stringenti dove serve meno e indulgenti dove servirebbe più rigore? E dove finisce l’autogoverno delle imprese e dove deve intervenire la legge?». Zingales ha risposto con alcuni spunti provenienti dall’esperienza americana: «Tre fondi – Vanguard, BlackRock, State Street – controllano il 25% delle azioni. Decidono di fatto le politiche delle società, ma senza responsabilità democratica. Noi vogliamo che gli azionisti si esprimano direttamente. E la prima regola che dovrebbero imporre è limitare il lobbying politico delle imprese. Negli Stati Uniti le società finanziano liberamente campagne elettorali; di fatto siamo in una plutocrazia. Solo gli azionisti possono fermarle». Quanto all’Europa, Zingales ha messo in guardia: «Siamo bravi a multare le società americane, ma noi non siamo immuni. Le differenze istituzionali contano, ma la pressione dei grandi gruppi agisce anche qui».

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Ma oltre a tutto questo, c’è un’altra questione di cui si deve tener conto nel momento in cui si analizzano le dinamiche sottostanti il sistema capitalistico odierno: l’informazione. «Le imprese spesso sanno molto più dei regolatori. La DuPont conosceva la tossicità del PFOA dal 1984, l’EPA lo ha scoperto vent’anni dopo. Se non obblighiamo alla trasparenza, la società resta vittima», ha ammonito Zingales aggiungendo che «solo rendendo pubbliche queste informazioni si genera la pressione sociale che può cambiare i comportamenti».

Al di là di alcuni distinguo, il dibattito si è chiuso con un appello condiviso a non rinunciare a interrogarsi sugli attuali modelli dominanti e su come porre rimedio al «capitalismo malato». Così Zingales ha avanzato la sua proposta evocando la famosa frase di Neil Armstrong per lo sbarco sulla Luna: «Non credo nei miracoli, ma credo che riportare la moralità nelle scelte delle imprese, attraverso la democrazia azionaria, possa essere un passo avanti enorme. È un piccolo passo per la teoria, ma può diventare un grande passo per l’umanità».





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