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POLITICHE ATTIVE/ Le riforme per non mettere in difficoltà lavoratori e imprese


Per ridurre il mismatch presente nel mercato del lavoro italiano occorre agire anche sulle politiche attive

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La difficoltà di reperire lavoratori disponibili e dotati di competenze adeguate è un problema comune di tutti i Paesi sviluppati, destinato ad aumentare per la riduzione demografica della popolazione in età di lavoro e per l’impatto pervasivo delle tecnologie digitali.

In un recente articolo abbiamo analizzato le caratteristiche del mismatch del nostro mercato del lavoro che si differenzia per intensità del fenomeno (circa il 45% delle potenziali assunzioni da parte delle imprese), dal momento che si manifesta: in presenza del tasso di occupazione inferiore di 8 punti rispetto alla media dei Paesi europei; per la particolare incapacità di compensare la perdita delle competenze e dei mestieri svolti dai lavoratori anziani che vanno in pensione.



La peculiarità italiana è motivata anche dalla carenza di riforme adeguate delle prestazioni del welfare e del mercato del lavoro che hanno prodotto un impatto negativo sulla domanda e sull’offerta di lavoro. Negli ultimi 15 anni è aumentata in modo esponenziale la spesa corrente per sostenere i redditi di varia natura a discapito di quella da destinare agli investimenti nella sanità, nell’istruzione, nel lavoro di cura e per la digitalizzazione dei grandi servizi della Pubblica amministrazione, comparti che nei principali Paesi sviluppati hanno svolto un grande ruolo per l’incremento della domanda di lavoro qualificata rivolta ai giovani, alle donne e nei territori più deboli.


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L’approfondimento odierno è dedicato all’inconsistenza storica delle nostre politiche attive del lavoro (di seguito Pal). Parliamo del complesso dei servizi di orientamento, di formazione, degli incentivi per le assunzioni, dei rapporti di lavoro finalizzati a favorire l’inserimento lavorativo e a conciliare i carichi di lavoro con quelli familiari, che hanno il compito di adeguare le caratteristiche dell’offerta di lavoro per renderle coerenti con i fabbisogni occupazionali richiesti dalle imprese private e dalle amministrazioni pubbliche.

Ai ritardi accumulati dalle nostre Pal, che trovano conferma nel mancato ricambio generazionale, nel basso tasso di occupazione femminile e nell’incremento degli squilibri territoriali, hanno concorso due fattori: lo scarso peso attribuito alle Pal nell’ambito delle politiche del lavoro e dalle relazioni sindacali (gli anni 2000 sono contrassegnati da tentativi di riforme e controriforme rivolte a regolare i rapporti di lavoro flessibili); la riforma del Titolo V della Costituzione (2001) che ha assegnato la competenza esclusiva delle modalità di erogazione dei servizi di orientamento e della formazione professionale alle Regioni, in carenza di un approccio culturale e gestionale condiviso.



Da questi limiti è scaturita una produzione di norme e di interventi dello Stato e delle singole Regioni nel corso degli anni 2000, accompagnati da un’infinità di contenziosi attivati presso la Corte Costituzionale, che fanno assimilare le Pal a un specie di assemblaggio di provvedimenti normativi e di programmi per l’utilizzo dei fondi nazionali ed europei privi della capacità di mobilitare le risorse e i comportamenti degli attori delle Pal verso priorità e obiettivi di sistema.

Dopo il fallimento del tentativo di riportare nello Stato una parte delle competenze, per l’esito negativo del referendum del 2015, il modello vigente della governance delle Pal è il frutto di un’intesa tra il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e le Regioni per l’utilizzo delle risorse del Pnrr nell’ambito del programma GOL (Garanzia occupazione lavoratori). L’innovazione ha consentito di riportare in un ambito condiviso la definizione degli obiettivi (numeri di presa in carico delle persone in cerca di lavoro da parte dei centri pubblici e di lavoratori formati…) e delle modalità di coinvolgimento dei soggetti privati accreditati, in particolare le Agenzie private del lavoro e gli enti di formazione.

Un’evoluzione apprezzabile per l’intento di rafforzare le modalità di coordinamento dei programmi di rilevanza nazionale, ma che ripropone lo schema inadeguato della valutazione degli obiettivi e dei risultati sulla base dei singoli programmi (e non del contributo alla riduzione delle criticità della domanda e offerta di lavoro da parte degli stessi) e che rimane fondata su una presunta, e del tutto infondata, capacità dei Centri pubblici per l’impiego di supplire alle carenze dei comportamenti delle imprese e dei lavoratori.

L’esigenza di rafforzare le competenze dei lavoratori e di potenziare la formazione tecnico-specialistica ha motivato anche l’introduzione negli anni recenti di una mole notevole di interventi dello Stato (i fondi per le nuove competenze, la riforma dei percorsi della formazione professionale per potenziare le qualifiche tecnico-scientifiche e i diplomi Stem, la promozione degli Its academy con il coinvolgimento delle imprese, il potenziamento della piattaforma Siils per la condivisione delle informazioni sulla domanda e offerta di lavoro, la riforma del Reddito di cittadinanza con l’introduzione del Supporto alla formazione e al lavoro).

Tutte queste novità muovono nella giusta direzione, ma, nelle condizioni attuali, rischiano di produrre effetti inferiori a quelli desiderati. In particolare tendono a migliorare la qualità degli interventi negli apparati produttivi dotati di organizzazioni per la gestione del personale, ma incidono poco sui settori caratterizzati da piccole e micro imprese che non esprimono una domanda adeguata di innovazioni tecnologiche e di competenze delle risorse umane.

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Un pregevole articolo di Claudio Pucci (“Le imprese a caccia di laureati e diplomati”, Il Sole 24 Ore dello 21 agosto) ha messo in evidenza come gli obiettivi di incremento dei potenziali lavoratori qualificati stimati per i singoli programmi risultino inferiori alla crescita spontanea dei fabbisogni della domanda di lavoro prevista dalle imprese e delle amministrazioni pubbliche.

La riforma delle Pal deve attenzionare quattro principali esigenze: migliorare la quantità e la qualità del coinvolgimento degli attori pubblici, privati e sociali, che possono contribuire all’erogazione di servizi di orientamento, di formazione, di inserimento lavorativo; adeguare le caratteristiche delle offerte formative per renderle coerenti con i fabbisogni delle persone in cerca di lavoro e della concreta domanda di lavoratori; dare certezze ai comportamenti delle imprese e dei lavoratori per l’accesso ai servizi, per l’utilizzo degli incentivi per le assunzioni e dei rapporti a causa mista (lavoro e formazione); valutare gli esiti degli interventi in relazione alla capacità di soddisfare i fabbisogni del mercato del lavoro.

La riforma della governance delle Pal non può prescindere dal coinvolgimento del complesso degli attori istituzionali (ministeri del Lavoro, dell’Istruzione, dell’Università, e le Regioni) e delle parti sociali che in presa diretta, con la regolazione dei rapporti di lavoro a causa mista, o tramite gli enti bilaterali di emanazione contrattuale, possono concorrere a una corretta ed evoluta programmazione dei fabbisogni.

Per essere efficace il modello della governance deve evolvere verso le forme di coprogettazione degli interventi nel territorio che coinvolgono in presa diretta le istituzioni scolastiche e universitarie, i servizi pubblici e privati per l’impiego, i fondi interprofessionali. L’obiettivo dovrebbe essere quello di strutturare, anche attraverso delle associazioni di scopo tra i soggetti citati, una rete integrata di servizi di orientamento, di formazione e di inserimento lavorativo.

Questa governance “multilivello” consentirebbe: di migliorare la programmazione dei fabbisogni e dell’utilizzo delle risorse finanziarie; di generare reti stabili di dialogo e di gestione delle misure; di evitare la dispersione delle risorse delle Pal nei singoli ambiti di intervento e di veicolare il loro utilizzo con doti finanziarie destinate alle persone (percorsi formativi personalizzati, indennità per tirocini, contributi per i servizi di conciliazione) da erogare agli operatori anche sulla dei risultati ottenuti.

L’evoluzione dei modelli della governance è coerente con l’esigenza di aggiornare la quantità e la qualità delle offerte formative. Il concetto di formazione permanente deve necessariamente essere coniugato con la moltiplicazione degli attori e delle modalità di promuovere le offerte formative. La carenza dei percorsi di alternanza tra scuola e lavoro, che motiva circa 10 punti del minore tasso di occupazione dei giovani italiani rispetto alla media dei coetanei europei, priva i percorsi scolastici della capacità di comprendere, di interagire anche con le dinamiche dell’innovazione tecnologica digitale che vengono metabolizzate con grande ritardo nei percorsi di apprendimento teorico.

Per questi motivi i temi dell’orientamento, e dell’alternanza tra scuola e lavoro, assumono un significato diverso, e più importante rispetto al passato. Tali da prefigurare l’esigenza di inserire la materia nei percorsi di apprendimento.

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Allo stato attuale il disorientamento verso la domanda di lavoro si riflette nell’incapacità di compensare la perdita delle competenze esperienziali dei lavoratori che vanno in pensione, ma è destinata ad aumentare, anche per questa componente in relazione alla crescita del tasso di obsolescenza delle professioni indotta dalle nuove tecnologie digitali. L’offerta formativa finalizzata a rendere sostenibili le transizioni lavorative assume un valore strategico nelle Pal e deve essere erogata sulla base delle esigenze personalizzate del lavoratore e delle singole organizzazioni del lavoro.

Per questa finalità lo strumento del tirocinio extracurriculare, per completare il percorso di apprendimento teorico in ambito pratico, e quello dell’apprendistato, esteso anche agli adulti e regolato dai contratti anche per periodi di tempo limitati, possono ridurre i tempi e migliorare la qualità delle transizioni lavorative.

Il coinvolgimento degli attori funzionali nella programmazione dei fabbisogni e nella co- progettazione degli interventi richiede la condivisione di informazioni evolute e la valutazione dell’efficacia degli interventi. La chiave di volta può essere rappresentata dall’introduzione del fascicolo del lavoratore che certifica i percorsi formativi e le esperienze acquisite dalle persone. Per il mercato del lavoro avrebbe un’efficacia analoga a quella del fascicolo sanitario per la sanità, consentendo alle persone di migliorare la propria autostima e agli erogatori di servizi di migliorare la produttività e l’efficacia della propria attività.

I ritardi accumulati nel corso degli anni 2000 possono legittimare lo scetticismo sulla possibilità di attivare le riforme accennate. Ma, purtroppo, dobbiamo prendere atto che l’impatto della demografia sulla riduzione della popolazione in età di lavoro e quello delle tecnologie sulle professioni lavorative non sono fenomeni procrastinati nel tempo, ma stanno già producendo conseguenze che possono risultare letali per il mantenimento dei livelli di benessere e di coesione sociale.

La centralità assunta dalle competenze dei lavoratori e la concreta possibilità di utilizzare meglio le risorse finanziarie e tecnologiche disponibili fanno intravedere anche la possibilità di offrire risposte innovative a questi problemi.

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