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Ex Ilva: le contraddizioni di Urso e gli errori strategici del governo


Da mesi l’esecutivo insiste sul rilancio di Taranto come «polo siderurgico nazionale integrato» ma resta aperta l’ipotesi spezzatino. Intanto il ministro delle imprese continua a spacciare per verde un gas fossile, puntando tutto sul Gnl Usa. Così facendo l’industria italiana va incontro a un doppio fallimento.

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Ex Ilva: le contraddizioni di Urso e gli errori strategici del governo

C’è un passaggio, nell’intervista concessa il 24 agosto dal ministro Adolfo Urso al Corriere della Sera, che fotografa meglio di ogni altra cosa la distanza tra la realtà e la propaganda. Parlando del futuro dell’ex Ilva, il titolare del Mimit ha affermato che «le procedure della gara premiano l’offerta per l’intero compendio, ma sono valutati favorevolmente anche gli investimenti per rendere autonomi gli impianti del Nord, solo nel caso di offerte più convenienti sul piano produttivo e occupazionale». Tradotto: se arriva un’offerta che riguarda solo Cornigliano o Piombino, a scapito di Taranto, può andare bene lo stesso.

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Adolfo Urso (Imagoeconomica).

Il rilancio di Taranto e il rischio spezzatino 

Ecco la prima contraddizione. Da mesi il governo insiste sul «polo siderurgico nazionale integrato», sul rilancio di Taranto come cuore dell’acciaio italiano. Poi, tra le righe, si ammette che il Sud può essere sacrificato se il Nord promette «più occupazione». È l’anticamera dello spezzatino: un’operazione che non solo sarebbe economicamente fallimentare, ma potenzialmente illegale rispetto ai vincoli imposti dall’Unione europea sugli aiuti di Stato. Oggi l’ex Ilva impiega a Taranto circa 8.200 lavoratori diretti e oltre 3.000 nell’indotto. A Cornigliano, in Liguria, i dipendenti sono meno di 1.000. A Piombino, poche centinaia. È evidente che spostare il baricentro significa ridurre il peso occupazionale del Mezzogiorno a favore di impianti secondari. Il contrario di ciò che il governo predica nei comizi sul “rilancio del Sud”. La Commissione europea, nel concedere all’Italia spazi di intervento pubblico, ha sempre sottolineato che le risorse devono essere destinate a garantire la continuità produttiva del sito principale, cioè Taranto. Favorire offerte parziali significherebbe violare lo spirito stesso delle condizioni concordate a Bruxelles.

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L’ex Ilva di Taranto (Imagoeconomica).

Il grande inganno del “gas verde”

Non meno discutibile è l’altra dichiarazione di Urso: «La tecnologia green si alimenta con il gas». Qui siamo al paradosso. Tutti i principali progetti europei di decarbonizzazione dell’acciaio, dal HYBRIT svedese (SSAB, Vattenfall e LKAB) al progetto Salcos della tedesca Salzgitter, fino al piano di ArcelorMittal a Brema, puntano a sostituire il carbone prima con DRI (Direct Reduced Iron) alimentato a gas, ma soprattutto con idrogeno verde. Nessuno spaccia il metano come soluzione definitiva. Il gas è semmai una fase transitoria, che riduce ma non azzera le emissioni: per ogni tonnellata di acciaio prodotta con DRI a metano si emettono ancora 1,2 tonnellate di CO₂. Con l’idrogeno verde, le emissioni scendono a zero. Definire “green” l’acciaio prodotto col metano è un errore. Per alimentare un solo impianto DRI a Taranto, secondo le stime di Snam e Politecnico di Milano, servirebbero tra i 2 e i 3 miliardi di metri cubi l’anno di gas naturale: circa il 4 per cento dei consumi nazionali italiani. Una quantità enorme, che equivarrebbe all’importazione annuale di un rigassificatore di media grandezza. E infatti Urso lega il futuro del polo di Taranto «alle decisioni del Comune sulla nave rigassificatrice». Non solo: bruciare quei volumi di metano produrrebbe tra 4 e 6 milioni di tonnellate di CO₂ l’anno, l’equivalente delle emissioni di due milioni di automobili. E questo dovrebbe essere l’acciaio “verde” italiano?

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Una nave rigassificatrice a Piombino (Ansa).

Gli esempi europei che smentiscono Urso

In Svezia, il progetto HYBRIT ha già consegnato nel 2021 le prime bobine di acciaio ridotto con idrogeno verde, destinate a Volvo. Emissioni: prossime allo zero.
In Germania, Salzgitter ha avviato un investimento da 2 miliardi di euro per sostituire gradualmente gli altiforni con forni DRI-H2. Anche qui, il gas è considerato solo una fase intermedia e temporanea, destinata a scomparire entro il 2030. In Austria, Voestalpine sta riconvertendo Linz con lo stesso schema. Nessun ministro tedesco, svedese o austriaco si è mai sognato di dichiarare che l’acciaio “verde” si produce col metano. Solo in Italia si trasforma un combustibile fossile in una fonte pulita. Il discorso di Urso si inserisce in una narrativa più ampia: l’ossessione per il gas liquefatto. Nei prossimi tre anni, secondo l’accordo con gli Stati Uniti, l’Italia si è impegnata ad acquistare miliardi di metri cubi di Gnl a caro prezzo. Collegare la sopravvivenza di Taranto a una nave rigassificatrice serve più a giustificare queste importazioni che a garantire un futuro sostenibile all’acciaio nazionale.

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Donald Trump e Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

La strategia del governo può portare a un doppio fallimento

Se davvero l’Italia imboccasse la strada delineata da Urso, rischierebbe un doppio fallimento. Da un lato la perdita di credibilità europea: non ci si può presentare ai tavoli di Bruxelles parlando di transizione ecologica e, al contempo, investire miliardi in gas fossile spacciato per “verde”. Dall’altro il tradimento verso Taranto, città che da decenni paga il prezzo più alto in termini di salute pubblica e che ora rischia di essere condannata a una marginalità industriale definitiva. Le parole di Urso non sono solo opinabili: sono tecnicamente infondate. L’acciaio verde non si fa col gas. Spezzettare l’Ilva significa tradire gli impegni con Bruxelles e con i lavoratori. E subordinare il futuro del Paese a nuove forniture di Gnl è una scelta miope che va nella direzione opposta rispetto alla transizione energetica. Dietro la retorica occupazionale e i proclami di facciata, resta una verità semplice: la strategia del governo al momento non salva Taranto, non decarbonizza la siderurgia, non rafforza l’Italia. È solo l’ennesimo spezzatino politico cucinato sulla pelle dei cittadini e dell’industria nazionale.



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