Mosca alza muri, Kiev chiede sicurezza, Trump si sfila: il vertice appare sempre più lontano.
(Foto: foto di gruppo al recente vertice a Washington tra Trump, Zelensky e i leader europei).
Un vertice evocato come svolta, ora appeso a un filo
Per settimane la diplomazia ha fatto filtrare la possibilità di un vertice storico tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, forse a Ginevra, Vienna o Ankara. Un incontro che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto segnare un passo avanti verso la fine della guerra. Ma la realtà delle ultime ore è ben diversa: il summit sembra destinato a slittare, se non a saltare del tutto, sommerso da veti incrociati e diffidenze che si trasformano in vere e proprie barriere.
Zelensky ha parlato di una “finestra di 7-10 giorni” per ottenere garanzie di sicurezza sufficienti a sedersi al tavolo, ma da Mosca è arrivato un secco rifiuto. Nel frattempo, Donald Trump, che solo poche settimane fa aveva coltivato l’idea di intestarsi la pace come sigillo della sua seconda presidenza, sembra oggi meno incline a sporcarsi le mani: “la parte del leone spetta all’Europa”, avrebbe ribadito, limitando il suo ruolo a “facilitatore esterno”.
Kiev: garanzie sì, ma non al ribasso
Per l’Ucraina il punto centrale resta la sicurezza futura. Zelensky ha ripetuto che non intende accettare soluzioni che rendano Kiev vulnerabile a nuove aggressioni. “Non abbiamo bisogno di garanti che non ci hanno aiutato quando eravamo sotto attacco”, ha dichiarato, con un chiaro riferimento alla Cina.
L’Ucraina punta a un meccanismo simile all’Articolo 5 della NATO: un impegno formale, in caso di nuova offensiva, da parte di Paesi europei e Stati Uniti. Trump, però, ha già posto un limite invalicabile: nessuna truppa americana sul terreno. In un vertice alla Casa Bianca con Zelensky e i leader europei, l’americano ha offerto supporto aereo e logistico, ma senza esporsi in prima persona. La differenza non è di poco conto, perché lascia gli europei a gestire il peso maggiore, con tutti i rischi del caso.
Mosca: veti, legittimità e vecchie formule
Sul fronte russo, Serghei Lavrov ha respinto ogni ipotesi di truppe straniere in Ucraina, bollando come “assolutamente inaccettabili” le ipotesi ventilate da Emmanuel Macron e da Londra. Il ministro degli Esteri russo ha rilanciato la formula di Istanbul 2022: garanzie affidate ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu, quindi con Mosca e Pechino a giocare un ruolo da garanti. Ma è una proposta che Kiev rifiuta con decisione.
A rendere ancora più fragile la prospettiva del vertice, Mosca ha rilanciato un vecchio argomento: la legittimità di Zelensky. Secondo Lavrov, “prima di firmare qualsiasi accordo bisogna risolvere il problema della legittimità della persona che lo sottoscrive”, in riferimento al mandato scaduto del presidente ucraino nel maggio 2024. Zelensky ha replicato secco: “Se le elezioni si fossero tenute, avremmo evitato polemiche. Ma la guerra lo ha reso impossibile”.
La mina dei territori: Donbass e oltre
Forse il nodo più esplosivo riguarda i territori. Non basta la Crimea, annessa nel 2014, né le quattro regioni rivendicate e occupate in parte dall’esercito russo. Secondo quanto dichiarato dal vicepresidente Usa J.D. Vance, Putin pretende “alcune porzioni non ancora sotto controllo russo” e punterebbe a inglobare l’intera fascia sud-orientale del Donetsk. Se confermata, questa richiesta spazzerebbe via qualsiasi possibilità di compromesso. Zelensky ha sempre ribadito che nessuna parte del territorio ucraino potrà essere ceduta come moneta di scambio. E ogni concessione verrebbe letta a Kiev come un tradimento.
L’Europa stretta tra sostegno e limiti
I leader europei provano a mostrarsi compatti. Macron insiste sull’idea di un contingente europeo, Berlino ammonisce che “non bisogna essere ingenui”, e Bruxelles esplora la possibilità di una forza multinazionale di deterrenza. Ma il problema resta lo stesso: senza garanzie statunitensi, l’impegno europeo rischia di apparire fragile.
Le cancellerie europee guardano con crescente irritazione a Trump, accusato di “dividere per comandare”, chiedendo sacrifici all’Europa mentre coltiva rapporti bilaterali con Mosca. Il sospetto, a Bruxelles, è che Washington non voglia davvero la pace, ma piuttosto congelare il conflitto lasciando il Vecchio Continente a gestire il peso politico e finanziario.
L’ombra lunga di Orban
C’è poi un attore secondario ma ingombrante: Viktor Orban. Secondo indiscrezioni, Trump avrebbe telefonato al premier ungherese per convincerlo a non ostacolare l’ingresso di Kiev nell’Unione europea. Ma Budapest ha smentito, ribadendo il suo “no” secco a qualsiasi apertura. Per Lavrov, l’Ungheria resta l’unico partner affidabile dentro l’Ue, e questo indebolisce ulteriormente la compattezza europea.
L’America si sfila, la guerra diplomatica continua
Trump si presenta come mediatore, ma in realtà sembra più interessato a non compromettersi. La sua posizione ricorda quella assunta in altri dossier: massima visibilità all’inizio, poi progressivo disimpegno. È un atteggiamento che fa dire a diversi osservatori che “gli Stati Uniti non vogliono davvero risolvere la guerra, ma gestirne gli effetti”. La Russia guadagna tempo, l’Ucraina rischia di restare isolata, e l’Europa viene trascinata in un conflitto di lunga durata.
In queste ore circola l’osservazione che “le discussioni sulle garanzie di sicurezza stanno diventando un modo per guadagnare settimane, non per fermare le ostilità”. In altre parole, il negoziato si trasforma in un labirinto dove ogni strada porta a un nuovo stallo.
Un vertice che forse non vedremo mai
L’insieme di questi fattori porta a una conclusione amara: il summit rischia seriamente di non tenersi mai. L’irrigidimento di Mosca, le condizioni impossibili sui territori, la delegittimazione di Zelensky, il disimpegno americano e la debolezza europea compongono un mosaico che allontana ogni ipotesi di incontro.
Se fino a pochi giorni fa si parlava di “una finestra di opportunità”, oggi gli analisti internazionali parlano piuttosto di una finestra che si chiude. E con essa, almeno per ora, la possibilità che la diplomazia interrompa il fragore delle armi.
Quale forma possono avere le garanzie
Nel merito delle garanzie, Kiev non cerca un semplice documento politico. Chiede impegni verificabili e attivabili in tempi rapidi: difesa aerea integrata, supporto di intelligence, fornitura continua di munizionamento, addestramento e un meccanismo di “snapback” delle sanzioni qualora Mosca violasse un eventuale accordo. È uno schema che impone all’Europa di passare dalle dichiarazioni agli strumenti: accordi bilaterali blindati, un fondo pluriennale per la sicurezza e tempi certi di consegna per sistemi d’arma e munizioni.
La differenza rispetto al passato è chirurgica: non bastano più i comunicati. Servono clausole con scadenze, penali politiche e, soprattutto, una catena di comando chiara per l’attivazione degli aiuti. Se questo perimetro salta, salta anche la credibilità delle garanzie.
Il calcolo di Putin
Mosca fa un ragionamento semplice: ogni mese che passa consolida le posizioni sul terreno e rende più costosa, per gli europei, la gestione della sicurezza ucraina. Il tempo diventa strumento di pressione. La pretesa di nuove porzioni territoriali non è solo un obiettivo militare; è un modo per spezzare il fronte negoziale, esasperare le differenze tra i governi occidentali e legare qualsiasi accordo a una riscrittura della mappa che Kiev non può accettare.
La delegittimazione di Zelensky, inoltre, è un tassello della stessa strategia: se si dubita della firma, si congela ogni trattativa. Stallo cercato, stallo ottenuto.
L’Europa tra capacità militari e consenso interno
L’Unione ha incrementato produzione e trasferimenti, ma resta un divario tra dichiarazioni e capacità. L’opinione pubblica oscilla tra solidarietà a Kiev e fatica per i costi energetici, l’inflazione e la percezione di un conflitto senza sbocchi rapidi. Questo divide i governi: chi spinge per il deterrente europeo e chi teme un overstretch politico.
Senza un ombrello credibile sulla difesa aerea ucraina e senza un calendario di finanziamenti pluriennali, l’Europa rischia di essere percepita come attore retorico. E in diplomazia la percezione è sostanza.
Cosa vogliono Cina e Sud globale
Pechino mantiene il profilo del “garante distante”: si propone come mediatrice, ma rifiuta schemi che escludano Mosca. Il Sud globale osserva e misura il peso reale dell’Europa: se Bruxelles non dimostra autonomia strategica, cresce l’idea che il continente sia subappaltatore della sicurezza atlantica senza voce autonoma. Questo indebolisce ogni tentativo di coalizione diplomatica ampia.
Per Kiev è un problema concreto: senza consenso globale, ogni garanzia rischia di apparire come un accordo di parte, vulnerabile a crisi future.
Se il vertice salta: gli scenari a breve
Un nulla di fatto non rimane neutro. Aumentano gli attacchi a distanza, le guerre dei droni e lo scontro sul dominio aereo. Rischia di allargarsi la guerra ibrida: sabotaggi, pressioni sui corridoi energetici, cyberattacchi alle infrastrutture critiche, tensioni sui traffici commerciali nel Mar Nero.
Il prezzo politico lo paga l’Europa: più spesa in sicurezza, più incertezza per imprese e famiglie, meno margine per l’agenda sociale. Esattamente il campo su cui il Cremlino punta.
Come può muoversi l’Europa adesso
Tre mosse sono imprescindibili. Primo: blindare i cieli ucraini con una rete integrata e forniture programmabili. Secondo: istituzionalizzare le garanzie con un patto multilaterale europeo che non dipenda dagli umori di Washington, ma li integri. Terzo: det dettare l’agenda del negoziato su prigionieri, corridoi umanitari e sicurezza delle centrali, per generare risultati concreti che allarghino lo spazio politico a Kiev e isolino i veti russi.
Questo è il punto: o l’Europa diventa attore, o resta teatro.
Diplomazia discreta e corridoi umanitari
Anche quando i vertici saltano, la diplomazia non si ferma. Formati ristretti, scambi di prigionieri, neutralizzazione dei rischi nucleari, gestione dei corridoi di grano e di aiuti: ogni piccolo passo crea capitale politico. Kiev ha bisogno di risultati tangibili per tenere unito il Paese; l’Europa ha bisogno di mostrarli alla propria opinione pubblica. È la micro-diplomazia che costruisce la macro-fiducia.
Una timeline realistica
Nelle prossime settimane il calendario offrirà solo finestre strette. Se non maturano garanzie minime e non si riduce l’ambiguità americana, ogni annuncio di vertice resterà propaganda. L’ipotesi più concreta è una lunga serie di incontri tecnici, senza foto di leader, per scrivere bozze su sicurezza, confini e ricostruzione. Un processo lento, ma l’unico oggi praticabile.
Un confronto rinviato non è pace
Il punto è netto. Rinviare il vertice non equivale a costruire la pace: significa lasciare che il tempo lavori per chi vuole imporre nuovi fatti compiuti. Se Washington si sfila e l’Europa resta a metà del guado, la guerra diventa amministrazione dell’instabilità. Per uscirne serve un salto politico: garanzie vere a Kiev, deterrenza credibile verso Mosca, diplomazia concreta su umanitario ed energia. Tutto il resto è rumore.
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