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Guerra e business nei bilanci delle multinazionali


La guerra si insinua silenziosa anche tra i binari delle metropolitane e nei corridoi delle multinazionali. A Barcellona, la decisione di escludere Alstom da una gara da 321 milioni di euro per la modernizzazione della metropolitana, ufficialmente legata a precedenti coinvolgimenti della società in progetti israeliani, ha scosso il mondo dell’ingegneria europea e rilanciato una frontiera nuova nel rapporto tra economia e conflitto geopolitico. L’esclusione di Alstom è tutt’altro che un caso isolato. Nel settore della difesa, la cancellazione da parte del Ministero della Difesa spagnolo di una commessa da 325 milioni di dollari a Rafael Advanced Defense Systems, decisa appena qualche mese fa, si è aggiunta a una sequenza di bandi e negoziati bloccati o rimandati, conseguenza della crescente cautela politica europea davanti al protrarsi del conflitto israeliano-palestinese.

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Eppure, per quanto la domanda di tecnologie militari nell’Unione Europea resti sostenuta – le esportazioni di armamenti israeliani verso il Vecchio Continente hanno toccato la cifra record di 8 miliardi di dollari nel 2024 – gli ostacoli istituzionali e soprattutto reputazionali segnano un prima e un dopo nelle prospettive delle aziende: sono sempre più i governi e le città che valutano con diffidenza le partnership con fornitori legati a Tel Aviv, guardando alla reazione della società civile internazionale.

Proprio la società civile, alimentata da campagne globali di boicottaggio come quella promossa dal movimento BDS, sta spostando l’asse del rischio economico su un fronte meno visibile e altrettanto devastante. Il caso Carrefour è emblematico: la catena francese, dopo la chiusura delle attività in Giordania e Oman, ha visto ridursi i profitti netti dell’area di oltre il 50%, una perdita stimata in più di 300 milioni di euro solo nel 2024, in gran parte imputabile all’impatto diretto del boicottaggio e a una polarizzazione che non risparmia nemmeno i giganti della grande distribuzione. E non si tratta solo di un fatto arabo: anche in Italia e in Francia, la pressione su aziende agroalimentari israeliane (Mehadrin, Hadiklaim, Carmel-Agrexco) e brand hi-tech si traduce in un’erosione della domanda e in difficoltà crescenti nell’accesso agli appalti e alle partnership internazionali.
Sul versante della ricerca, Israele rischia di vedere esclusi i propri gruppi hi-tech da progetti ambiziosi come Horizon Europe, che stanzia 95,5 miliardi di euro su sette anni: i movimenti in corso potrebbero costare centinaia di milioni di euro fra finanziamenti e contratti, sebbene le cifre restino ancora proiezioni e manchi un quadro ufficiale delle esclusioni.

L’analisi dei dati aggregati, incrociando commesse mancate e perdite legate ai boicottaggi, porta gli analisti a stimare una cifra che per il biennio 2024-2025 oscilla fra 1,5 e 2,5 miliardi di euro/dollari: sono profitti netti evaporati per retail e agroalimentare, appalti tolti a colossi della difesa e delle infrastrutture, progetti di innovazione che si allontanano, reputazioni aziendali messe in discussione. E in questo clima, la credibilità israeliana – per decenni sinonimo di innovazione e affidabilità – si trova via via più vulnerabile all’impatto dei nuovi attori geopolitici e dell’attivismo digitale.

Anche la guerra in Ucraina continua a ridefinire la mappa economica europea, non solo nella carne viva delle infrastrutture bombardate e delle città devastate, ma nella trama fitta dei contratti, delle commesse perse e delle occasioni che sfumano nel vento della crisi. La ricostruzione del Paese è un mosaico di progetti e speranze che si scontrano con le ferite aperte di un conflitto che sembra non vedere la fine. Secondo la Banca Mondiale, solo nel 2025 l’Ucraina punta a realizzare progetti d’investimento per 17,3 miliardi di dollari, ma lo scenario resta sospeso, segnato dalla fragilità delle istituzioni e dalle incognite di una guerra che si insinua nel cuore dell’economia.

Intanto, in Europa e nel mondo affiorano le crepe delle commesse mancate. Le imprese ucraine, storicamente proiettate verso l’export agroalimentare e meccanico, vedono restringersi ogni giorno le opportunità di business. I partner esteri rallentano, le catene di fornitura si spezzano; la crescita attesa si trasforma in una corsa a ostacoli, dove le ferite belliche si riflettono nella carenza di manodopera, nei danni strutturali subiti dalle fabbriche, nell’insicurezza di investire in una terra bruciata dalle bombe. I dati macroeconomici rivelano una crescita sì positiva, tra il 2% e il 3% nel 2025, ma assai lontana dai ritmi prebellici. Gli ambiziosi programmi di bandi internazionali, con un potenziale da 500 miliardi di euro, si misurano con la difficoltà di attrarre capitali, di superare la burocrazia e di trovare partner disposti a rischiare.

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Sul fronte dei boicottaggi, lo spettro si allunga sui marchi internazionali rimasti attivi o legati economicamente alla Russia: Kiev ha chiamato esplicitamente i consumatori europei ad abbandonare decine di gruppi multinazionali, da Burger King a Unicredit, non solo sul terreno russo ma in tutti quei mercati dove la presenza di imprese ucraine si intreccia con quella dei contendenti. I boicottaggi diretti alle aziende ucraine restano limitati, i profitti netti e le occasioni di sviluppo si restringono, mentre le esportazioni verso l’Unione Europea subiscono un rallentamento dettato dall’incertezza sui tempi e sugli esiti del conflitto
Il costo, ai margini visibili dei bilanci, si fa fuori norma. La sola Italia ha visto sfumare 16,6 miliardi di euro di esportazioni verso Russia e Ucraina nel triennio 2021-2024, mentre il totale delle perdite imputabili alle conseguenze della guerra (tra energia alle stelle, crediti più cari e commerci bloccati) si aggira sui 171 miliardi di euro, pari al 2,9% del PIL annuo. Per l’Ucraina, invece, la somma dei contratti mancati, degli investimenti non attratti e dei profitti negati rischia di pesare per decine di miliardi l’anno, almeno fino alla chiusura effettiva delle ostilità e alla messa a terra dei progetti di ricostruzione.

È un’economia che danza sul bordo del precipizio: dove ogni gara internazionale, ogni investimento potenziale, ogni giro d’affari si intreccia con il presente incerto delle bombe, delle interruzioni di corrente, della migrazione dei talenti. Si combatte anche così, tra aziende che faticano a sopravvivere e un futuro economico che si scrive sui margini di un bilancio in rosso.



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