Il Movimento Cinque Stelle non molla: il termovalorizzatore di Roma non s’ha da fare. Così, dopo aver fatto cadere il governo Draghi e sacrificato l’alleanza alle regionali del Lazio, ora l’impianto voluto dal sindaco Gualtieri compatta, in un articolato esposto, varie anime del movimento. Dall’Europa fino al municipio IX, l’esposto chiede verifiche alla procura generale della Corte dei Conti di Roma.
A firmare l’atto sono Virginia Raggi, consigliera comunale ed ex sindaca di Roma, Carla Canale, consigliera del IX Municipio, l’europarlamentare Dario Tamburrano e l’ex deputato Marco Bella.
L’esposto, corredato da documenti ottenuti tramite accesso agli atti solleva preoccupazioni su un progetto di quello che viene definito “un eco-mostro in totale disprezzo di ogni sostenibilità ambientale e dei conti pubblici, con buona pace della transizione ecologica e della Legge europea sul Clima (Regolamento UE 2021/1119) che fissa al 2050 l’obiettivo delle “emissioni nette zero”. Un progetto che secondo i pentastellati “calpesta anche la nostra Costituzione che prevede non solo la difesa dell’ambiente e degli ecosistemi nell’interesse delle generazioni future, ma sottomette anche le iniziative economiche private alla tutela dell’ambiente e della salute”.
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Secondo quanto riportato nell’esposto, l’intera operazione sarebbe costruita “per favorire esclusivamente l’interesse del concessionario privato”, a scapito dell’interesse pubblico e in assenza di una reale comparazione con soluzioni alternative più moderne ed ecologiche.
Un contratto da oltre sette miliardi, rischio per i conti pubblici
L’esposto si concentra in particolare sugli aspetti economico-finanziari del progetto. Il contratto, affidato al raggruppamento temporaneo d’imprese composto da ACEA Ambiente, Kanadevia Inova AG (ex Hitachi Zosen Inova), Vianini Lavori, Suez Italy e RMB S.p.A., prevede un investimento superiore ai 7 miliardi per costruzione e gestione dell’impianto per 33 anni e 7 mesi. Roma Capitale contribuisce direttamente con 40 milioni di euro per realizzare impianti ancillari, inclusa la controversa tecnologia di Carbon Capture and Storage (CCS).
L’esposto sottolinea come la maggior parte dei rischi economici sia scaricata su Roma Capitale e quindi sui cittadini. La tariffa di conferimento, inizialmente fissata a 178,52 euro per tonnellata, è già salita a 201 euro senza che l’impianto sia operativo. Il prezzo, legato agli indici ISTAT, è destinato a crescere ogni anno, bloccando Roma su costi potenzialmente superiori alle tariffe di mercato.
Altre clausole contestate nell’esposto prevedono la revisione del Piano Economico Finanziario in caso di perdita della qualifica di “impianto minimo”, l’obbligo per il Comune di garantire la “bancabilità” dell’opera e penali milionarie in caso di risoluzione anticipata, tutte a carico pubblico. La garanzia richiesta al concessionario, pari al 10% del valore complessivo, viene giudicata – da chi presenta l’esposto – irrisoria.
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Carbon capture inefficace, ma finanziata con fondi pubblici
Uno dei capitoli centrali dell’esposto riguarda il sistema CCS (sistema di cattura del carbone), presentato come uno dei principali strumenti per contenere le emissioni. Tuttavia secondo quanto riportato nel documento, l’impianto sarebbe in grado di catturare solo fino a 50 kg/h di CO₂, pari a circa 400 tonnellate l’anno, a fronte di 600.000 tonnellate di emissioni annue previste (di cui almeno 400.000 fossili). La rimozione effettiva di CO₂ sarebbe dello 0,066%.
Nonostante ciò, Roma Capitale finanzierà la tecnologia con 6 milioni di euro. L’esposto contesta la qualificazione “sperimentale” dell’impianto CCS: secondo la relazione del CNR citata nel documento, la tecnologia è già nota, ha costi elevati e mostra limiti operativi e rischi di tossicità. Anche il sito individuato per lo stoccaggio, a Ravenna, presenterebbe delle criticità dovute alla sismicità. La Corte dei Conti europea aveva già denunciato nel 2018 l’inefficacia della CCS dopo aver speso oltre 400 milioni di euro in progetti falliti.
Trading delle emissioni e traffico su gomma
L’esposto avverte che, a partire dal 2026, il sistema ETS (Emission Trading System) sarà esteso anche agli inceneritori. Ciò comporterà per Roma Capitale un esborso di circa 120 euro per ogni tonnellata di CO₂ fossile non compensata. Considerando almeno 400.000 tonnellate annue di CO₂ di origine fossile, i pentastellati stimano un costo annuo di 48 milioni di euro, per un totale di 1,44 miliardi in trent’anni. Anche questi oneri saranno coperti nell’equilibrio economico-finanziario del contratto, incidendo dunque sui bilanci pubblici.
All’impatto economico si somma quello logistico. Il Progetto di Fattibilità Tecnico-Economica approvato prevede il trasporto dei rifiuti su gomma, nonostante l’idea iniziale, annunciata, del trasporto su ferro. Si stimano tra i 100 e 140 passaggi giornalieri di mezzi pesanti su arterie già congestionate e inadeguate come via Ardeatina e via della Cancelliera. Anche il trasporto della CO₂ catturata fino al sito di Ravenna (376 km) contribuirà all’aumento delle emissioni, rendendo ancora meno efficace il bilancio ambientale dell’impianto.
Area già compromessa dal punto di vista ambientale
La scelta di Santa Palomba come sede dell’impianto è definita problematica dall’esposto. L’area è classificata dal Comune di Pomezia come “Area ad elevato rischio di crisi ambientale” e ospita quattro stabilimenti industriali a rischio incidente rilevante. È inoltre presente una contaminazione della falda acquifera da sostanze tossiche come tricloroetilene e tetracloroetilene.
L’impianto, in quanto attività insalubre di prima classe, dovrebbe sorgere isolato e lontano dalle abitazioni. Al contrario, sarà realizzato in una zona con carenze infrastrutturali, in prossimità del futuro quartiere “Print di Santa Palomba”, destinato a ospitare circa 4.000 persone. L’esposto cita studi che documentano aumenti di mortalità e morbilità per patologie respiratorie e cardiovascolari nei pressi di inceneritori.
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Vengono anche richiamati precedenti giudiziari, come la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il caso delle Fonderie Pisano, dove l’insufficiente tutela della salute è stata giudicata una violazione dei diritti umani. I ricorrenti segnalano il rischio di una condanna analoga per Roma.
Contraddizioni con la gerarchia dei rifiuti e gli obiettivi climatici
L’esposto denuncia infine che il contratto vincola Roma Capitale a conferire 600.000 tonnellate di rifiuti ogni anno per trent’anni, indipendentemente dai risultati della raccolta differenziata. Una clausola che contrasta con i principi della gerarchia europea sui rifiuti (prevenzione, riutilizzo, riciclo, recupero, smaltimento).
Il documento sottolinea che questa rigidità svuota di senso gli obiettivi di riduzione dei rifiuti e blocca il ricorso a modelli più sostenibili. Inoltre, il contratto prevede la predisposizione di una nuova gara due anni prima della scadenza, ipotizzando una continuità oltre il 2050 — limite temporale già fissato dalla Legge europea sul Clima per il raggiungimento delle emissioni nette zero.
Infine, in caso di spegnimento dell’impianto, i costi di smantellamento saranno a carico di Roma Capitale o di AMA S.p.A., senza obblighi a carico del concessionario.
L’esposto presentato dal Movimento 5 Stelle chiede che la Procura della Corte dei Conti valuti i profili di danno erariale, inefficienza economica e impatto ambientale legati al termovalorizzatore. Secondo i suoi firmatari, ciò che si profila non è un’opera strategica, ma una “operazione opaca e dannosa per la città di Roma e per la transizione ecologica”.
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