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I sogni di Elon Musk partono da Ferrara con il ‘letto tech’ di Matteo Franceschetti


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Un fatturato complessivo di 500 milioni di dollari, e niente meno che Elon Musk, Mark Zuckerberg, Lewis Hamilton e Charles Leclerc fra i suoi clienti. Si chiama Matteo Franceschetti, è ferrarese doc, e il suo nome è comparso su Forbes ancor prima che la maggior parte dei big della Silicon Valley iniziassero ad usare i prodotti di Eight Sleep, l’azienda di cui è Matteo è Ceo e fondatore assieme alla moglie Alexandra Zatarain e altri due soci. Il loro prodotto di punta è il Pod, una copertura per il materasso piena di sensori capaci di monitorare alla perfezione il sonno, i dati biometrici e di fornire, tra le altre, la possibilità di russare di meno e di scaldare e raffreddare il letto a proprio piacimento. Non è un caso che ad utilizzarlo siano campioni mondiali, Ceo e capi di Stato: tutte persone che devono performare ad alti livelli, e per le quali un investimento di migliaia di dollari può valere la qualità del sonno, e fare la differenza.

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Com’è nata l’idea?
“Sono sempre stato ossessionato dalla prestazione, dall’efficiency, fin da quando praticavo sport da ragazzino. E quindi ho iniziato a chiedermi: perché Elon Musk ci sta portando su Marte, eppure spendiamo ancora 8 ore al giorno (che sono circa 30 anni della nostra vita) su un pezzo di gommapiuma senza nessuna tecnologia? Insomma, nonostante le innovazioni high tech più assurde, a nessuno era ancora venuto in mente di rivoluzionare la qualità del sonno, nessuno aveva mai pensato al letto tech”.

Di che anni stiamo parlando? E come avete fatto a mettere in pratica tutto ciò?
“Eight Sleep è nata nel 2014. Io abitavo a New York da un po’ e avevo già fondato la precedente start-up assieme ad Alexandra, con cui abbiamo da subito condiviso i weekend a sfornare idee di questo genere. All’epoca producevamo gioielli personalizzati con stampante 3d. Poi abbiamo conosciuto Massimo Andreasi Bassi, un ‘genio tecnologico’ che sarebbe diventato co-fondatore, a cui ho iniziato a parlare di quest’ultima idea. Mi disse di andare da lui a San Francisco, e che avremmo costruito qualcosa dal suo garage”.

Quanto tempo ci avete impiegato?
“Il primo prototipo Max l’ha costruito in tre giorni. Abbiamo comprato su Amazon un heating pad, una sorta di ‘scaldamani’, l’abbiamo connesso con un piccolo hardware e vari sensori in wi-fi, in modo che si potesse controllare da pc. Poi abbiamo fatto un pigiama-party, invitando un po’ di persone a testare il prodotto: Alex, specializzata in marketing, ha messo in piedi una presentazione, e siamo riusciti a ricevere la prima offerta di investimento”.

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Riavvolgiamo la pellicola. La sua formazione accademica parte da Ferrara: diplomato al liceo scientifico Roiti e laureato in Giurisprudenza. Qual è stato il momento in cui ha deciso di andar via?
“Mio padre era un buon avvocato a Ferrara, e volendo con la laurea in Giurisprudenza avrei potuto lavorare nel suo studio, che poi credo sia stato l’unico motivo a dirottarmi su quella scelta, dal momento che all’epoca ero completamente disinteressato. Ma a me l’idea di fare l’avvocato come mio padre non piaceva, e così ho cercato il modo di utilizzare quella laurea per qualcosa che mi conquistasse di più: durante gli anni universitari sono riuscito a guadagnare abbastanza per potermi permettere di andare a San Diego, dove ho studiato Economia, fatto un corso di lingue, e nel frattempo ho lavorato due anni per un grosso studio legale del posto”.

Come ha fatto a guadagnare abbastanza per riuscirci?
“Sembrerà strano, ma è successo scattando foto nei circuiti di go-kart: io all’epoca correvo e conoscevo un po’ l’ambiente, quindi assieme al mio migliore amico sperimentammo quest’idea. Era il 2003 ed erano gli albori delle prime digital-camera, la gente impazziva ed era disposta a pagare parecchio per avere foto del genere fatte direttamente dal circuito. Andò talmente bene che fondammo addirittura la nostra prima società, si chiamava Imago”.

Quindi si può dire che ha sempre avuto un certo fiuto imprenditoriale…
“Sì, sono sempre stato intraprendente. Pensa che all’inizio non avevamo i soldi per comprare la fotocamera, che costava intorno ai mille euro. Chiedemmo ai nostri genitori di finanziarci, ma rifiutarono entrambi. Di fatto, il nostro successo lo dobbiamo alla nonna del mio amico, che senza dir niente ai nostri genitori, ci firmò un finanziamento che avremmo dovuto ripagare in 18 mesi. Ci siamo riusciti in 18 giorni”.

Incredibile. Ha ancora legami con Ferrara? Ci torna? Se sì, con che frequenza? E come la vive?
“Torno di tanto in tanto, circa una volta l’anno per rivedere parenti e amici. Ripassare per le stesse strade, per gli stessi angoli dove sono cresciuto, fa sempre un certo effetto: è un mix di ispirazione e nostalgia”.

C’è un ricordo legato a Ferrara a cui è particolarmente affezionato?
“Senza dubbio gli anni dell’adolescenza e le giornate trascorse in giro in piazza con gli amici. Stavamo sempre in bici o in motorino, ci trovavamo sulle mura e passavamo ore a chiacchierare, ridere e scherzare”.

L’immaginario collettivo che l’italiano medio ha del ‘sogno americano’ è ancora molto radicato. Verità e falsi miti?
“Tra le verità, sicuramente c’è la meritocrazia più diffusa. Se hai un’idea forte, ti muovi velocemente e sai attrarre le persone giuste, puoi costruire qualcosa di grande, anche partendo da zero. L’accesso ai capitali è più semplice, la mentalità è più aperta al rischio e il fallimento non è uno stigma, ma quasi un badge d’onore: significa che ci hai provato. C’è un’energia contagiosa, un ottimismo pratico che spinge le persone ad agire. Tra i falsi miti, però, c’è l’idea che tutto sia facile o garantito. Il sogno americano è possibile, ma richiede sacrifici enormi. La competizione è altissima, il ritmo è più frenetico di quanto in Italia si possa immaginare, e spesso manca il sistema di protezione sociale a cui siamo abituati in Europa”.

È evidente che le due mentalità sono lontane anni luce anche dal punto di vista scolastico, o accademico…
“Assolutamente. Io a scuola ero il classico ragazzino che i prof ritenevano ‘sveglio, ma non si applica’. In Silicon Valley c’è quasi un push-back rispetto a tutti quelli che seguono lo standard del progresso scolastico: viene considerato troppo canonico, mentre spesso ciò che cercano sono persone anticonformiste. Le chiamiamo ‘contrarian and right’, cioè devi essere contrario al sistema ma dimostrare di avere ragione. Se però fai quello che fanno tutti gli altri, otterrai quello che ottengono tutti gli altri”.

Ci sono state volte in cui ha fallito o ci è andato vicino, nel suo percorso professionale?
“Certamente. Ma col tempo ho imparato a vedere il fallimento come parte integrante del percorso. Quando sei imprenditore e provi a costruire qualcosa di nuovo, ambizioso e diverso, il fallimento non è un’eccezione: è una possibilità concreta, a volte inevitabile. Nei primissimi anni di Eight Sleep (ma anche nelle precedenti esperienze imprenditoriali) ci sono stati alcuni momenti in cui abbiamo affrontato ostacoli apparentemente insormontabili. Spesso ho pensato che non ce l’avremmo fatta. Ma ogni volta che qualcosa non va come previsto, c’è un’opportunità nascosta di migliorare. Insomma, fallire e correggere rotta è molto meglio che restare immobili per paura di sbagliare”.

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Questione AI: la utilizzate già nei vostri prodotti? Immagino che negli Stati Uniti sia ad un livello molto più avanzato. Qual è l’impatto che si registra sulla società, sul valore umano, sul mercato del lavoro?
“Sì, l’AI è al cuore del nostro sistema di ottimizzazione del sonno. L’impatto sulla società è indubbiamente profondo, e stiamo solo iniziando a intravederne la portata. Da un lato, aumenterà l’efficienza e libererà tempo umano per attività più creative e strategiche; dall’altro, sfiderà il nostro modello tradizionale di lavoro e il valore che attribuiamo a certe competenze. Il valore umano si sposterà sempre di più verso ciò che l’AI non può replicare facilmente: intuizione, senso critico, creatività autentica. La sfida sarà saperla integrare senza perdere il senso profondo del nostro contributo come persone”.



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