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Il teorico del dazio – L’uomo che ha ispirato Trump a sfidare il mondo


LIVORNO – Quante volte ci siamo chiesti in questi mesi che cosa avesse veramente mosso Trump a scatenare una guerra commerciale globale, a dar via alla così detta deglobalizzazione. In un precedente approfondimento abbiamo parlato del Make America Great Again 4.0, adesso parleremo della teoria economica e dell’economista che ha elaborato il tutto, visto che “sorpresa delle sorprese” c’è una base, un’ ispirazione e non solo delirio di onnipotenza e prepotenza economica.

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Nel documento “A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System”, Stephen Miran – economista di scuola trumpiana ed ex consigliere del Tesoro – propone un radicale rovesciamento dell’ordine economico internazionale. Non si limita a suggerire correttivi: intende archiviare l’intera architettura del commercio globale costruita nel secondo dopoguerra, per sostituirla con un sistema fondato sulla forza nazionale, la pressione bilaterale, il dazio come leva politica e una nuova geografia degli scambi, organizzata non più intorno a regole comuni ma a blocchi strategici selezionati.

Il suo punto di partenza è una condanna senza appello del multilateralismo. L’Organizzazione Mondiale del Commercio, secondo Miran, ha smesso di tutelare l’equità tra le nazioni per diventare un paravento dell’espansionismo economico cinese, permettendo a Pechino di aggirare le regole, violare la concorrenza, praticare dumping industriale e acquisire tecnologie senza garantire reciprocità. Il multilateralismo, in questa lettura, è un ostacolo alla difesa dell’interesse nazionale, e va quindi superato in favore di un ritorno ai negoziati bilaterali, dove gli Stati Uniti possano esercitare in pieno la loro forza contrattuale.

Altro pilastro della dottrina miraniana è il dazio come strumento permanente di politica economica. Il commercio non è più un gioco a somma positiva, ma un’arena conflittuale in cui ogni squilibrio va punito. I dazi devono diventare la normalità, non l’eccezione: strumenti per ribilanciare le importazioni, costringere i partner a concessioni e incentivare il “reshoring” delle filiere produttive. Il protezionismo, in questa visione, non è una distorsione: è un diritto sovrano.

A ciò si accompagna una visione profondamente revisionista della libertà finanziaria. Secondo Miran, la circolazione dei capitali deve essere frenata: troppo libero afflusso di investimenti esteri, soprattutto in settori strategici come tecnologia e difesa, espone gli Stati Uniti a ingerenze geopolitiche e indebolisce la sicurezza nazionale. I flussi devono essere filtrati, controllati, guidati. Anche la politica valutaria va rivista: il dollaro deve essere difeso da svalutazioni competitive altrui e utilizzato come strumento di deterrenza, se necessario. La logica è quella della guerra economica, non dello scambio tra pari.

Infine, e forse in modo ancora più allarmante, Miran suggerisce di spezzare definitivamente il legame tra commercio e valori. L’idea che un accordo commerciale debba essere condizionato al rispetto dei diritti del lavoro, delle norme ambientali, delle libertà sindacali o delle regole sanitarie internazionali viene rigettata come imposizione ideologica delle élite liberal-globaliste. Per Miran, il commercio deve tornare a essere neutro, tecnico, disincarnato. Non importa se chi produce sfrutta i lavoratori o inquina il pianeta: l’importante è che produca a buon mercato.

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Il disegno complessivo è chiaro. Stephen Miran non vuole riformare la globalizzazione: vuole sostituirla con un mondo commerciale chiuso, muscolare, polarizzato. Un’economia internazionale fatta di blocchi geopolitici, di alleanze selettive, di confini ridisegnati non solo in base ai confini geografici, ma alla fedeltà strategica. L’America deve commerciare solo con i suoi simili: chi non si allinea, viene escluso.

Tutto ciò risuona perfettamente con la pancia dell’elettorato trumpiano. La denuncia del WTO come strumento di svendita della sovranità è musica per gli industriali del Midwest. Il ritorno ai dazi permanenti soddisfa la richiesta di protezione di molti lavoratori disillusi. Il controllo sugli investimenti stranieri piace a chi teme la Cina anche solo come concetto. L’idea che l’ambientalismo e i diritti del lavoro siano maschere ideologiche imposte dalla sinistra colta è il cuore pulsante della propaganda sovranista. È una dottrina fatta apposta per essere applaudita nei comizi, rilanciata nei talk show conservatori, trasformata in decreto in caso di ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Ed è proprio per questo che questa teoria ci appare tanto pericolosa quanto seducente. Perché parla a un’identità ferita, ma propone come cura un veleno peggiore del male. La retorica di Miran, sotto la patina tecnica, è una chiamata al ritiro: dal multilateralismo, dalla cooperazione, dal rispetto delle regole comuni. È l’elogio di un commercio muscolare e privo di etica, dove la forza negoziale sostituisce il diritto, e la sovranità diventa sinonimo di isolamento.

Il capitalismo che pensa: etica, lungimiranza e una radicalità possibile

Noi crediamo esattamente nell’opposto. In un capitalismo regolato, colto, interdipendente. In una globalizzazione non ingenua, ma consapevole, dove i legami tra Paesi siano anche strumenti di pace, di sviluppo, di progresso condiviso. Nel valore della legge contro l’arbitrio, dell’equilibrio contro l’imposizione, della responsabilità contro il puro interesse nazionale. I problemi del sistema attuale non si risolvono con il ritorno ai confini, ma con una riforma coraggiosa e multilaterale che sappia riequilibrare i rapporti, non spezzarli. I dazi strutturali non proteggono: isolano. Il disprezzo per gli standard sociali non rende più competitivi: rende più cinici. E l’idea di selezionare i partner economici sulla base della fedeltà geopolitica, e non del rispetto delle regole, non rafforza l’Occidente: lo impoverisce culturalmente e lo disarma moralmente.

La visione di Miran non è una riforma del commercio globale, è una regressione ideologica. Una vendetta mascherata da strategia. Un manuale di guerra travestito da trattato economico. Per questo va letta, capita e rifiutata con la stessa lucidità con cui si respingono le dottrine reazionarie. Perché il futuro – quello vero – non sarà fatto di blocchi ostili e tariffe punitive, ma di un nuovo equilibrio globale fondato su regole, trasparenza, cooperazione. E magari, anche su un po’ di giustizia.

Nel tempo della velocità compulsiva, dove la viralità dell’informazione è più rapida della comprensione e più effimera della memoria, parlare di un capitalismo “etico” può sembrare un ossimoro. Ma è proprio in questo paradosso che si nasconde l’ultima frontiera della radicalità: quella della razionalità responsabile.

Un capitalismo regolato, culturalmente evoluto, consapevole della propria interdipendenza con l’ambiente, il lavoro e le generazioni future, non è affatto un compromesso tiepido. È, al contrario, la più lucida delle rivoluzioni possibili in un tempo dominato dall’idolatria dell’“adesso”. Perché non c’è nulla di più radicale, oggi, che pensare al domani.

L’ideologia economica che ha nutrito il trumpismo e i suoi epigoni è invece l’esatto contrario: un darwinismo neoliberista travestito da pragmatismo popolare. Una dottrina dell’egoismo di massa, che promette scorciatoie individuali in un sistema già truccato a vantaggio di chi la ricchezza l’ha già ereditata. E nemmeno quella ricchezza ha un futuro: perché neanche i figli dei ricchi saranno risparmiati da un sistema che nega l’equilibrio ecologico, lo sviluppo infrastrutturale, il progresso scientifico e il diritto a un lavoro degno.

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Si parla di “libertà”, ma si coltiva irresponsabilità. Si inneggia al “popolo”, ma si protegge l’oligarchia. Il tutto con una sapienza comunicativa che ha del grottesco: basta una bomba mediatica ben piazzata, magari sul nulla, per far dimenticare l’erosione reale della coesione sociale, del salario reale, della sostenibilità ambientale. Così, mentre il Paese brucia o sprofonda, si discute della forma di un cappello o del destino di una serie tv.

Eppure, il capitalismo non è condannato a essere predatorio. La regolazione non è censura, ma architettura. L’etica non è debolezza, ma intelligenza sistemica. E il pensiero lungo – quello che tiene insieme capitale, lavoro e natura – è la vera discontinuità rispetto al pensiero debole dell’“io prima di tutto”.

La radicalità, in questo tempo confuso, non è nel distruggere. È nel costruire.

 

 



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