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La Settimana Economica | n. 31/2025


Stati Uniti: Tra crescita apparente e debolezze strutturali
Il PIL accelera, ma dietro il rimbalzo si nasconde un’economia sempre più fragile: i consumi rallentano, gli investimenti frenano, e il mercato del lavoro perde slancio. A luglio, solo 73.000 nuovi posti e disoccupazione al 4,2%. Cresce l’attesa per un taglio dei tassi, mentre la volatilità sui mercati esplode. L’euforia finanziaria (speculazione e performance scollegate dai fondamentali) rischia di scontrarsi presto con l’indebolimento della domanda reale.

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Europa: Debole, ma resiliente
L’Eurozona cresce poco (+0,1%), ma tiene. Occupazione ai massimi storici (6,2%), inflazione sotto controllo, e pressioni disinflazionistiche in aumento grazie anche all’effetto Cina. La BCE opta per una pausa tattica e si tienepronta a muoversi in base ai dati. La tenuta del blocco europeo, pur senza slancio, appare oggi più coerente e meno esposta agli shock rispetto al quadro statunitense.

MERCATI FINANZIARI

FTSE MIB: 39942,82, -1,92% questa settimana, +16,29% da inizio anno
STOXX 600: 535,80 punti, 2,64% questa settimana, +4,92% da inizio anno 
DAX: 23425,97, -3,43% questa settimana, +17,01% da inizio anno 
IBEX: 14126,71,  -0,78% questa settimana, +20,97% da inizio anno 
CAC: 7546,17, 3,69% questa settimana, +2,05% da inizio anno 
NASDAQ: 20650,13, -2,17% questa settimana, +6,42% da inizio anno 
SP 500: 6238,00, -2,36% questa settimana, +5,67% da inizio anno 
US10Y: 4,22%, -17 punti base questa settimana, -35 punti base da inizio anno 
US02Y: 3,68%, -24 punti base questa settimana, -56,1 punti base da inizio anno 
US10Y-US02Y: 0,54%, +7 punti base questa settimana, +21,1 punti base da inizio anno
IT10Y: 3,54%, -2 punti base questa settimana, -1 punto base da inizio anno 
SPREAD: 87,90 punti base, +2,2 punti base questa settimana, -29,2 punti base da inizio anno 
VIX: 20,37, +36,53% questa settimana, +18,36% da inizio anno
BTC: $113707,50, -4,83% questa settimana, +21,58% da inizio anno

FOCUS DELLA SETTIMANA 

Stati Uniti: chi cammina con lo zoppo impara a zoppicare

Crescita solida nel secondo trimestre, ma segnali di rallentamento strutturale

Nel secondo trimestre del 2025, l’economia statunitense è cresciuta del 3,0% su base annua, recuperando dalla contrazione di inizio anno. Tuttavia, il ritmo complessivo resta più debole rispetto al 2024, con una crescita semestrale dell’1,2% contro il 2,5% dell’anno precedente. I consumi delle famiglie si confermano il principale motore dell’espansione, mentre rallentano gli investimenti aziendali e pesa il crollo delle importazioni (-30,3%) dopo l’impennata pre-tariffe.

L’inflazione core si mantiene al 2,5%, sopra il target della Federal Reserve. In assenza di pressioni marcate, la banca centrale ha mantenuto un atteggiamento attendista. Le misure protezionistiche e le politiche migratorie della Casa Bianca aumentano l’incertezza, ma non hanno ancora intaccato in modo significativo la resilienza dell’economia, che l’amministratore delegato di JPMorgan Chase, Jamie Dimon, ha definito un “atterraggio morbido”.

Mercato del lavoro: segnali di fragilità e attesa per un possibile taglio dei tassi

Il mercato del lavoro, finora sorprendentemente robusto, ha mostrato a luglio un netto rallentamento. Sono stati creati solo 73.000 nuovi posti di lavoro, ben al di sotto delle attese. A questo si aggiungono pesanti revisioni al ribasso per maggio e giugno, che riducono il totale di quei mesi a 33.000 unità. La disoccupazione è salita al 4,2%, con 1,83 milioni di disoccupati di lunga durata.

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Sotto la superficie emergono segnali di debolezza strutturale: la partecipazione al lavoro è in calo, complice la stretta migratoria, l’invecchiamento della popolazione e una domanda di lavoro più cauta da parte delle imprese. Il presidente della Fed, Jerome Powell, ha parlato di “equilibrio fragile”, sottolineando che l’apparente stabilità del tasso di disoccupazione può essere fuorviante.

Le tensioni interne al board della Fed si sono accentuate: due governatori (Michelle Bowman e Christopher Waller) hanno espresso dissenso rispetto alla decisione di lasciare i tassi invariati a luglio, sostenendo la necessità di un taglio preventivo. Le aspettative di un allentamento a settembre sono rapidamente aumentate, con i mercati che ora prezzano una probabilità del 70%.

Domanda interna in calo e incertezze crescenti

Oltre alla frenata del mercato del lavoro, anche il contesto economico generale appare più debole. Le vendite finali (al netto di scorte, commercio estero e spesa pubblica) sono cresciute solo dell’1,2%, minimo da fine 2022. I settori ciclici come manifattura, estrazione, commercio e turismo risultano i più colpiti, mentre i servizi essenziali (sanità su tutti) reggono meglio.

Le imprese segnalano un crescente clima di incertezza, alimentato dalle tariffe introdotte negli ultimi mesi, dalla contrazione degli investimenti pubblici e dalle nuove scadenze fiscali. La Casa Bianca continua a minimizzare, parlando di fase di “riassestamento” necessaria per ricalibrare le relazioni commerciali.

Tuttavia, a partire da ottobre, nuove misure fiscali potrebbero appesantire ulteriormente l’economia: migliaia di dipendenti pubblici usciranno dai ruoli, mentre i tagli ai finanziamenti locali e la revisione dei piani di rimborso per i mutui studenteschi minacciano di comprimere ulteriormente i consumi.

Inflazione e politica monetaria: la prudenza resta la linea guida 

Sul fronte dei prezzi, l’inflazione core si attesta tra il 2,5% e il 2,8%, ancora sopra il target. Gli effetti dei dazi, sinora mitigati dalle importazioni anticipate, iniziano a trasferirsi al consumatore. Powell ha ammesso che stimare l’impatto delle misure commerciali resta complesso, ma ha ribadito l’approccio della Fed: gradualità, indipendenza e centralità dei dati.

Le aspettative di inflazione nel lungo termine restano ancorate, mentre quelle a breve sono in lieve risalita. La Fed mantiene un orientamento “moderatamente restrittivo”, pronta ad agire solo a fronte di segnali consolidati sul fronte occupazionale e inflattivo. Nessun taglio automatico, dunque, ma un monitoraggio costante dell’evoluzione congiunturale.

Mercati euforici, economia reale in affanno 

A dispetto del quadro macroeconomico incerto, i mercati azionari vivono una fase di entusiasmo speculativo. Titoli altamente volatili e spesso non redditizi, come Opendoor Technologies (+377% in un mese), Kohl’s o Krispy Kreme, attraggono investitori alla ricerca di rendimenti rapidi, ignorando fondamentali deboli.

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Anche l’ARK Innovation ETF, noto per la sua esposizione a titoli tecnologici speculativi, ha guadagnato il 36% da inizio anno. Si moltiplicano i segnali di eccesso: valutazioni elevate, utile assente e un premio per il rischio azionario ai minimi storici.

Parallelamente, l’economia reale mostra crepe sempre più visibili: difficoltà occupazionali per giovani e neolaureati, inflazione in lieve risalita a giugno, e consumi in rallentamento. Questa disconnessione crescente tra finanza e fondamentali economici potrebbe rivelarsi insostenibile, con rischi di brusche correzioni nei mesi a venire.

Europa: tra resilienza e nuove sfide monetarie

Crescita debole, ma segnali di tenuta 

Nel secondo trimestre del 2025, la zona euro ha registrato una crescita modesta (+0,1%), in netto rallentamento rispetto al trimestre precedente. Su base annua, l’espansione si ferma allo 0,4%. Tuttavia, alcuni indicatori suggeriscono una tenuta strutturale: i salari reali sono in lieve aumento, il settore dei servizi – sostenuto dal turismo – continua a espandersi e il mercato del lavoro rimane solido. Le presenze turistiche straniere hanno superato i livelli pre-pandemici, raggiungendo quota 750 milioni.

La crescita, tuttavia, si distribuisce in modo disomogeneo. Germania e Italia risultano in leggera contrazione (-0,1%), mentre Francia e Spagna sorprendentemente crescono rispettivamente dello 0,3% e dello 0,7%. In parallelo, diverse capitali, da Berlino a Bruxelles, stanno abbandonando temporaneamente le regole di rigore fiscale per finanziare investimenti strategici, in particolare nella difesa e nelle infrastrutture.

Occupazione ai massimi storici: un cuscinetto contro la debolezza 

Il mercato del lavoro si conferma uno dei principali pilastri della tenuta europea. A giugno, la disoccupazione nella zona euro è rimasta ferma al 6,2%, il livello più basso mai registrato. Il numero di disoccupati è sceso di 62.000 unità, con miglioramenti significativi in Spagna, Italia e Portogallo. Germania, Francia e Belgio restano stabili, mentre solo pochi Paesi – come Austria e Polonia – registrano lievi aumenti.

Secondo diversi analisti, la solidità dell’occupazione continuerà a sostenere la domanda interna nei prossimi mesi, contribuendo ad ammortizzare gli effetti di un contesto esterno sempre più incerto. Questo quadro rafforza la posizione attendista della Banca Centrale Europea, che ha deciso a luglio di sospendere il ciclo di tagli, mantenendo il tasso di riferimento al 2% dopo otto riduzioni consecutive.

Inflazione in calo, ma nuove pressioni disinflazionistiche all’orizzonte 

Il calo dell’inflazione armonizzata, con l’indice all’1,8% in Germania e allo 0,9% in Francia, ha offerto alla BCE margini di manovra. Tuttavia, si stanno consolidando nuove fonti di pressione al ribasso. Una recente analisi della BCE ha evidenziato che le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina potrebbero spingere Pechino a dirottare una quota significativa delle esportazioni verso l’Europa.

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Si stima che le importazioni cinesi nell’area euro potrebbero aumentare tra il 7% e il 10%, alimentate anche da un yuan indebolito (-10% contro l’euro negli ultimi sei mesi). Questo afflusso di beni a basso costo, concentrato in settori come elettronica, batterie, illuminazione e macchinari, eserciterebbe una pressione ribassista sui prezzi, stimata in 0,15 punti percentuali nel 2026 e fino a 0,3 punti nel 2027.

L’effetto dei dazi e la sfida per la BCE 

L’accordo tariffario tra Stati Uniti e Unione Europea, con dazi medi del 15% sulle importazioni europee, ha aggiunto ulteriori elementi di incertezza. Le nuove barriere colpiscono in particolare comparti strategici come i metalli e, potenzialmente, la farmaceutica.

Nonostante questo inasprimento, l’impatto previsto sul PIL resta moderato: le proiezioni vedono la crescita 2025 intorno allo 0,9%. L’inflazione, invece, potrebbe scendere sotto il target del 2% già nel 2026. La presidente della BCE, Christine Lagarde, ha definito l’attuale livello dei tassi “un buon punto di equilibrio”, segnalando una pausa nei tagli finché non emergano dati significativi in senso contrario.

Un paradosso monetario: stimoli inefficaci contro shock esogeni 

L’intensificarsi della pressione disinflazionistica pone la BCE di fronte a un dilemma. Se da un lato l’arrivo di beni a basso costo può frenare l’inflazione, dall’altro rischia di alimentare la domanda interna, specie in presenza di una maggiore spesa pubblica prevista per il 2026. In questo scenario, ulteriori tagli dei tassi rischierebbero di essere poco efficaci: stimolerebbero il consumo senza contrastare l’origine esterna della disinflazione.

Il recente indebolimento dell’euro potrebbe compensare parzialmente l’effetto sui prezzi, ma non mutarne la direzione. In più, la quota di importazioni dalla Cina, già superiore al 20% del totale UE, potrebbe crescere ulteriormente, accentuando le dinamiche competitive e comprimendo i margini aziendali.

Prospettive: cautela obbligata per Francoforte 

Con un mandato incentrato esclusivamente sulla stabilità dei prezzi, la BCE potrebbe essere costretta ad agire se l’inflazione dovesse stabilizzarsi in modo duraturo sotto il target. Tuttavia, l’efficacia di una politica monetaria espansiva è in discussione in un contesto dominato da shock globali, deviazioni commerciali e politiche tariffarie aggressive.

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Come segnalato anche da un rapporto congiunto della BCE e della Banca d’Italia, le nuove dinamiche del commercio globale, la “Grande Muraglia dei beni cinesi”, potrebbero rivelarsi un freno duraturo all’inflazione europea. In questo scenario, la Banca centrale dovrà calibrare con estrema attenzione ogni mossa, cercando un difficile equilibrio tra rischi di stagnazione e difesa della credibilità monetaria.

Tariffe: un nuovo ordine commerciale e il caso Corea del Sud

Con l’accordo siglato con l’Unione Europea, l’amministrazione Trump ha portato i dazi medi statunitensi al 15%, il livello più alto dagli anni Trenta. Si tratta di un cambio di paradigma rispetto al multilateralismo postbellico: gli accordi attuali sono imposti unilateralmente e utilizzati come strumenti di pressione geopolitica. L’Europa ha accettato condizioni onerose, tra cui oltre 1.150 miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti e maggiori spese per difesa ed energia, per evitare un’escalation che avrebbe potuto compromettere il sostegno americano alla NATO e all’Ucraina.

Sul piano politico, l’intesa è stata letta da molti come una sconfitta europea, sul piano politico. La maggior parte dei beni europei sarà soggetta a un dazio uniforme, con eccezioni strategiche nei settori in cui l’Europa è esportatore netto verso gli Stati Uniti, come l’aerospazio e i macchinari industriali. Il dazio medio ponderato si attesterà poco sopra il 10%, con un impatto stimato sul PIL compreso tra –0,1% e –0,3% in Francia, Italia e Germania. Secondo stime attendibili, oltre l’80% dei costi sarà assorbito da imprese e consumatori statunitensi, non europei.

L’impegno europeo ad acquistare beni statunitensi per circa 600 miliardi di dollari è stato giudicato sostenibile, in linea con i volumi storici degli investimenti diretti. L’accordo, inoltre, non include concessioni regolatorie nei settori dell’agricoltura, dei servizi digitali o dei farmaci, richieste centrali dell’industria americana, consentendo all’UE di preservare la propria autonomia normativa. In questo quadro, l’adozione di misure di ritorsione, come invocato da alcuni, sarebbe stata economicamente controproducente.

Rimangono, però, dubbi sulla sostenibilità giuridica e politica di un assetto commerciale fondato su dinamiche coercitive, privo di passaggi parlamentari e già oggetto di contenziosi legali. La tenuta di questo nuovo ordine dipenderà dagli equilibri post-elettorali del 2026–2027 e dalla possibile escalation di nuove richieste da parte americana. La fragilità strutturale dell’accordo rafforza l’urgenza, per l’Europa, di ridurre la propria dipendenza strategica dagli Stati Uniti, in particolare nel campo della difesa.

Corea del Sud: partner strategico ed eccezione alla regola tariffaria

Nel contesto della rinegoziazione commerciale promossa da Washington, la Corea del Sud ha ottenuto uno status privilegiato. Nonostante le iniziali minacce, i settori chiave dell’economia sudcoreana, semiconduttori e farmaceutica, sono stati esplicitamente esclusi dalle nuove tariffe. Si tratta di un riconoscimento del ruolo strategico di Seoul nelle catene del valore ad alta tecnologia e dell’interdipendenza industriale tra i due Paesi.

In cambio, il governo coreano ha evitato concessioni nel comparto agricolo, rifiutando l’apertura del proprio mercato a prodotti politicamente sensibili come riso e carne bovina statunitense. Un compromesso che consente a Seoul di mantenere il consenso interno, evitando tensioni sociali, e al tempo stesso di rafforzare la cooperazione con Washington.

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Attualmente, gli investimenti sudcoreani negli Stati Uniti superano i 350 miliardi di dollari: 200 miliardi nei settori strategici (chip, nucleare, batterie, biotecnologie) e 150 miliardi nella cantieristica navale. Questo livello di interscambio consolida la Corea come alleato tecnologico e industriale di primo piano, in linea con gli obiettivi americani di decoupling dalla Cina.

L’esclusione di Seoul dai dazi settoriali evidenzia una strategia negoziale transazionale: l’accesso al mercato americano non è il risultato di liberalizzazioni generalizzate, ma il frutto di investimenti strategici e cooperazione bilaterale. Un modello che privilegia le economie integrate e complementari, più che il libero scambio in senso classico.

PROSPETTIVE

Prospettive: equilibrio fragile, tra politica e mercati

L’estate 2025 ha evidenziato la crescente distanza tra mercati finanziari, indicatori economici e scelte di politica commerciale. Le prospettive globali, pur in leggero miglioramento, restano sospese su instabilità, dove ogni evoluzione geopolitica può alterare drasticamente gli equilibri attuali.

Negli Stati Uniti, la fiducia dei consumatori ha registrato un rimbalzo (indice generale a 97,2), ma le aspettative, ancora sotto la soglia di 80, continuano a riflettere incertezza diffusa. Il mercato del lavoro dà segnali contrastanti, con una creazione di posti inferiore alle attese e una disoccupazione in lieve aumento (4,2%). Nonostante la crescita del PIL al 3% nel secondo trimestre, il dato medio semestrale (+1,2%) rimane debole. I consumi reggono, ma gli investimenti rallentano, penalizzati da alti tassi e scarsa visibilità. In questo contesto, la Federal Reserve mantiene un atteggiamento prudente, ma valuta un possibile taglio dei tassi già da settembre.

I mercati finanziari statunitensi sembrano ignorare questi segnali. L’ondata speculativa su titoli tecnologici e strumenti ad alto rischio ha riportato in auge dinamiche simili al periodo del “YOLO trading” del 2021. L’assenza di solidi fondamentali dietro molte performance alimenta timori di correzioni violente, soprattutto se il rallentamento dei consumi dovesse consolidarsi.

In Europa, la situazione resta eterogenea ma non priva di elementi positivi. La crescita dell’Eurozona si è fermata allo 0,1% nel secondo trimestre, ma la disoccupazione è rimasta stabile (6,2%) e i salari reali sono in recupero grazie al raffreddamento dell’inflazione. La BCE ha interrotto la discesa dei tassi (fermi al 2%) e ritiene di essere “in una buona posizione”, anche in virtù delle nuove dinamiche disinflazionistiche legate all’aumento delle importazioni cinesi e al rafforzamento del compromesso commerciale con gli Stati Uniti.

Sul piano internazionale, il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita globale del 2,7% per il 2025 (in rialzo rispetto al 2,4% stimato ad aprile), sostenuta da un allentamento delle tensioni tariffarie e da un’accelerazione temporanea degli scambi. Tuttavia, il Fondo ammonisce: la guerra commerciale non è conclusa. Un ritorno a politiche aggressive potrebbe compromettere la stabilità economica e finanziaria globale, erodendo fino a 0,2 punti percentuali di crescita.

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L’inasprimento protezionistico lanciato dagli Stati Uniti a inizio agosto, con dazi tra il 10% e il 50% su diversi Paesi, ha già avuto impatti immediati su commercio e mercati, rafforzando la percezione che le decisioni politiche pesino oggi più dei fondamentali economici.

Nel complesso, il sistema globale sembra avviato verso un equilibrio fragile, in cui le banche centrali procedono con cautela, gli investitori oscillano tra euforia e timore, e le tensioni geopolitiche ridefiniscono le regole del gioco. Una riconnessione graduale tra politiche pubbliche, dinamiche di mercato e fondamentali economici sarà essenziale per evitare shock più ampi nel corso dell’autunno.



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