LIVORNO – Il vertice UE‑Cina tenutosi a Pechino il 23 e 24 luglio 2025 ha riacceso i riflettori su una relazione strategica tanto complessa quanto determinante per l’economia marittima globale. Mentre Bruxelles cerca di contenere la dipendenza industriale dalla Repubblica Popolare attraverso il cosiddetto “de‑risking”, Pechino risponde riaffermando la centralità del suo modello: una globalizzazione infrastrutturale fondata su logistica, porti e connessioni intercontinentali. In questo gioco a scacchi, l’Italia rischia di essere pedina e non giocatore. Eppure è proprio l’Italia ad avere una posizione geografica, storica e politica che la renderebbe regina sulla scacchiera mediterranea.
La logistica marittima è oggi il nervo scoperto delle relazioni internazionali. Il controllo delle rotte, dei terminal e delle supply chain rappresenta il nuovo volto della politica estera. Mentre la Cina consolida il suo asse marittimo attraverso investimenti portuali e presenza nei principali hub europei (su tutti il Pireo), l’Unione Europea cerca di costruire una “sovranità logistica” che tuttavia appare ancora frammentata. La recente proposta di Piano Mattei per l’Africa, lanciata dal Governo italiano, rappresenta una prima timida consapevolezza: serve una visione geopolitica della logistica. Ma il punto è proprio questo: la visione manca.
Un progetto di sistema per evitare la marginalità portuale
Serve un Piano Mattei dei Mari. Un disegno strategico che tenga insieme la portualità italiana, l’interesse nazionale e la dimensione euro‑africana. Non un piano ideologico, ma una piattaforma concreta di riforma. Una nuova governance dei porti, fondata sulla regia pubblica, su una cabina di coordinamento sovra‑istituzionale e sull’integrazione con i corridoi europei. Un piano che non lasci il campo alla sola iniziativa privata, per quanto dinamica e globale, ma che sappia attrarre investimenti strategici senza svendere asset critici. Che tuteli le infrastrutture, ma soprattutto orienti lo sviluppo. Un progetto che unisca Taranto, Augusta, Gioia Tauro, Trieste, Genova, Livorno e tutti gli scali nazionali in un’unica dorsale mediterranea capace di parlare con Algeri, Il Cairo, Tunisi e Lagos. E capace di contrattare con Pechino, non solo di subire.
Governance pubblica e regole chiare: il cuore della riforma
Il Piano Mattei dei Mari dovrà affrontare la sfida della transizione ecologica, con porti sostenibili, cold ironing e digitalizzazione delle dogane. Ma soprattutto dovrà rimettere in campo la politica: quella vera, quella industriale, quella che non delega al mercato la gestione dei confini marittimi. Perché oggi il confine non è più tra la banchina e il mare, ma tra chi decide e chi subisce le rotte globali.
C’è un vizio tutto italiano nel pensare che il mare sia un confine, un limite naturale da presidiare, un perimetro da difendere. La realtà, storicamente e strategicamente, è opposta: il mare è un vettore. Di merci, di popoli, di diplomazia. Di politica economica estera, in una fase in cui le relazioni geopolitiche si misurano sempre più sulle rotte commerciali piuttosto che sui confini terrestri. La Cina lo ha capito da tempo con la sua Belt and Road, gli Stati Uniti lo dimostrano nel Pacifico. L’Europa continentale lo sta imparando, a fatica. L’Italia invece rischia ancora una volta di trovarsi sulla carta geografica, ma fuori dalle carte strategiche.
È da qui che deve nascere il nostro Piano Mattei dei Mari. Una proposta operativa che non si limiti a evocare visioni, ma che entri nella meccanica profonda della politica industriale e marittima. Non uno spot o un omaggio all’epica matta dei porti che affondano nella burocrazia, ma un progetto strutturato di riforma del sistema portuale nazionale, con precise leve di intervento: investimenti, governance e regole.
Serve innanzitutto un fondo nazionale per l’infrastrutturazione portuale, con dotazione pluriennale e gestione autonoma, svincolata dalla stagionalità dei decreti ministeriali. Una leva finanziaria che consenta ai porti italiani di non essere più ultimi nella rincorsa ai corridoi TEN‑T, né marginali nel confronto con i grandi terminal del Nord Europa. Il sistema portuale italiano deve essere pensato come un’unica piattaforma logistica su scala macroregionale, non come una sommatoria di autorità locali in competizione tra loro. Il Piano Mattei dei Mari dovrebbe agire quindi anche sulla governance, superando la mera logica delle AdSp per aprire a una cabina di regia nazionale con poteri di indirizzo strategico. Non una centralizzazione burocratica, ma una regia politica e industriale. Un’ENI del mare, per restare in tema Mattei.
Il mare come ponte con l’Africa: oltre l’export, la cooperazione industriale
Nel frattempo, il mondo cambia. E il Mediterraneo si scalda. Non solo in termini climatici, ma soprattutto commerciali. Il vertice di Pechino ha reso chiaro che le direttrici Est‑Ovest si stanno riorientando. Il de‑risking promosso dall’UE nei confronti della Cina potrebbe, in assenza di alternative credibili, indebolire proprio quei nodi logistici europei più esposti: i porti mediterranei, e tra questi quelli italiani. Per questo occorre una terza leva, normativa: una riforma legislativa che semplifichi l’accesso agli investimenti nei porti, definisca i contorni giuridici delle ZES e ne assicuri una fiscalità stabile e attrattiva, garantendo al contempo sovranità sulle infrastrutture critiche. Non basta difendersi dal Golden Power con strumenti emergenziali: serve una visione di lungo periodo, fondata su una regolazione chiara, europea, ma a trazione italiana.
Dentro questa visione, il Mediterraneo torna a essere il mare nostrum, ma non più in senso imperiale: come ponte con l’Africa. L’Italia, con i suoi porti, è la piattaforma naturale per un Piano Mattei per l’Africa via mare. Non si tratta di esportare container, ma di costruire catene del valore condivise: filiere agroalimentari, manifatturiere e green con terminali logistici integrati. I porti italiani devono diventare avamposti diplomatici dell’industria europea, soggetti attivi nella proiezione economica dell’Unione verso il Sud globale. L’ENI ha già mostrato la via: si può essere imprese e potenze al tempo stesso, se la politica ha il coraggio di fornire una direzione.
Sotto la superficie: sicurezza strategica e potere sottomarino
A questa strategia deve affiancarsi una visione altrettanto solida sul piano della sicurezza marittima. Non si può pensare a un Piano Mattei dei Mari senza contemplare la difesa delle infrastrutture strategiche sommerse, a partire dai cavi sottomarini che oggi rappresentano la spina dorsale digitale del commercio e delle comunicazioni. In quest’ambito, l’Italia ha recentemente intensificato il proprio impegno: la Marina Militare ha avviato protocolli di collaborazione con operatori come Sparkle (gruppo TIM) per il pattugliamento e la protezione delle dorsali in fibra ottica che attraversano il Mediterraneo. In parallelo, è in discussione in Parlamento un disegno di legge per la semplificazione delle autorizzazioni e l’integrazione tra autorità civili e militari nella gestione di questi asset critici. Sul piano industriale, Fincantieri ha annunciato il potenziamento della propria divisione subacquea, in sinergia con società di robotica marittima, per sviluppare droni autonomi destinati alla sorveglianza dei fondali. E a livello multilaterale, la NATO ha avviato la costruzione di un centro di eccellenza dedicato proprio alla sicurezza delle infrastrutture sottomarine, con l’Italia tra le nazioni protagoniste del progetto. Si tratta di un salto di paradigma: la sicurezza del mare oggi passa anche dalle profondità. E se il Piano Mattei vuole essere anche geopolitica, non può prescindere da una piena consapevolezza di ciò che accade sotto la linea dell’orizzonte.
In questo scenario, l’Italia deve scegliere se restare in balia delle maree o governarle. Il Piano Mattei dei Mari può diventare la risposta: un progetto nazionale, con ambizione continentale, fondato su un’idea semplice ma rivoluzionaria. Che il mare non è un destino da subire, ma una scelta politica da compiere. E che ogni porto, da Trieste a Gioia Tauro, da Livorno a Taranto, è un ambasciatore economico, una dogana strategica, un confine che non separa, ma unisce.
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