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SENTENZA CORTE UE SUI MIGRANTI/ “Un abuso di potere che viola i princìpi della nostra Costituzione”


Saranno i giudici a decidere sui Paesi sicuri, non il governo. Lo ha stabilito ieri la CGUE. Tutte le contraddizioni di una sentenza delegittimata

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Saranno i giudici a decidere sui Paesi sicuri, non il governo. Lo ha stabilito ieri la Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE o Corte di Lussemburgo). No, si tratta di una responsabilità politica, e quella della CGUE è un’ingerenza, rispondono dal governo italiano.

A ricorrere in Corte europea di giustizia è stato il Tribunale di Roma, che fin dall’ottobre 2024 non ha convalidato il fermo di alcuni dei migranti trattenuti nel CPR (Centro di permanenza rimpatrio) italiano in Albania.



La CGUE non nega che spetti al nostro governo stabilire un elenco di Paesi terzi sicuri, ma stabilisce che i giudici italiani debbano poter esercitare un controllo giurisdizionale effettivo – secondo i criteri stabiliti dal diritto dell’Unione – sulla designazione del Paese terzo come sicuro o non sicuro.

In secondo luogo, secondo i giudici europei l’Italia può considerare un Paese come sicuro soltanto se offre una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione.

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Abbiamo interpellato Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma.

Professore, abbiamo capito bene? È questo che ci dice la sentenza?

Sì. Con una precisazione, anzi, due. La prima è che il controllo che la CGUE ritiene debba spettare al giudice non ha alcun legame, logico e giuridico, con la fattispecie concreta del richiedente protezione internazionale che, in base alla direttiva UE 2013/32, adduce controindicazioni in merito alla qualificazione come Paese sicuro dello Stato dal quale proviene.

E la seconda precisazione?

Non si capisce bene in base a quale principio della Costituzione italiana, che la CGUE è tenuta a rispettare in forza dell’art. 4 TUE, il controllo venga attribuito al giudice dalla Corte di Lussemburgo.



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La conseguenza è che non si ravvisa alcun vincolo, tantomeno di necessità, che attenga alla tutela delle persone. Già il diritto italiano vigente, attuativo della direttiva appena citata, predispone strumenti di tutela adeguati. E, si badi, la CGUE non ha rilevato alcuna violazione quanto all’attuazione di quella direttiva da parte dello Stato italiano; piuttosto, ne prospetta un’integrazione.

La questione pregiudiziale formulata dai giudici italiani non si reggeva essenzialmente sul dubbio che l’individuazione per legge dei “Paesi sicuri” fosse incompatibile col diritto europeo?

Sì, ma la CGUE ha respinto questa interpretazione, ritenendo che la direttiva lo consenta. Noti bene che dagli atti disponibili – ordinanza del Tribunale di Roma, conclusioni dell’Avvocato generale, sentenza della CGUE – non è possibile aver contezza di quel che i ricorrenti cittadini del Bangladesh lamentassero in relazione alla loro concreta situazione, e dunque della loro esposizione a pericolo ai sensi della normativa vigente. Né, tantomeno, del perché sarebbe errata la valutazione del Bangladesh come Paese sicuro; e prima ancora, se e in che termini sia stata da loro posta tale questione.

Dunque la CGUE non “smentisce” l’Italia sull’individuazione dei Paesi sicuri.

No. Questo è il punto: come segnala la stessa CGUE – che però non ne trae le dovute deduzioni! – in forza della dir. UE 2013/32 e della legislazione attuativa, la presunzione di sicurezza del Paese di provenienza, che pertanto non è assoluta, può essere in singole situazioni contraddetta da deduzioni circostanziate formulate dalla parte che richieda protezione. Non si ha dunque nessuna compressione della tutela della persona, che è competenza costituzionale (art. 24 Cost.) della giurisdizione.

Possiamo ridire tutto in altro modo?

Mettiamola in questi termini: l’efficacia della previsione generale può essere “derogata” nel singolo caso per disposizione della stessa disciplina delle procedure accelerate di rimpatrio. È quanto dire che il caso del difetto, in concreto, delle condizioni che hanno condotto lo Stato italiano a qualificare un Paese come sicuro esiste già. E sul piano degli strumenti giurisdizionali, è corredata di quanto occorre alla tutela individuale.

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Se capiamo bene, ci sta dicendo che la legge italiana stabilisce anche l’eccezione alla regola, e la tutela anche. Dove sta l’anomalia del potere conferito ai giudici dalla CGUE, quel controllo giurisdizionale effettivo sugli elementi che permettono di stabilire se un Paese è sicuro?

Occorre chiedersi dove punti la CGUE. E la risposta mi pare chiara. Qui, come già accadde nel notissimo caso Taricco, la Corte europea, senza far conto alcuno dell’identità nazionale insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale dell’Italia – e uso le parole dell’art. 4 TUE –, vorrebbe attribuire all’intero apparato giudiziario nazionale il potere di interdire l’efficacia della legge. E non già per ragioni attinenti a singole vicende; perché, lo ripeto, tale ipotesi è stata già prevista dal legislatore nazionale. Ma vorrebbe farlo in base ad una diversa valutazione che i giudici ritengano di fare della situazione generale del Paese di provenienza, usando addirittura della loro scienza privata, come si afferma nella sentenza. Si parla di informazioni raccolte dal giudice!

E come definirebbe questa scelta dei giudici della Corte di Lussemburgo?

È la violazione inaudita di un principio fondamentale degli Stati costituzionali, posto a garanzia della terzietà e dell’imparzialità del magistrato, della separazione dei poteri e quindi dei diritti dei cittadini in democrazia.

Allora è un’iniziativa squisitamente politica.

Mi sembra quasi un tentativo di spingere verso una riforma costituzionale dell’Italia, in vista – chissà – di una forma di integrazione politica, che, tuttavia, se questi sono le premesse e i metodi, si pone su linee ben lontane da quelle della nostra Carta del 1948.

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Dunque siamo in un territorio che va ben oltre la sentenza sui Paesi sicuri e i diritti dei migranti.

È così. Si pongono molte gravi questioni: con quale legittimazione e con quali strumenti i giudici possono esprimere valutazioni generali sostitutive di quelle legislative, paralizzandone l’efficacia? Qual è il rapporto di tale strumento, abbozzato dalla CGUE, con il controllo di legittimità costituzionale, che spetta solo alla Consulta?

È un tema che abbiamo già affrontato a proposito della nostra Corte costituzionale, che si sovrappone da tempo ai poteri e alla legittimazione del Parlamento.

Certo. Questa tendenza, che va diffondendosi in Europa, a convertire la legittimazione tecnica dell’ordine giudiziario in legittimazione politica, pone una pesante ipoteca sul principio di sovranità popolare, che implica attribuzione di potere normativo soltanto al corpo elettorale, ai suoi rappresentanti e ai fiduciari di questi. In Italia siamo arrivati al punto di consentire che il giudice civile ordini alle Regioni di riformare i propri regolamenti!

Ha detto “in Europa”. E altrove?

È interessante notare che negli Stati Uniti la Corte Suprema, di fronte alle esuberanze di tante ingiunzioni giudiziali intese a paralizzare in via generale gli ordini presidenziali, ha posto un rigoroso freno, come dimostra la sentenza Trump vs. CASA. Qui solleverei due questioni.

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Per quale ragione la valutazione compiuta dal giudice – che non ha neppure strumenti istruttori idonei a compiere valutazioni politiche così delicate, col rischio quindi che la sua valutazione finisca per essere approssimativa e di carattere essenzialmente soggettivo –, sarebbe più affidabile?

E poi?

Ci si deve chiedere anche se la CGUE abbia esercitato una competenza ad essa effettivamente spettante o non abbia invece agito in carenza di potere. Con ogni conseguenza in termini di non vincolatività di tale sentenza.

Secondo Palazzo Chigi la CGUE riduce i margini di autonomia dei governi. È così?

Mi sembra evidente che la CGUE riduca il margine di autonomia dei governi,  direi ancor più delle collettività nazionali e dei loro strumenti di democrazia, in una materia delicatissima, che corre sul filo dei princìpi e degli interessi basilari della collettività statuale.

E che dire della sicurezza che, secondo la CGUE, deve essere garantita a “tutta” la popolazione del “Paese sicuro”?

Sarebbe interessante capire cosa si intenda con la totalità della popolazione, dato che in base alla stessa direttiva la condizione di sicurezza è una situazione “media” – peraltro diversamente tradotta sul piano lessicale e concettuale nelle lingue dei diversi Stati membri, secondo una notazione della stessa CGUE – e non implica affatto che tutti i cittadini di un Paese siano pienamente garantiti quanto a tutti i loro diritti. Davvero si dovrebbe andare un po’ più a fondo.

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Insomma, i giudici della Corte non hanno fatto bene il lavoro.

È significativo che il nuovo regolamento UE 2024/1348, come ricorda la stessa Corte, che si premura di sottolineare la discrezionalità del cosiddetto legislatore europeo quanto alla data di entrata in vigore delle nuove disposizioni, consenta proprio di qualificare un Paese come sicuro “con eccezione per categorie di persone chiaramente identificabili”.

Cosa implica questa osservazione?

Significa, almeno, che l’estensione a tutta la popolazione – o forse meglio, a tutte le categorie della popolazione, ma la Corte di Lussemburgo non fa parola degli elementi in base ai quali si individuino tali categorie – non ha affatto carattere così cogente e tale da giustificare un così ruvido intervento negli assetti costituzionali di uno Stato membro. E si può aggiungere ancora che proprio la disciplina normativa delle concrete eccezioni alla qualificazione in questione dimostra quanto non sia plausibile l’assunto della Corte.

Da ultimo, quali sono i rischi della sentenza CGUE, secondo il  costituzionalista?

Occorre fare attenzione a che non si voglia introdurre una sorta di libertà/diritto universale di stabilimento sul territorio degli Stati UE per tutti coloro i quali, per le più diverse ragioni, non vedano pienamente garantite le proprie scelte nel Paese di origine.

Cosa succederebbe?

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Una tale estensione potrebbe determinare la conseguenza paradossale di indebolire le esigenze di tutela sottese alla garanzia di cui all’art. 10 della nostra Costituzione.

(Federico Ferraù)

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