L’azienda padovana, tra i leader nazionali nella vendita al dettaglio di detersivi e con 300 negozi, punta sullo sviluppo per linee esterne. E non esclude la quotazione in Borsa
Quando sei il quarterback di una squadra di football americano, la vittoria dipende soprattutto da te, dalle tue scelte, dal tuo senso di responsabilità. Sei tu che devi individuare il gioco d’attacco, trovando quello giusto tra i tanti contenuti nel book. E quando allo snap ti arriva la palla tra le mani hai un istante, ma solo uno, per capire cosa fare, vedere se gli avversari hanno abboccato alle finte e decidere. Puoi lanciare lontano, dare la palla al runner, oppure appoggiare il ginocchio per terra per evitare di finir male, perché gli avversari non aspettano. Sta solo a te decidere. Al tuo senso di responsabilità. Quando, vent’anni dopo, ti ritrovi ad essere il quarterback dell’azienda di famiglia, perché il titolare, tuo padre, in dieci mesi viene stroncato da una malattia, ancora una volta dipende da te, solo da te e dal tuo senso di responsabilità. L’azienda in quel momento fatturava oltre 500 milioni di euro. Potevi vendere e andare in vacanza per tutta la vita. Hai scelto di restare e di continuare il sogno di tuo padre, anche se non era il tuo. Pazienza se volevi fare lo storico, appassionato della Seconda guerra mondiale e soprattutto dello sbarco in Normandia.
Fabio Celeghin, classe 1972, dopo il football con i Saints di Padova è diventato il ceo e principale azionista, con la sorella Annalisa, di Dmo, che vende profumi e detersivi in 300 punti vendita a marchio Caddy’s e punta a tornare a 500 milioni di fatturato, somma tagliata al momento di vendere L’Isola dei Tesori, marchio dedicato al mondo del Pet di cui la holding di famiglia, che porta il nome di papà Giovanni, ha mantenuto il 22,5% del capitale.
Celeghin, perché Caddy’s?
«Noi siamo nati nel ’74 a Ponte di Brenta, cintura urbana di Padova, come Cad, Centro acquisti detersivi. E poi da lì lo abbiamo trasformato in Caddy’s».
Una fortuna fondata sui detersivi e il cibo per animali.
«Fine anni Novanta, a Trieste, vendevamo tantissimo cibo per gatti e abbiamo visto una opportunità di crescita. Siamo partiti con cinque negozi, siamo arrivati a più di 300. Poi abbiamo deciso di vendere e il 1° gennaio 2021 abbiamo ceduto la maggioranza de L’Isola dei Tesori, mantenendo il 22,5 per cento».
Il capitale è diviso tra lei e sua sorella. Quante volte al giorno litigate?
«Mai. Annalisa si occupa principalmente della fondazione ed è un lavoro vero e proprio. In questi anni abbiamo raccolto oltre 4 milioni di euro, riversati in bandi specialistici di ricerca».
Che tipo di business è il vostro?
«Di volumi. Cerchiamo una specializzazione nel business della persona, anche per questo affianchiamo al core business il lato della profumeria. Con Dmo abbiamo appena comperato 22 negozi da Modus che ora si chiamano Naima Beauty Star. Poi ci sono anche i nostri marchi».
I principali competitor chi sono?
«Acqua & Sapone e Tigotà. È un business tutto padovano, anche se oggi nel capitale di Acqua & Sapone ci sono due fondi di investimento».
E voi, quando vendete?
«Noi non vogliamo vendere, noi vogliamo crescere. Siamo i terzi attori di questo mercato, ma i primi due sono molti più grandi. Quindi possiamo solo crescere».
Chi comprerete?
«Le occasioni non mancano. Vorremmo chiudere un’operazione entro fine anno. Sul mercato ci sono due fattori che stanno agendo: un tema di ricambio generazionale e una crisi diffusa. Le aziende faticano a crescere. Questo può favorire chi è pronto a comperare. Ma non è semplice. Vendere a un concorrente significa dover fare i conti con il proprio ego, può sembrare un fallimento. Mentre il fondo è neutro e soprattutto è capace di pagare di più. Purtroppo manca una visione di lungo termine, la capacità di collaborare con i concorrenti della porta accanto».
Pensate a una quotazione?
«Magari. Ma non è semplice. Non ci sono società quotate nel nostro segmento».
Il mercato cosa evidenzia?
«I consumi sono stagnanti. Ci sono segni rossi, si fa fatica. Anche i discount faticano e non era mai successo».
Ha parlato di cambio generazionale. Ci state già pensando?
«Io non ho figli, mia sorella uno. Farà la sua strada. La cosa peggiore che possa capitare è un genitore che ti obbliga a fare un lavoro che si trasforma in una condanna per tutta la vita».
A lei è successo?
«Si. L’ho vissuta con estrema pesantezza. Ho iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia quando avevo dodici anni».
Cosa avrebbe voluto fare?
«Lo storico. Mi appassiona la Seconda guerra mondiale. Lo sbarco in Normandia».
Ma ci sarà stato un momento in cui, dopo tutto, a lei la cosa è piaciuta.
«Ha prevalso il senso di responsabilità. Quando è mancato papà avevamo 900 dipendenti, ora sono 1.700. L’azienda non è solo dell’imprenditore, è anche di chi ci lavora. Ho pensato che tutte queste persone, le loro famiglie, aspettano lo stipendio ogni 5 del mese. E ho deciso».
Prossimo obiettivo?
«Vorrei raggiungere i 500 milioni di fatturato in 4 anni».
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