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Luca Bianchi, Svimez: «I dazi un duro colpo. Ma il Sud e la Sicilia hanno i mezzi per tracciare un futuro di sviluppo»


Timidi segnali di crescita si erano intravisti negli ultimi anni grazie anche al PNRR: ma le tariffe annunciate dagli USA rischiano di vanificare tutto e di sovrapporsi a problemi storici del Mezzogiorno come la bassa qualità professionale e lo spopolamento giovanile. Il direttore Bianchi: «I settori che soffriranno di più? Agroalimentare ed elettronica». Sui divari tra Nord e Meridione: «Sono anticostituzionali e si riflettono soprattutto in ambiti cruciali come la scuola e la sanità. Per anni le nostre politiche non hanno guardato ai giovani e alla necessità di garantire loro un accesso dignitoso al mercato del lavoro»

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Per le economie europee, con l’Italia in testa, il grande spauracchio di queste settimane ha un solo nome: dazi. Le tariffe annunciate dal presidente Trump – e sostanzialmente confermate dopo l’incontro con Ursula von der Leyen – rischiano infatti di colpire settori produttivi strategici. Anche e soprattutto al Sud e in Sicilia. Una mazzata che rischia non soltanto di rallentare i segnali di crescita che negli ultimi anni si sono manifestati anche grazie ai fondi del PNRR, ma anche di sovrapporsi alle croniche criticità del nostro territorio: fuga dei giovani, bassa qualità dell’occupazione, salari stagnanti, squilibri nell’offerta di servizi pubblici fondamentali come istruzione e sanità. Di questo, e delle possibili contromisure che si potrebbero, adottare per rilanciare il Sud nel medio-lungo periodo abbiamo discusso con Luca Bianchi direttore di Svimez, Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno.

Direttore, in che modo i dazi impatteranno sull’economia del Sud Italia?
«L’ipotesi ormai molto concreta che vengano introdotti dazi da parte dell’amministrazione americana rappresenta un elemento di forte preoccupazione per tutto il Paese, ma direi anche per il Mezzogiorno, nonostante il Sud abbia una minore esposizione rispetto alla domanda estera, quindi una quota di esportazioni sul PIL più bassa rispetto al resto del paese. Le nostre analisi evidenziano appunto un rischio di un impatto sull’export di oltre 1 miliardo, e un rischio di perdere oltre 15.000 posti di lavoro per il complesso del Mezzogiorno».

Volgendo lo sguardo alla Sicilia, quali sarebbero i settori più colpiti? 
«Il tema qui è soprattutto qualitativo perché i dazi rischierebbero di indebolire quelle poche imprese esportatrici siciliane che sono anche quelle che stanno raggiungendo le migliori performance, anche nei settori più innovativi. Vediamo una concentrazione dei rischi in particolare su due settori fondamentali. Uno è senz’altro l’agroindustria: stimiamo che circa il 50% della perdita del totale di 123 milioni dell’export siciliano è concentrato nel settore agroalimentare, settore che stava manifestando negli ultimi anni un’ottima performance di crescita, e che vede nel mercato americano una destinazione fondamentale. Mi riferisco a beni come olio, vino, prodotti agricoli, ma anche della trasformazione agricola. E l’altro settore molto esposto è quello delle apparecchiature elettroniche su cui c’è una specializzazione della manifattura meridionale. Anche qua rischiamo una perdita di circa 52 milioni. 
Ulteriore elemento di preoccupazione è il tema dei prodotti petroliferi che al momento sono esclusi dai dazi previsti da Trump, ma sui quali ovviamente c’è una specializzazione specifica della Sicilia che nel momento in cui si decidesse di inserirli avremmo un impatto ancora superiore».

Quali contromisure si potrebbero adottare per evitare di farsi trovare impreparati?
«Prima ancora che dal punto di vista nazionale, bisognerebbe agire a livello europeo, mettendo pressione per limitare il più possibile l’imposizione dei dazi. Detto ciò, è importante che il Mezzogiorno nel suo complesso faccia sentire la sua voce, magari aprendo una trattativa specifica per evitare che alcuni grandi prodotti di qualità vengano penalizzati. Questo inevitabilmente avrebbe un impatto significativo anche sulla dinamica occupazionale».

«Nel 2024 in particolare, la Sicilia cresceva dell’1,5%, quasi il doppio della media nazionale. La spesa per investimenti sui comuni siciliani è passata dal 2022 al 2024 da 650 milioni a 1 miliardo e due milioni: è quasi raddoppiata. Dopo una fase di forte disinventimento pubblico, il PNRR ha avuto indubbiamente un effetto di traino sulla crescita»

Luca Bianchi, direttore Svimez

Proprio il tema dell’occupazione risulta altrettanto cruciale, specie considerando i dati degli ultimi anni, che hanno fatto registrare una crescita incoraggiante. Anche se i salari sono rimasti indietro di anni…
«Direi che i dati si mostrano in chiaroscuro. Se da un lato abbiamo una crescita dell’occupazione abbastanza buona in tutto il Sud, in particolare in Sicilia, dall’altro rimane il grande problema della qualità dell’occupazione. Concentrata com’è nel settore delle costruzioni e del turismo, spesso offre lavoro precario e soprattutto con salari insufficienti. Tant’è vero che se da un lato l’occupazione cresce, dall’altro non si riduce l’emigrazione, soprattutto dei giovani laureati. Vuol dire che l’occupazione che si crea non è adeguata rispetto all’investimento formativo che si fa e che le famiglie sostengono: e i laureati sono costretti ad andare via». C’è poi il tema drammatico dei salari. Se consideriamo il paese nel suo complesso, rispetto al pre-Covid, siamo ancora circa al 7% dei salari inferiori ai livelli di quel periodo, ma nel Mezzogiorno questo divario è ancora più grande. Questo vuol dire appunto che c’è un problema di lavoro: troppo lavoro povero che non consente ai giovani di entrare nel mercato del lavoro. O, se glielo consente, comunque soltanto attraverso lavori precari o peggio ancora alimentando il lavoro nero».

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A che punto è il Sud col PNRR? Giannola, presidente della Svimez, ha scritto che la crescita del Mezzogiorno è trainata dai fondi PNRR, ma Openpolis, marzo 2025, certifica che si è speso poco: la Sicilia si ferma al 15%. Siamo sulla strada giusta o siamo di fronte a un’epocale occasione mancata?
«Anche in questo caso la situazione è abbastanza ambivalente. Secondo me e secondo la Svimez, prevalgono le luci sulle ombre. Nel complesso non parlerei di occasione mancata, ma di un’opportunità fondamentale ancora solo parzialmente colta. Certo, ci sono ancora molte opere da completare, quindi il rischio di non servirsi dell’intero flusso di investimenti è concreto. Ma è altrettanto vero che i dati confermano come la crescita delle regioni del Mezzogiorno – penso in particolare alla Sicilia – è stata trainata prevalentemente dal PNNR negli ultimi anni. Nel 2024 in particolare, la Sicilia cresceva dell’1,5%, quasi il doppio della media nazionale. Va detto che le amministrazioni locali stanno affrontando un grande sforzo rispetto al PNRR, e stanno conseguendo importanti risultati. Un dato su tutti: la spesa per investimenti sui comuni siciliani è passata dal 2022 al 2024 da 650 milioni a 1 miliardo e due milioni, cioè una crescita dell’86%: è quasi raddoppiata. Dopo una fase di forte disinventimento pubblico, il PNRR ha avuto indubbiamente un effetto di traino sulla crescita».

Quali sono, allora, le ombre?
«Il tema su cui bisogna ancora riflettere è se tutte le amministrazioni, soprattutto i piccoli comuni, sono riusciti a ottenere le risorse sufficienti e se, per la loro capacità amministrativa, sono stati in grado di mettere in campo le energie e le conoscenze adeguate. Su questo bisogna concentrare il massimo sforzo e la massima attenzione politica per evitare di perdere le risorse del PNRR, soprattutto per le infrastrutture sociali: asili nido e riqualificazione delle scuole. È l’occasione per affrontare uno dei divari più drammatici che riguarda il Mezzogiorno e la Sicilia: l’istruzione».

I divari tra cittadini che vivono in territori del Sud rispetto a quelli del Nord sono assolutamente inaccettabili, fanno venir meno uno dei principi costituzionali fondamentali che è quello della parità dei diritti. Uno di questi ambiti è la scuola: manca il tempo pieno alle elementari. Abbiamo fatto una stima: è come se, per numero di ore, un bambino siciliano alla fine del ciclo della scuola primaria andasse a scuola un anno di meno di un bambino del Nord»

Luca Bianchi, direttore Svimez

Come si possono impiegare le risorse del PNRR in questo ambito? A quali lacune di lungo corso potrebbero mettere una pezza?
«Qualunque prospettiva di sviluppo reale, stabile, inclusivo del Mezzogiorno deve passare per un miglioramento della qualità dei servizi pubblici essenziali. I divari tra cittadini che vivono in territori del Sud rispetto a quelli del Nord sono assolutamente inaccettabili, fanno venir meno uno dei principi costituzionali fondamentali che è quello della parità dei diritti e impattano su aspetti essenziali della vita quotidiana. I due ambiti principali sono istruzione e sanità. Sull’istruzione riteniamo assolutamente inaccettabile la disparità tra l’offerta di servizi scolastici. Penso agli asili nido su cui il PNRR in parte potrà colmare il divario, ma certamente non lo annullerà, ma anche sul tema della scuola: l’offerta di tempo pieno nelle scuole elementari della Sicilia – a Palermo e Catania – copre circa il 10% dei bambini iscritti contro valori di oltre il 50% nelle regioni del Nord».

Come si riflette, nel tessuto sociale, questa differenza tra studenti che si afferma così precocemente?
«Avere meno presenza a scuola impatta significativamente anche sull’acquisizione di competenze dei bambini. Noi abbiamo fatto una stima: è come se, mediamente, un bambino siciliano alla fine del ciclo della scuola primaria andasse a scuola un anno di meno. Cioè il numero di ore di insegnamento frontale che fa un bambino siciliano rispetto a un bambino dell’Emilia Romagna è inferiore di oltre 1000 ore. 
Questa, anche se molto taciuta, è una delle principali motivazioni di quei divari nelle competenze degli studenti del Mezzogiorno che ogni anno viene fotografata dall’invalsi. Non è che i bambini del Sud abbiano meno possibilità o abbiano meno talento. Il problema vero è che un’offerta così diversa di ore di scuola incide sui percorsi di apprendimento. È fondamentale che gli investimenti pubblici vengano orientati a coprire questi divari, che poi si trascinano per tutta la vita».

«Serve un nuovo modello di sviluppo. Che valorizzi il capitale umano e che punti con decisione sul rilancio del settore manifatturiero e sull’innovazione. Non esiste una prospettiva di crescita della Sicilia lasciata esclusivamente alla crescita del turismo»

Luca Bianchi, direttore Svimez

I dati sui NEET, cioè di giovani che non risultano impegnati né in percorsi di formazione né di impiego nel mercato del lavoro, che individuano Catania, Palermo e Napoli come le capitali italiane, sono una delle dirette conseguenze di queste disparità?
«È vero: nelle città del Mezzogiorno,  abbiamo una forte concentrazione di cosiddetti NEET. Si tratta del più grande spreco di capitale umano. Da cosa dipende? Non è certo un tema di bamboccioni né tantomeno di appassionati del divano, ma si tratta prevalentemente di un profondo divario tra l’offerta di capitale umano che questi territori riescono a esprimere anche grazie a una crescita della partecipazione scolastica universitaria che, pur rimanendo inferiore ai livelli medi europei, è cresciuta nel corso degli ultimi anni rispetto invece a una domanda di lavoro da parte delle imprese che non è adeguata. Quindi attenzione a demonizzare i NEET. Sono semplicemente l’effetto da un lato di un insufficiente capitale produttivo, ma dall’altro anche di un orientamento delle politiche che non ha mai avuto le nuove generazioni come target principale degli investimenti pubblici».

Come si può pensare di invertire la rotta?
«Servono, innanzitutto, investimenti produttivi che partono dalle infrastrutture sociali, ma dobbiamo anche interrogarci su qual è il modello di sviluppo che noi vogliamo per questa regione. Cambiare modello di sviluppo vuol dire innanzitutto puntare sull’innovazione. Non esiste una prospettiva di crescita della Sicilia lasciata esclusivamente alla crescita del turismo. C’è bisogno di rilanciare il settore manifatturiero. Noi continuiamo a ritenere che l’industria sia ancora un motore della crescita e che servano investimenti per valorizzare il tessuto industriale. Significa alimentare una domanda di servizi avanzati: tecnologie, servizi alle imprese, cioè occupazione di maggiore qualità. In questo senso, esistono già delle esperienze interessanti, penso soprattutto al polo di Catania dove ha aperto “3Sun”, cioè una delle più grandi aziende europee di produzione di pannelli fotovoltaici. Questo dimostra che anche l’opzione dell’energia rinnovabile può essere un’opzione di crescita, a condizione che intorno alla filiera delle rinnovabili si investa sull’intera filiera produttiva creando competenze e imprese che partecipano alla crescita complessiva del territorio».



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