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Emma Holten: un’economia femminista | Maria Nadotti


dèficit s. m. [propr. «manca», pres. indic. del verbo lat. deficĕre «mancare»]. – 1. a. Nel linguaggio finanz., eccedenza dei valori passivi su quelli attivi attribuiti ai beni economici di un’impresa o di un ente in genere, o alle operazioni da essi compiute in un dato periodo di tempo: il bilancio presenta un dincolmabilel’azienda è in d.; fare fronte al d.; dpubblico, il passivo nel bilancio dello stato. b. Con sign. più generico, disavanzo, ammanco, perdita; anche fig., di valori non economici: dmoralepoliticoquella mostra d’arte si è chiusa in deficit2. Deficienza, mancanza. Nel linguaggio medico, diminuzione dell’attività funzionale dell’organismo o di determinati organi: dvisivo. In psicopatologia, dintellettivo, indebolimento transitorio o permanente delle facoltà intellettive.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Il vocabolario Treccani definisce così il lemma deficit, inchiodandolo irrevocabilmente al segno (–). Del resto basta prendere un qualsiasi grafico che illustri il concetto e ci si troverà di fronte a un inequivocabile slittamento verso il basso. Dove c’è deficit tutto sprofonda e affonda, scivola giù. E giù è notoriamente sinonimo di peggio.

Prendiamo il PIL (prodotto interno lordo), suggerisce l’attivista e consulente di politiche di genere danese Emma Holten, trentaquattrenne autrice di un agilissimo trattato di economia politica dato di recente alle stampe anche in Italia, Deficit. Perché l’economia femminista cambierà il mondo (trad. it. di Stefania Forlani, La Tartaruga edizioni, Milano 2025) e analizziamolo bene. Ci si accorgerà che le misurazioni che consentono di calcolarlo si fondano solo sui ‘valori attivi’. In altri termini, il PIL di un paese coincide con i profitti che quel paese produce annualmente e tali profitti si calcolano in denaro guadagnato da singoli, imprese, Stato. Là dove lavoro e attività non corrispondono a un valore monetario identificato e riconoscibile, vale a dire a uno stipendio, un salario, una resa del capitale investito da un’impresa pubblica o privata, tasse pagate, quel lavoro e quell’attività restano non solo invisibili, ma vanno addirittura a finire nella colonna passiva dei conti di fine anno. Ciò che non viene pagato, non avendo un prezzo, non ha valore.

È uno dei pilastri teorici e pratici del sistema capitalistico: ciò che non si paga non vale niente, quindi basta non pagarlo per privarlo del suo pur evidente, intrinseco valore. Una robetta da maghi e prestigiatori? No, pura tecnica di sfruttamento e rapina, al servizio dell’avidità del capitale.

Su questo valore negato si interroga e ci interroga Emma Holten, che non certo a caso è la traduttrice in danese dei saggi di Silvia Federici, teorica femminista che a metà degli anni settanta del secolo scorso, insieme a Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Brigitte Galtier e altre, dà vita al CIF (Collettivo internazionale femminista), che lancia la campagna Wages For Housework, rivendicando un salario per il lavoro domestico.

Partendo dall’idea che l’essere umano, attraverso le sue attività, è l’unico generatore di valore, Federici focalizza la sua analisi sul lavoro riproduttivo. Le donne, procreando e prendendosi cura dei figli, della famiglia e della casa e – per estensione, non certo per vocazione di genere – dei bisogni primari della società, di fatto creano e ricreano la forza lavoro e sono dunque la fonte attraverso cui si genera quel valore. Il ‘lavoro d’amore’ non pagato (attività di cura e lavoro domestico) costituisce dunque – insieme al genocidio dei nativi americani, alla tratta transatlantica degli schiavi e analoghe, coeve e successive, imprese coloniali – la base su cui l’Occidente ha costruito l’accumulazione del surplus di ricchezza.

Contabilità

Buste paga

 

Holten riparte da lì, dichiarando fin dall’introduzione del suo saggio che la sua è «una battaglia per la verità» da contrapporre alla narrazione economica dominante e alla sedicente precisione delle sue risposte teoriche produttrici di misure concrete perlopiù efferate. La causa scatenante della sua riflessione è una vicenda personale, una di quelle vicende che di solito vengono relegate nella sfera del privato e lì accantonate come vecchie scarpe. «Nel 2019», questo l’incipit del suo trattato di economia femminista, «mi ricoverarono all’ospedale Bispebjerg nel quartiere nordoccidentale di Copenaghen. Sono affetta da una malattia intestinale autoimmune: il mio corpo aggredisce se stesso». Negli ambienti sereni e luminosi della struttura ospedaliera, Holten viene curata, accudita e guarita da un personale in maggioranza femminile: infermiere, paramediche, semplici inservienti che la rimettono letteralmente al mondo. Come si calcola in denaro il valore del lavoro di chi ti salva la vita e normalmente riceve un salario modesto o comunque assai inferiore a quello di un direttore di banca, di un docente universitario, di un imprenditore?

Ecco perché nel 2020, circa una anno dopo il suo ricovero, leggendo un articolo pubblicato sulla rivista “Mandag Morgen” intitolato Le donne continuano a rappresentare un deficit per le casse dello stato, le viene spontaneo reagire a quella classificazione che non fa i conti con la realtà dei fatti. Se per i calcoli del Ministero dell’Economia e delle Finanze le donne rappresentano un deficit perché, guadagnando meno o non guadagnando affatto, pagano meno tasse e dunque contribuiscono in misura minore al PIL, dove va a finire tutto il concretissimo valore da esse prodotto e tuttavia non monetizzato? Perché la cura che riproduce la vita – quella che blocca le donne tra le mura domestiche o le mantiene nelle sfere più umili delle professioni – non viene conteggiata? Non riconoscerla come lavoro equivale a svalutarla e svilirla, obbligando una parte della società a ruoli di vassallaggio e subordinazione.

Emma Holten.

Risalendo con ironica lievità ai trisnonni del pensiero moderno, da Thomas Hobbes a John Locke, Holten si interroga sul ‘soggetto’ che l’economia politica mette al centro del proprio quadro concettuale, teorizzando un’idea di libertà a dir poco velleitaria. «È facile», scrive a pagina 60, «definire la libertà se si prendono in considerazione persone con corpi e menti adulte, in grado di lavorare e guadagnare soldi, che non sono chiamate a prendersi cura degli altri e non si sentono mai costrette a fare nulla. […] Il protagonista della teoria politica pare essere quindi una figura immaginaria».

Dietro a questa figura libera, indipendente, sola e autosufficiente, potremmo dire invulnerabile, «si nasconde un segreto: quella libertà è possibile solo perché ad altri viene negata». In altre parole «la libertà è accessibile solo a coloro che vivono a spese degli altri. La libertà è vivere senza bisogno di dare o ricevere cure. È una vita in cui gli altri ci rendono liberi provvedendo invisibilmente (il corsivo è mio) al nostro bisogno di cure». Già, nel mondo in cui viviamo dichiarare il proprio bisogno – ovvero la propria dipendenza, che è esattamente ciò che ci rende umani – è «motivo di vergogna, perché non esiste un linguaggio politico per spiegare il fatto che questo bisogno accomuna tutti». I maggiori pensatori occidentali non hanno forse teorizzato «l’interdipendenza come la definizione ultima della mancanza di libertà»?

Usando un registro narrativo che ha al contempo il dono dell’accessibilità e della precisione, Holten mette in luce l’aporia su cui si fonda la storia economica che ci ha portati alla catastrofe contemporanea. Se si omette il fatto che gli esseri umani non spuntano dal suolo come finferli (per altro anch’essi assai connessi tra loro e con il loro habitat!), ma ricevono la vita e si formano in relazione a un ambiente e a una serie di figure che ne garantiscono la sopravvivenza, l’apprendimento di una lingua, lo sviluppo della capacità di pensare e pensarsi, «ci ritroviamo con un fungo che ha imparato a parlare e pensare da solo e ha una spinta naturale verso la ricerca del potere». Una vera e propria acrobazia filosofica!

Ma passiamo alla pars construens del saggio di Holten, al guizzo femminista che dovrebbe restituire l’homo oeconomicus alla sua verità, complessa, variegata, non riducibile all’uno e soprattutto non astratta, bensì perfettamente calata nei tempi e nei modi del vivere quotidiano. Come ‘prezzare’, si chiede l’autrice, il lavoro riproduttivo che ci tiene in vita e che pure è costantemente negato? Che prezzo dare all’amore, all’attenzione, all’ascolto, all’amicizia, alla passione politica, alla solidarietà, al piacere dato, al dolore confortato? E se non si trattasse di riconoscere all’extra-economico un valore monetario, ma di mettere in crisi la concezione monolitica secondo cui il furto di lavoro riproduttivo sotteso all’atto produttivo è il solo vero volano dell’economia? Se dall’impasse del modello economico unico non si uscisse stando al suo gioco e riproducendone le regole, ma imponendo una visione meno cieca o meno truccata dei rapporti tra esseri umani e con l’intero vivente?

A poco a poco l’analisi di Holten si spinge in quella direzione, suggerendo di interrogarsi sul nesso che lega i paesi occidentali alle loro ex-colonie e alle nuove colonie travestite da nazioni libere di cui si sta popolando il pianeta. L’invito a chiedersi perché i nudi fatti, riportati nella loro evidenza, possano essere considerati un attentato al potere economico permette di riallineare la sfera del privato alle guerre e al genocidio in corso nel Vicino Oriente e di domandarsi in modo attivo che cosa crei o distrugga valore per noi. E la prima cosa su cui ragionare è proprio quel ‘noi’, che rischia – se non meglio definito – di essere entità amorfa e muta, impossibilitata ad agire, funzionale.

Come non chiedersi perché, in quest’estate da fine del mondo, il governo dello stato più potente del mondo si accanisca a ridurre la terra, il cielo e i mari in paradiso fiscale per produttori di morte, a finanziare e assistere operazioni militari che hanno l’evidente scopo di depredare e sterminare. Che rapporto ci sia tra la guerra e la cosiddetta pace, sistemi che si nutrono l’uno dell’altro, facendo leva sulla relazione ingiusta tra vite il cui valore è conclamato e dunque da difendere e vite a perdere, ingombro alle sorti magnifiche e progressive del capitale.

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In questi giorni, ascoltando la voce limpida e accorata di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite incaricata di riferire sullo stato dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, oggetto delle sanzioni statunitensi per avere semplicemente rese pubbliche circostanze che pertengono alla sfera economica, non posso fare a meno di pensare che il suo sguardo e il suo linguaggio siano molto affini a quelli di Holten. Entrambe convinte che i fatti abbiano un’indiscutibilità che nessuna tecnica di depistaggio o occultamento può smentire, si muovono a un livello teorico e discorsivo che mette in crisi l’assolutezza del diktat economico, rivelandone la vera natura. È questo, credo, che disturba. Ecco perché il loro operato – che non esiterei a definire ‘femminista’ nel senso più nobile e ampio del termine – è un’indicazione da seguire.



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