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Luiss Business School, parla Luca Pirolo


L’intervista esplora il modello formativo della Luiss Business School, che si fonda su un dialogo costante con le imprese, sull’abbandono dell’iper-specializzazione e sulla centralità della formazione esperienziale. La Scuola si propone come ponte tra studenti e mercato del lavoro, costruendo percorsi personalizzati e aggiornati rispetto alle reali esigenze del sistema produttivo. La strategia “multi-hub”, che integra sedi internazionali e mobilità tra campus, arricchisce l’esperienza formativa e stimola una visione globale. A fronte di un sistema Paese ancora in difficoltà sul fronte dell’occupazione qualificata, la Luiss Business School propone un cambio di paradigma: aziende e università devono co-progettare il futuro, mentre ai giovani si chiede di coltivare la curiosità come chiave per la crescita professionale e personale.

Intervista a Luca Pirolo, Associate Dean per la Multi-Hub Strategy e Head of Specialized Masters Luiss Business School.

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Formazione che crea ponti: Luiss Business School, parla Luca Pirolo

Partiamo da qui: qual è, oggi, il vero valore aggiunto di una business school? In che modo Luiss Business School intercetta e traduce le esigenze delle imprese in offerta formativa concreta?

Il vero valore aggiunto di una business school risiede nella capacità di generare un dialogo costruttivo e continuo tra il mondo accademico e quello aziendale. Non si tratta solo di un trasferimento di conoscenze, ma di uno scambio reciproco di competenze, esperienze e visioni, che alimenta una formazione solida e orientata al futuro. Oggi, una business school deve andare oltre la teoria: deve offrire un’esperienza formativa dinamica e personalizzata, che sfrutti modalità innovative di apprendimento – in presenza, da remoto, in formato ibrido o multisede – e che consenta di sviluppare visione strategica, capacità critica e adattabilità, competenze fondamentali per affrontare mercati in costante evoluzione. In questo contesto, Luiss Business School si distingue per la sua capacità di ascoltare attivamente le imprese, recependo i loro bisogni, interpretandone le sfide e trasformando queste esigenze in contenuti formativi concreti e rilevanti. La Scuola non si limita a formare competenze: costruisce talenti, creando un ponte tra studenti e aziende e posizionandosi come interlocutore strategico per il sistema produttivo.

C’è un mismatch sempre più evidente tra domanda e offerta di lavoro qualificato, e il nostro Paese continua ad avere pochi laureati e una fuga di cervelli preoccupante. Che cosa non stiamo cogliendo, come sistema Paese, e che cosa andrebbe cambiato?

La responsabilità del mismatch tra domanda e offerta di lavoro qualificato va ricercata nel rapporto tra enti di formazione e imprese, che dovrebbe essere paritario e proattivo da entrambe le parti. La “domanda” degli studenti, infatti, è mediata dalle scuole: i ragazzi si costruiscono un’idea del mercato sulla base degli strumenti che l’ente di formazione gli mette a disposizione. Pertanto, le università hanno il dovere – per assottigliare questo divario – di formare gli studenti nel modo giusto. Accusare un neolaureato di non capire in quale direzione stia andando il mondo del lavoro vuol dire dare la colpa a chi non ne ha. Università e business school devono bussare alla porta delle aziende e chiedere costantemente di cosa abbiano bisogno, senza arrogarsi il diritto in quanto accademie di sapere a priori su quali competenze puntare. Bisogna mettersi a tavolino con le imprese per definire le necessità di oggi e di domani, sulla base delle quali rivoluzionare i percorsi curriculari. Lo stesso andrebbe fatto dall’altro lato: un’azienda che ha necessità di lavoratori formati in un certo modo non può pretendere alcunché in assenza di un suo intervento diretto. Come recita il proverbio, “Se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna”. Le aziende più illuminate, infatti, sono quelle che si attivano con richieste ben precise, e ci vuole l’intelligenza di saperle recepire non come una sorta di ricatto, ma con l’idea che se un’impresa chiede, nel mondo reale esiste quell’urgenza.

Poi, se l’ecosistema non ruota intorno allo studente, è comprensibile che un ragazzo decida di andare all’estero. Intendiamoci, in un mondo globalizzato la fuga dei cervelli ha anche una componente positiva, ma esiste un tema di accoglienza e di barriere – come quella linguistica – che il nostro sistema deve affrontare per essere più attrattivo.



Nei suoi studi e nella sua attività accademica, quali tendenze emergono oggi in tema di competenze realmente richieste dalle imprese? Ci stiamo forse concentrando troppo sulle skill tecniche, trascurando ciò che rende davvero “occupabile” una persona in uno scenario in continua trasformazione?


Osservo con grande gioia che è in atto un abbandono dell’iper-specializzazione. Mi ricordo quando ero studente, quasi trent’anni fa: all’epoca le aziende cercavano il guru della finanza con un profilo compartimentalizzato, un tassello da inserire in un mosaico perfetto. Oggi, fortunatamente, si percepisce che molte aziende sono sempre più alla ricerca di persone versatili. Non cercano più profili ultra-qualificati su un singolo strumento, ma persone con una solida preparazione generale, capaci di apprendere rapidamente le competenze mancanti grazie ai potenti strumenti odierni, a partire dall’intelligenza artificiale. Le aziende chiedono flessibilità, che si manifesta innanzitutto in una conoscenza non settorializzata. I ruoli esistono ancora, ovviamente, ma l’aspettativa è che la visione del neoassunto non sia limitata al proprio compito, e si estenda a 360 gradi sull’intera realtà aziendale. Si desidera una flessibilità tale per cui un eventuale spostamento a ruoli correlati non venga vissuto come un ostacolo insormontabile. Per sviluppare questa caratteristica, è fondamentale offrire un mix formativo che unisca l’insegnamento manageriale a quello più connesso al prodotto. Ad esempio, è ciò che presentiamo nei nostri programmi “creativi” per i futuri manager del mondo musicale o del cinema. Un bravo manager, per l’appunto, deve capire come si crea una traccia musicale o come funziona un set cinematografico. Questo è un approccio che in business school gestiamo da sempre, anche attraverso una faculty bilanciata, in cui la componente accademica è affiancata da quella dei practitioner, professionisti che applicano le proprie conoscenze alla quotidianità.

I Master specialistici, in italiano e in inglese, rappresentano un’offerta formativa molto articolata: quali sono i percorsi più richiesti? E come si differenziano, in termini di impatto occupazionale e crescita personale?

Più che stilare una classifica dei percorsi “più richiesti” – che può variare di anno in anno – preferisco spiegare le due logiche di scelta che osserviamo, le quali hanno un impatto diverso sulla crescita personale e sul percorso professionale. Fondamentalmente, i nostri master si dividono in due grandi categorie: quelli con focus industriale e quelli con focus funzionale. Quest’ultimi offrono una specializzazione verticale (Marketing, People management, Finance…) e sono scelti da persone con le idee già chiare, il cui interesse è rivolto a una specifica area disciplinare.

Accanto a questi, presentiamo i master con focus industriale, basati su filiere specifiche (Lusso, Moda, Food & wine…). In questo caso, la scelta è sempre dettata da un forte interesse, che però è orientato verso un’industria o un prodotto. Si tratta, pertanto, di percorsi dal taglio più marcatamente vocazionale. Sebbene la scelta iniziale sia diversa, un elemento comune a tutti i master è la forte componente esperienziale, che garantisce un impatto concreto sulla formazione attraverso un approccio che definiamo “multi-hub”.

L’approccio “multi-hub” non è solo geografico, ma strategico: ci racconta come l’internazionalizzazione viene vissuta concretamente da studenti e docenti, e che cosa comporta in termini di metodo, didattica e rete globale?

Alcuni master offrono una possibilità in più – e sottolineo il termine “possibilità”. Si basano sulla strategia multi-hub di Luiss Business School. Abbiamo varie sedi in Italia e all’estero, come Roma, Milano, Belluno, Amsterdam e Dubai. Avere a disposizione più sedi ci permette di offrire un programma articolato, basato sull’idea che alcuni master siano disegnati direttamente dalla Scuola, mentre in altri casi sia lo studente a scegliere. Nel primo caso, come per il master in Fashion strutturato tra Milano e Amsterdam, l’obiettivo è duplice: far vivere un’esperienza culturalmente diversa e rendere i contenuti coerenti con il contesto geografico. Ad Amsterdam ci si concentra sullo streetwear, patria europea del denim; a Milano, capitale dell’alta moda, il focus cambia. In questo modo, lo studente amplia il proprio orizzonte e crea legami con il tessuto economico di ciascun paese. Nel secondo caso – e qui torno al concetto di “possibilità” – lo studente può scegliere: se iscriversi a un master erogato interamente a Roma, oppure richiedere di frequentare un trimestre dello stesso programma in un’altra sede, come Milano. Abbiamo creato una sorta di Erasmus interno, a cui si aggiungono circa settanta accordi con altre business school nel mondo. Infine, con il modello dello spring break, offriamo International Week tematiche nei vari campus. Il punto fondamentale è sempre lo stesso: dare opportunità e stimoli. Poi, c’è chi li coglie e chi no; noi sentiamo il dovere di offrire queste opportunità.

Il concetto di formazione esperienziale è diventato quasi un mantra, ma non sempre corrisponde a una reale trasformazione del metodo. Quali sono, secondo lei, i criteri per valutare se un percorso formativo è davvero capace di generare impatto e consapevolezza nei partecipanti?

Il tema della misurazione dell’impatto è complesso, ma necessario, e andrebbe affrontato sia ex-ante sia ex-post. Per capire se un percorso è veramente esperienziale, uno studente non deve guardare solo ai contenuti promessi, quanto invece alle modalità con cui questi verranno erogati. Se una business school dichiara che l’apprendimento avverrà tramite attività di gruppo, hackathon, progetti con le aziende e così via, allora la componente esperienziale è senza dubbio forte. Inoltre, per generare un impatto reale bisogna “attivare” gli studenti. Piuttosto che imporre attività stabilite a tavolino, è decisamente più efficace co-progettare con loro le iniziative extra-curriculari. Se si impone un’attività, il risultato finale potrebbe non essere ottimale; se invece la si decide insieme, il livello di coinvolgimento cambia radicalmente. Ad esempio, abbiamo il mandato di realizzare attività a elevato impatto sociale. A questo punto, si aprono due strade. La prima è quella top-down: la Scuola decide l’attività. La seconda via, invece, è lasciare che siano gli studenti a scegliere il progetto all’interno dei nostri Lab (cluster ethics, sustainability & impact). Questo approccio è più complesso da pianificare per noi, ma garantisce un livello di coinvolgimento decisamente superiore da parte dei partecipanti.



In un mondo dove i confini tra ruoli, settori e competenze si fanno sempre più fluidi, che cosa significa oggi per un giovane “essere pronto” per il lavoro? E in che modo il rapporto con le imprese può diventare laboratorio di senso, e non solo di selezione?


“Essere pronto” significa superare la tradizionale prospettiva unilaterale, in cui le aziende guardavano alle istituzioni formative come a un supermercato da cui attingere personale. Parlare di “laboratorio di senso”, invece, implica un’evoluzione. Il processo selettivo, ovviamente, rimane: un’azienda sceglie le persone che le sono utili, basandosi sul fitting tra il profilo ricercato e le attitudini dello studente. Lo step successivo, tuttavia, consiste nel considerare la persona che arriva in azienda non solo come una risorsa destinata a ricoprire un ruolo, ma anche come un potenziale innovatore, un portatore di idee nuove che meritano di essere valutate. In questo nuovo paradigma, tanto noi in qualità di business school quanto le aziende, dovremmo guardare al capitale umano non solo come forza lavoro, ma come motore di innovazione.

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Infine, una riflessione personale: se potesse dare un solo consiglio a un ragazzo o una ragazza che oggi si affaccia al mondo del lavoro, quale sarebbe? E cosa direbbe invece a un’azienda che si lamenta di “non trovare le persone giuste”?

A un’azienda che si lamenta direi la stessa cosa che si dice a chi si lamenta della politica ma poi non va a votare: siate proattivi. Come discusso, è fondamentale che le imprese costruiscano un dialogo attivo e costante con il mondo della formazione. Invito i giovani a fare una riflessione: il lavoro occuperà gran parte della vostra vita. Idealmente – certo – bisognerebbe cercare il “lavoro dei sogni”, ma statisticamente è difficile che si realizzi. Il consiglio più realistico che do, quindi, è: cercate un lavoro che vi incuriosisca. È il giusto compromesso tra l’ideale e un’occupazione finalizzata unicamente allo stipendio. L’essere curioso è la componente che può farvi apprezzare anche un’attività che non sarebbe la prima scelta in un mondo perfetto. Io stesso non volevo fare il professore. Quando il mio docente mi propose di restare in università dopo la laurea, accettai solo perché dovevo aspettare il servizio militare. Invece, in quel momento, mi si aprì un mondo. La curiosità di scoprire cose nuove mi ha permesso di arrivare a fare un lavoro che, onestamente, non era il mio sogno da bambino, ma che oggi mi stimola e mi permette di sperimentare. E lo faccio in un’istituzione che mi ascolta.

Questo conferma un altro punto cruciale: la curiosità e l’innovazione possono fiorire solo in un ambiente sano che sa ascoltare. Non a caso aziende come Google o Microsoft lasciano ai dipendenti del tempo per il libero pensiero, intuendo la dinamica win-win: dare spazio alla passione personale può trasformarsi in un’opportunità di business per tutti.



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