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illegittima la soglia dell’indennità risarcitoria di sei mensilità


Il caso

Con ordinanza del 2 dicembre 2024, il Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, in riferimento agli artt. 3, commi 1 e 2, 4, comma 1, 35, comma 1, 41, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE.

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Il rimettente riteneva che tale disposizione, nel determinare l’indennizzo risarcitorio per i licenziamenti illegittimi intimati da un datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che non raggiunga i requisiti occupazionali stabiliti dal comma 8 dell’art. 18statuto lavoratori (e cioè che non occupi più di 15 lavoratori presso un’unità produttiva o nell’ambito di un comune e che comunque non occupi più di sessanta dipendenti), avrebbe finito per configurare una misura non idonea a garantire il necessario equilibrio tra la possibilità di prevedere una tutela solo di tipo risarcitorio-monetario e la necessità che tale indennizzo risultasse adeguato a riparare il pregiudizio sofferto nel caso concreto, così mantenendo un ruolo deterrente. Tale effetto si sarebbe prodotto, in specie, là dove il citato art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, delimita l’indennizzo, sia disponendo il dimezzamento delle somme stabilite dai precedenti artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del medesimo d.lgs., sia imponendo un tetto massimo insuperabile fissato in sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

Sicché, ad avviso del rimettente, la disposizione censurata sarebbe stata lesiva dell’art. 3, commi 1 e 2, Cost., in quanto avrebbe disegnato una tutela standardizzata e inidonea a coprire fattispecie di licenziamento connotate da vizi di differente gravità, trattando in modo sostanzialmente eguale anche situazioni concrete molto diverse, senza consentire la personalizzazione del risarcimento in relazione alle circostanze del caso di specie, né garantirne l’adeguatezza e la congruità oltre che la funzione deterrente.

La medesima violazione era contestata anche sotto l’ulteriore profilo del trattamento irragionevolmente diverso di situazioni simili: da un lato, quella dei dipendenti di datori di lavoro con più di 15 occupati, i quali, ove colpiti da licenziamento illegittimo, avrebbero disposto di una tutela graduata a seconda della gravità del vizio; dall’altro, quella dei dipendenti di un datore di lavoro con meno di 15 occupati, che invece, quando fossero risultati anch’essi vittime di provvedimento espulsivo illegittimo, avrebbero potuto usufruire di una tutela indennitaria costretta in una forbice ridottissima, da tre a sei mensilità. Quest’ultima avrebbe impedito al giudice di calibrare il risarcimento in funzione della gravità del vizio che avesse inficiato il licenziamento, e ciò in applicazione di un criterio – quello delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro – riferito a un profilo esterno al rapporto di lavoro, peraltro non più idoneo, di per sé, a rivelare la reale forza economica del datore medesimo.

Per le stesse ragioni sarebbe stato anche violato l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 24 CSE, essendo leso il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione. Sarebbero, di conseguenza, state vulnerate anche la dignità e libertà del lavoratore che avrebbero costituito un limite all’iniziativa economica privata ex art. 41, comma 2, Cost.

Sarebbero stati lesi, infine, gli artt. 4 e 35 Cost., i quali, imponendo di tutelare il lavoro in tutte le sue forme, avrebbero prescritto un congruo indennizzo, anche per dissuadere il datore di lavoro dall’adottare licenziamenti illegittimi.

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Il nucleo unitario di tali censure era, dunque, ravvisato nell’asserita irragionevole limitazione della tutela indennitaria – prevista per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro “sottosoglia” – lesiva del diritto del lavoratore a un indennizzo adeguato a difenderne dignità e libertà. Per rimuovere l’offesa ai suddetti beni presidiati dai parametri evocati, il rimettente chiedeva che venisse dichiarata l’illegittimità costituzionale sia della previsione del dimezzamento delle indennità di cui agli artt. 3, comma 1, 4, comma 1 e 6, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, sia del limite massimo delle sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

La decisione della Corte costituzionale

Con la segnalata sentenza la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, con riguardo a tutti i parametri indicati, limitatamente, tuttavia, alla previsione in base alla quale l’ammontare delle indennità risarcitorie di cui agli artt. 3, comma 1, 4, comma 1 e 6, comma 1, non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

La Corte ha premesso che le indicazioni inerenti alla ragionevolezza e adeguatezza della tutela indennitaria si impongono anche per i licenziamenti intimati dai datori di lavoro di più piccole dimensioni, in quanto caratterizzati da requisiti occupazionali più ridotti rispetto a quelli contemplati dai citati commi 8 e 9 dell’art. 18statuto lavoratori.

Secondo la Corte, l’assunto conserva significato pur a fronte delle modifiche di sistema apportate dal D.Lgs. n. 23/2015. È vero che quest’ultimo, da un lato, ha fortemente circoscritto lo spazio di operatività della tutela reintegratoria piena – rendendola applicabile, in specifici e tassativi casi, senza alcuna distinzione riferita ai requisiti occupazionali – e, dall’altro, ha generalizzato la tutela indennitaria anche per i datori di lavoro di maggiori dimensioni. Tuttavia, ha prospettato la Corte che, ai fini della selezione della disciplina dei licenziamenti, e in linea di continuità con il passato, è stata comunque confermata la rilevanza della dimensione dell’impresa, in termini di numero di lavoratori occupati, anche con riguardo alla determinazione dell’indennità risarcitoria.

In particolare, proprio per il caso in cui il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali più volte ricordati, l’art. 9, comma 1, del citato d.lgs., censurato dal giudice rimettente, per un verso, ha escluso la tutela reintegratoria attenuata prevista per i casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, comma 2); per altro verso, ha stabilito che è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti nei casi di licenziamento:

a) senza giustificato motivo o giusta causa (per il quale l’art. 3, comma 1, prevede un importo di misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità);

b) inficiato da vizi formali o procedurali (in conseguenza del quale l’art. 4, comma 1, consente di conseguire un importo di misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità);

c) al quale segua l’offerta di conciliazione e l’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore illegittimamente licenziato (ipotesi per la quale l’art. 6, comma 1, contempla un ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità).

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La Corte costituzionale, nella sentenza n. 183/2022, si è già pronunciata su tali previsioni, ravvisandovi la sussistenza di un vulnus agli artt. 3, comma 1, 4, 35, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 CSE. La lesione dei richiamati parametri costituzionali (che sono gli stessi evocati dal Tribunale di Livorno) si è, infatti, rinvenuta in ragione dell’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità (tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità, in riferimento a quanto previsto dall’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015), poiché essa vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, alla luce di tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce della Corte, concorrendo a configurare il licenziamento come extrema ratio.

Peraltro, si è anche osservato che il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge trova la sua principale (se non esclusiva) giustificazione nel numero ridotto dei dipendenti che non rispecchia più, isolatamente considerato, l’effettiva forza economica del datore di lavoro, specie in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, in cui al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari.

E ancora si è sottolineato che il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.

In definitiva, si è concluso che un simile sistema non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.

A tale vulnus, tuttavia, la Corte ha ritenuto allora di non poter porre rimedio, giacché le argomentazioni addotte dal rimettente prefiguravano una vasta gamma di alternative volte a ridisegnare il regime speciale previsto per i datori di lavoro di piccole dimensioni, a partire dalla stessa individuazione dei criteri di identificazione di questi ultimi.

Si era, pertanto, segnalata la necessità che la materia, frutto di interventi normativi stratificati, fosse rivista in termini complessivi, ben potendo il legislatore tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattissero sul requisito del numero degli occupati e si raccordassero alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano. Tuttavia, si era, comunque, affermato che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe stato tollerabile e, ove la questione fosse stata nuovamente sollevata, la Corte sarebbe stata indotta a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte.

Cosicché il Tribunale di Livorno ha riproposto all’attenzione della Corte i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, in riferimento ai medesimi parametri esaminati nella sentenza Corte cost. n. 183/2022, in considerazione del quadro normativo immutato a distanza di più di due anni dalla citata pronuncia e della circostanza che la disciplina sub iudice – di cui si era accertata la non compatibilità con i richiamati parametri costituzionali – si applica, come emerge dai dati ISTAT (Annuario 2023), alla quasi totalità delle imprese nazionali e quindi alla gran parte dei lavoratori.

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Il rimettente ha denunciato l’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità risarcitoria, effetto della contestuale previsione del dimezzamento degli importi indicati agli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del citato D.Lgs. n. 23/2015, in uno con la previsione di un tetto massimo limitato (“sei mensilità”), tale da non consentire di soddisfare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento, e di garantirne la funzione deterrente. Ha chiesto, pertanto, che venga eliminato tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro con un numero limitato di dipendenti, in vista della riespansione della tutela indennitaria “ordinaria” e del potere discrezionale del giudice di determinarne l’ammontare alla luce dei vari criteri. Tra questi, quello del numero dei dipendenti occupati costituisce sicuramente il primo, ma non l’unico, dovendo essere considerato insieme alle dimensioni dell’impresa, oltre che all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro e al comportamento e alle condizioni delle parti.

Ciò sul presupposto che la richiamata tutela indennitaria speciale non possa trovare giustificazione solo nel numero limitato dei dipendenti, non essendo più tale criterio, isolatamente considerato, sufficiente a rivelare, sempre e comunque, la minore forza economica del medesimo datore. Si tratta di una prospettiva allineata non solo alla normativa europea anche risalente – (raccomandazione CE 2003/361 della Commissione, del 6 maggio 2003, relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese; di recente, direttiva delegata (UE) 2023/2775 della Commissione, del 17 ottobre 2023, che modifica la direttiva 2013/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda gli adeguamenti dei criteri dimensionali per le microimprese e le imprese o i gruppi di piccole, medie e grandi dimensioni) –, ma anche alla normativa interna, pur relativa ad altri ambiti (art. 1, comma 2, del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5; più di recente, art. 2 del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).

Il rimettente, in altri termini, ha ravvisato la reductio ad legitimitatem non già – come era accaduto nel caso oggetto della sentenza Corte cost. n. 183/2022 – in interventi sostitutivi, atti a incidere sui criteri di individuazione del datore di lavoro “piccolo” (cioè dotato di una ridotta forza economica), in assenza di utili punti di riferimento normativo, bensì nel mero annullamento della disciplina speciale stabilita dalla norma censurata per i licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro con un numero limitato di dipendenti. L’obiettivo, in sostanza, è quello di eliminare la rigidità e la tendenziale uniformità nella determinazione dell’indennità risarcitoria, già dimezzata rispetto a quella ordinariamente prevista, quale che sia il vizio che affligge il licenziamento.

Orbene, ha osservato il Giudice delle leggi che il tempo trascorso e, soprattutto, la formulazione della questione – che non mira a un intervento altamente manipolativo, volto a ridisegnare la tutela speciale per i datori di lavoro sotto soglia in assenza di punti di riferimento univoci, ma solo a eliminare la significativa delimitazione dell’indennità risarcitoria – impongono di pronunciarsi, dichiarando il già accertato vulnus ai principi costituzionali.

Tale vulnus, tuttavia, non si ravvisa, ad avviso della Consulta, nella previsione del dimezzamento degli importi delle indennità previste dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del medesimo D.Lgs. n. 23/2015, modulabili all’interno di una forbice, diversamente individuata in relazione a ciascun tipo di vizio, ma sempre sufficientemente ampia e flessibile, perché compresa fra un minimo e un massimo, tra i quali c’è un ampio divario. Così delineato, infatti, il meccanismo del dimezzamento è comunque tale da non impedire al giudice di tener conto della specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, e di fare applicazione dei criteri indicati dalla Corte, fra i quali quello delle dimensioni dell’attività economica del datore di lavoro svolge un ruolo certamente rilevante, ma senz’altro non esclusivo, nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco, inerenti, da un lato, alla tutela del lavoratore contro licenziamenti ingiustificati, dall’altro, all’esigenza di non gravare di costi eccessivi i piccoli datori di lavoro.

Quel che confligge con i principi costituzionali, ha puntualizzato la Corte, dando luogo a una tutela monetaria incompatibile con la necessaria personalizzazione del danno subito dal lavoratore, è piuttosto l’imposizione di un tetto, stabilito in sei mensilità di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, che comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità.

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Ne ha tratto la Corte che tale significativo contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro – che si impone sul limite massimo specificamente previsto in relazione a ciascun tipo di vizio e già oggetto di dimezzamento con riguardo ai datori di lavoro con un numero limitato di dipendenti, per effetto del medesimo art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015 – delinea un’indennità stretta in un divario così esiguo (ad esempio, da tre a sei mensilità nel caso dei licenziamenti illegittimi di cui all’art. 3, comma 1, del citato d.lgs.) da connotarla al pari di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata. Ma una siffatta liquidazione è stata già ritenuta dalla Corte inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costituire un ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza. Tale ristoro può essere delimitato, ma non sacrificato neppure in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi, al cospetto di un licenziamento illegittimo che l’ordinamento, anche nel peculiare contesto delle piccole realtà organizzative, qualifica comunque come illecito.

La Corte ha comunque espresso un monito al legislatore, in forza del quale resta fermo l’auspicio che il legislatore intervenga sul profilo inciso dalla pronuncia, nel rispetto del principio secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea e anche nazionale, richiamata in precedenza.

Esito del giudizio di costituzionalità:

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità».

Riferimenti normativi:

Art. 9, comma 1, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23

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