Gli effetti concreti delle politiche contro le rinnovabili e il clima dell’amministrazione Trump sono ora evidenti
I primi sei mesi della presidenza hanno segnato una svolta drastica nella politica energetica statunitense, imprimendo una brusca frenata allo sviluppo delle fonti rinnovabili e incidendo profondamente sulle politiche climatiche. Dopo anni in cui il settore green aveva visto crescere investimenti, occupazione e competitività, le nuove direttive dell’amministrazione hanno radicalmente cambiato lo scenario, ponendo l’accento sulla cosiddetta, e ipotetica, “affidabilità” energetica delle fonti fossili e nucleari a scapito di eolico e solare. Scelte politiche che stanno già avendo un impatto diretto sia sull’economia nazionale sia sulle dinamiche geopolitiche.
Il passaggio chiave di questa svolta è stato la firma del “One Big Beautiful Bill Act” (luglio 2025), una legge che abolisce i principali crediti d’imposta federali per il solare e l’eolico dopo il 2026, salvo per i progetti già avviati. Secondo la Casa Bianca, la misura mira a ripristinare “un mercato libero da distorsioni”, ponendo fine a una politica di incentivi che avrebbe privilegiato forme di energia giudicate “inaffidabili” dal punto di vista della continuità e della sicurezza. «Troppo a lungo i contribuenti americani sono stati costretti a sovvenzionare fonti costose e inaffidabili come eolico e solare», ha affermato in conferenza stampa alla Casa Bianca Donald Trump. La scomparsa dei crediti fiscali per le rinnovabili colpisce soprattutto gli stati che avevano maggiormente investito nelle rinnovabili, alcuni dei quali sono a guida repubblicana, rallentando i nuovi progetti e creando una profonda incertezza tra operatori ed investitori. Uno scenario che in Italia conosciamo bene ma che sta sconcertando quelli statunitensi, specialmente alla luce delle dichiarazioni di Elon Musk, oggi in rotta di collisione con l’amministrazione Trump, che ha commentato così il “One Big Beautiful Bill Act”: «È totalmente folle e dannoso. Premia le vecchie industrie e colpisce duramente quelle del futuro», e aggiunge ancora: «Distruggerà posti di lavoro e renderà impossibile la crescita dell’AI e della manifattura avanzata negli Stati Uniti». Ma non basta. Contestualmente alla riforma fiscale, l’amministrazione Trump ha imposto una moratoria su nuove concessioni per parchi eolici offshore e il congelamento di diversi permessi federali già rilasciati, una decisione formalizzata tramite un memorandum esecutivo del 20 gennaio 2025, il giorno del suo insediamento. Questo è un blocco che frena lo sviluppo non solo dei grandi progetti su scala nazionale, ma anche numerosi interventi su scala locale, colpendo di fatto l’intero ecosistema delle rinnovabili a stelle e strisce; infatti, è stato criticato sia dagli stati costieri sia dagli sviluppatori internazionali, che vedono sfumare opportunità economiche e tecnologiche su cui hanno investito negli ultimi anni.
L’aumento dei costi
Oltre alla sospensione degli incentivi, Trump ha avviato una serie di nuove regolamentazioni che restringono ulteriormente l’accesso ai pochi crediti rimasti, complicando ulteriormente il quadro per chi investe nelle fonti rinnovabili. Secondo le analisi di organizzazioni indipendenti come Energy Innovation, questi provvedimenti causeranno un aumento dei prezzi dell’energia fino a 600 dollari annui per famiglia nel prossimo decennio, colpendo soprattutto le realtà che hanno investito sullo sviluppo di fonti rinnovabili come gli stati del Midwest e del SudOvest, nei quali si è vista, fino alla presidenza Trump, una rapida espansione di eolico e solare, e le quali imprese manifatturiere saranno fra le più penalizzate.
Impulso fossile e nucleare
Alla base di queste decisioni vi è la convinzione, reiterata ai massimi livelli che rasentano l’ideologia, dall’amministrazione Trump, che solo gas, carbone e nucleare possano garantire la necessaria resilienza del sistema elettrico americano. In una serie di dichiarazioni e comunicati ufficiali, i vertici della Casa Bianca hanno definito le rinnovabili “fonti poco affidabili e non competitive senza aiuti pubblici”, confermando di voler incentivare la realizzazione di nuovi impianti a combustibili fossili e nucleari. Questa è una strategia che riecheggia quanto già visto nel primo mandato Trump, se possibile però con una determinazione ancora più marcata, manifestata anche attraverso attacchi pubblici e campagne di comunicazione ad hoc, fatte anche di dichiarazioni come quelle di Peter Thiel, fondatore di Pay Pal spesso definito “anarcocapitalista di destra”, che ha affermato che: «Serve una nuova epoca atomica. Le rinnovabili non bastano e quindi la deregolamentazione e il ritorno ai grandi progetti sono un dovere patriottico», mentre sul clima il leader dei tecno-conservatori si è espresso così: «Dobbiamo usare più energia, anche se le fonti fossili hanno rischi, ma il vero problema è la stagnazione tecnologica, non la crescita della CO2».
Il gap con la Cina e il clima
Le conseguenze di questa inversione di rotta si stanno già traducendo in una riduzione degli investimenti e nel taglio di programmi di ricerca e sviluppo sulle energie verdi. A livello internazionale, numerosi osservatori sottolineano come la nuova politica rischia d’ampliare ulteriormente lo scarto tra USA e Cina nel campo delle tecnologie green; Pechino, infatti, continua a investire massicciamente nelle rinnovabili, consolidando una leadership che rischia di diventare irraggiungibile per Washington. E anche il mondo della scienza a stelle e strisce è in subbuglio. Le nuove politiche dell’amministrazione Trump, infatti, avranno, secondo molti scienziati, un impatto diretto e significativo sulle emissioni di gas serra degli Stati Uniti. La riduzione degli investimenti nelle rinnovabili, accompagnata dal rilancio di fonti fossili, rischia di invertire la lieve tendenza virtuosa registrata nell’ultimo decennio, quando le emissioni di CO₂ del settore energetico erano progressivamente diminuite grazie alle rinnovabili e all’efficienza. Nessun problema per Trump se si non si rispetteranno i già blandi, e volontari, NDC (Nationally Determined Contributions) previsti dall’Accordo di Parigi, visto che con un ordine esecutivo del 20 gennaio 2025 gli Stati Uniti ne sono usciti, per la seconda volta, andando a “rafforzare” la schiera dei paesi che ne sono fuori, assieme a Iran, Libia e Yemen.
Attacco alla scienza
E c’è, infine, l’attacco alla scienza dell’energia e del clima. Nei primi sette mesi della presidenza Trump è stata avviata una vasta operazione di smantellamento e oscuramento dei principali database pubblici sul clima e sull’ambiente negli Stati Uniti. Secondo dati raccolti da fonti di settore e da organizzazioni ambientaliste, sono stati cancellati o resi inaccessibili almeno una dozzina di database chiave gestiti da enti federali come NOAA, EPA, USDA e NASA, e tra quelli rimossi figurano:
• il database storico sugli eventi climatici e meteorologici estremi della NOAA, in attività da oltre quarant’anni, considerato una delle risorse più autorevoli a livello globale per lo studio dei disastri naturali;
• il Climate Change Resource Center gestito dal US Forest Service, uno dei punti di riferimento per dati su impatti e mitigazione nel settore delle foreste americane;
• i Climate Hubs dell’USDA, piattaforme essenziali per l’analisi di rischio climatico nel settore agroalimentare;
• il Climate Action Tracker, utilizzato per il monitoraggio degli impegni e delle traiettorie di riduzione delle emissioni degli Stati Uniti;
• la National Roadmap for Responding to Climate Change, guida strategica e repository di dataset multidisciplinari su adattamento e mitigazione;
• tutti i riferimenti e le banche dati legate al cambiamento climatico ospitati sui portali dell’EPA, inclusi strumenti di screening per la giustizia ambientale come EJScreen e il LEAD database.
Inoltre, in diversi casi i dati non sono stati distrutti, ma trasferiti in archivi interni non accessibili al pubblico o privatizzati, ostacolando la capacità di ricerca indipendente e la trasparenza. Numerose altre raccolte dati minori su emissioni, temperature, inquinamento e impatti regionali sono state oscurate “a macchia di leopardo”, senza comunicazioni ufficiali esaustive sulle modalità o tempistiche dell’operazione, e pertanto le stime delle banche dati oggi non più consultabili potrebbero essere ben superiori.
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