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Piano Mattei: il cuore dell’Africa batte più forte negli Stati Uniti


Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C. Nell’ufficialità ovattata dei saloni di Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ricevuto Jamie Dimon, CEO di JP Morgan Chase.

Il presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni

 

Poche righe di comunicato, linguaggio calibrato, foto formali.

Eppure, in quell’incontro riservato c’è forse una delle chiavi per capire dove sta andando davvero il cosiddetto Piano Mattei.

Un progetto ambizioso, certamente.

Persino necessario.

Ma anche – finora – pericolosamente evanescente.

Meloni ha ribadito a Dimon che l’Italia vuole “co-finanziare” lo sviluppo africano, con priorità sull’energia, le infrastrutture e – non da ultimo – l’intelligenza artificiale.

Concetti tanto ampi da sembrare quasi una colata di cemento sulle reali dinamiche geopolitiche in corso.

Perché oggi chi guarda all’Africa lo fa con mire precise, risorse ingenti e, soprattutto, un’agenda. 

E allora la domanda si impone: qual è, davvero, l’agenda italiana nel Continente africano?

In Africa le donne sono ancora costrette ad una vita molto difficile

Meloni lo sa: l’Italia può ancora giocare una partita solo se si presenta con una proposta “win-win”, una narrazione nuova rispetto alla colonialità francofona o alla brutalità estrattiva di altri attori esterni.

Ma la finestra si sta chiudendo.

E Roma, al di là degli annunci, ha finora mostrato più intenzione che azione.

L’energia resta l’unico terreno dove esiste una continuità operativa, grazie alla posizione centrale dell’ENI e alla storica relazione con paesi come Algeria, Egitto, Libia e Angola.

Ma è sufficiente? È questa la visione di Mattei che dovrebbe ispirare un nuovo secolo euro-africano?

O siamo davanti a un’operazione di rebranding politico, che riempie con parole solenni un vuoto operativo sempre più evidente?

Il Piano rappresenta in realtà un tentativo italiano di costruire una postura strategica autonoma nel Mediterraneo allargato e nel Continente africano, nel pieno disordine multipolare.

Ufficialmente si tratta di una piattaforma che intende superare logiche assistenzialiste e dinamiche post-coloniali per fondare relazioni “paritarie” con i Paesi africani, agendo nei settori energia, infrastrutture, formazione e migrazione.

Tuttavia, a oggi, esso appare più come un contenitore narrativo che come una dottrina operativa.

Mancano fondi autonomi, meccanismi di governance, strumenti giuridici dedicati e soprattutto una pipeline credibile di progetti eseguibili.

L’idea di coinvolgere JP Morgan – di per sé pragmatica – segnala una carenza strutturale: l’Italia, priva di massa critica finanziaria pubblica, cerca capitale esterno per attuare un piano formalmente nazionale.

Ma in un contesto dove gli investimenti internazionali sono strumenti di influenza strategica, la partecipazione di un attore globale come JP Morgan solleva interrogativi sull’effettiva titolarità politica e sugli obiettivi reali del Piano stesso.

L’Africa, nel frattempo, è diventata un’arena di competizione sistemica tra potenze.

La Cina ha costruito 70 porti in 46 Stati africani e domina le catene del valore delle infrastrutture critiche.

La zona del Sahel

 

La Russia ha militarizzato il Sahel, consolidando alleanze con i regimi post-golpe e costruendo sfere di influenza parallele.

La Turchia ha 44 Ambasciate, fabbriche di droni e accordi militari in mezza Africa subsahariana.

Gli Emirati Arabi Uniti operano come potenza logistica e finanziaria lungo l’intera costa orientale e occidentale.

In questo scenario, l’Italia gioca una partita con pochi pezzi sulla scacchiera: ENI è l’unico vero attore sistemico, ma lavora su asset legacy nel gas e nel petrolio, mentre le missioni militari italiane, da Misurata alla Somalia, sono oggi marginali, ridotte o sospese.

L’assenza di basi permanenti, di presidi logistici protetti, di un’integrazione organica tra diplomazia, industria e difesa rende il Piano Mattei vulnerabile.

Il Sahel post-occidentale, dove la sicurezza è la condizione minima per ogni operazione, non consente azione di sviluppo senza presenza fisica, deterrenza e intelligence di scenario.

Oggi il Piano non è integrato in nessuna cornice europea o multilaterale robusta.

Non esiste ancora un Fondo Mattei funzionante. Non è stata istituita un’Agenzia dedicata.

Il rischio è che si moltiplichino le missioni politiche senza che esse si traducano in progetti strutturati, misurabili, replicabili.

Più che un Piano, sembra un’ipotesi progettuale sottoposta a logiche comunicative.

Ciò che manca, in termini strategici, è la verticalità: la connessione tra il livello politico, la capacità industriale, la presenza diplomatica e quella operativa sul campo.

Senza una sinergia tra questi Piani, l’Italia non può realisticamente competere con attori dotati di hard power, fondi sovrani e visione geopolitica coerente.

Enrico Mattei

 

Enrico Mattei aveva compreso che l’energia era un’arma geopolitica tanto quanto la diplomazia e l’industria.

Ma aveva anche costruito strumenti: l’ENI, la sua intelligence interna, i canali informali.

Oggi l’Italia cita il suo nome ma non ne replica il metodo.

Se il Piano Mattei vuole evitare di trasformarsi in un nuovo capitolo di velleitarismo mediterraneo, deve diventare un’infrastruttura strategica a tutti gli effetti.

Servono asset civili e militari leggeri ma presenti, accordi Status of Forces aggiornati, strumenti finanziari ibridi, meccanismi di garanzia pubblica, e soprattutto un’intelligence economica e culturale dedicata all’Africa.

In assenza di questo salto sistemico, l’Italia resterà prigioniera di una geografia favorevole ma priva di una strategia coerente.

E il Piano Mattei, da visione di influenza, rischierà di ridursi a un’etichetta nobile applicata a una diplomazia senza peso.

Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

©RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 



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