Nell’era della trasformazione digitale e della competizione globale, le imprese che vogliono crescere devono saper ascoltare, integrare e valorizzare le idee che arrivano dall’ecosistema: università, startup, centri di ricerca, partner. È questo il principio fondante dell’inbound open innovation, un approccio che si sta affermando con forza nel tessuto imprenditoriale italiano.
L’Inbound Open Innovation come risposta strategica al cambiamento
L’innovazione è sempre meno un processo lineare e sempre più un’attività fluida, aperta e interconnessa. Le imprese che intendono restare competitive devono imparare a guardare oltre i confini aziendali e aprirsi a fonti esterne di know-how, tecnologia e idee. È in questo contesto che l’Inbound Open Innovation emerge come una strategia vincente, capace di aumentare la velocità dell’innovazione, ridurne i costi e minimizzarne i rischi, facendo leva su un ecosistema esteso di attori complementari.
Sempre più aziende stanno adottando questo approccio, in cui la conoscenza esterna viene selezionata, assorbita e integrata nei processi interni, con l’obiettivo di accelerare lo sviluppo di nuovi prodotti, servizi o modelli di business. La logica è quella dell’apertura controllata: non si rinuncia all’identità aziendale, ma si riconosce il valore di ciò che accade fuori.
Perché l’innovazione non può più essere solo interna: contesto, dati e vantaggi dell’inbound open innovation
Secondo la ricerca 2025 dell’Osservatorio Startup Thinking del Politecnico di Milano, l’88% delle grandi imprese italiane ha già adottato modelli di open innovation, e il 33% in forma esclusivamente inbound. Le collaborazioni con startup, università e centri di ricerca permettono alle imprese di attingere a tecnologie già testate, accorciando il time-to-market e aumentando l’agilità decisionale. L’inbound open innovation consente inoltre di esplorare mercati adiacenti, accedere a nuovi talenti e costruire vantaggi competitivi più resilienti.
Prima azione – Collaborare con le startup per accelerare l’innovazione
Le startup rappresentano uno dei canali più promettenti per fare inbound open innovation. Sono agili, focalizzate su tecnologie emergenti e capaci di intercettare i bisogni latenti del mercato. Le imprese che scelgono di collaborare con queste realtà imprenditoriali possono acquisire rapidamente competenze non presenti al proprio interno, sperimentare nuove soluzioni in ambienti a basso rischio e aumentare la propria capacità di adattamento.
In Italia, le collaborazioni tra imprese e startup stanno crescendo, anche se rimangono appannaggio soprattutto delle grandi aziende. Le forme di interazione sono molteplici, e variano per livello di coinvolgimento, intensità di scambio e obiettivi strategici.
Scouting, partnership, equity: come le aziende italiane attivano l’ecosistema startup
Secondo i dati dell’Osservatorio Startup Thinking del Polotecnico di Milano, il 62% delle grandi imprese italiane collabora oggi con almeno una startup. Le modalità sono diverse: la fornitura spot (49%) è il punto di partenza più frequente, seguita dalla co-creazione di prodotti e servizi (47%) e dalla partecipazione all’equity (29%). In crescita anche i programmi di incubazione e accelerazione interni (26%), con l’obiettivo di supportare startup selezionate nello sviluppo di soluzioni direttamente utili all’azienda.
Queste collaborazioni possono trasformarsi in asset strategici di lungo periodo, ma richiedono una regia attenta e una struttura organizzativa dedicata. Le imprese che ottengono i risultati migliori sono quelle capaci di integrare le startup in un disegno più ampio di innovazione continua, evitando approcci opportunistici e frammentati.
Seconda azione – Attivare la rete della ricerca per intercettare know-how e tecnologie
Oltre alle startup, un altro snodo cruciale per l’inbound open innovation è rappresentato dalle collaborazioni con università e centri di ricerca. Questi attori producono conoscenza scientifica di frontiera, spesso ancora non trasferita al mercato, e possono diventare partner strategici per le aziende che vogliono innovare in modo strutturato, anticipando trend tecnologici e accedendo a competenze avanzate.
Nonostante l’ampia diffusione di queste collaborazioni, il loro potenziale rimane spesso sottoutilizzato. Manca infatti, in molti casi, una reale integrazione tra il mondo della ricerca e quello industriale, per motivi culturali, di linguaggio e di governance.
Università e centri di ricerca: il partner più usato, ma ancora sottovalutato nei risultati
Stando ai dati degli Osservatori Digital Innovation, il 72% delle imprese che fanno open innovation dichiara di avere collaborazioni attive con atenei e istituti di ricerca, rendendolo l’ambito più praticato in assoluto tra le iniziative inbound. Tuttavia, queste relazioni non sempre generano un impatto tangibile sul business: spesso sono episodiche, focalizzate su progetti pilota o su bandi pubblici, e raramente entrano nei processi core dell’organizzazione.
Per valorizzare al meglio queste collaborazioni, è fondamentale costruire percorsi di integrazione strutturata, investendo nella definizione di obiettivi condivisi, nella mappatura delle competenze utili e nella creazione di meccanismi di traduzione tra il linguaggio della scienza e quello dell’impresa. Solo così l’università può diventare un alleato chiave e non un semplice fornitore di consulenze spot.
Gli ostacoli culturali e organizzativi da superare
Nonostante la crescente consapevolezza del valore strategico dell’inbound open innovation, molte imprese faticano a trasformare le buone intenzioni in iniziative concrete e scalabili. Il motivo principale non è tecnologico, ma culturale e organizzativo: l’adozione di un modello di innovazione aperta richiede infatti un cambio di mentalità, un nuovo assetto dei ruoli interni e un investimento sistemico su processi, risorse e competenze.
I dati mostrano che le aziende italiane sono ancora lontane da una gestione matura dell’open innovation: in molti casi si tratta di progetti sperimentali, affidati a singoli manager senza una governance strutturata e senza KPI precisi.
Mentalità chiusa, scarsa formalizzazione dei ruoli, budget limitati: dove intervenire
Un altro dato evidenziato dagli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano è che solo il 19% delle imprese ha ruoli formalizzati per l’open innovation, e appena il 28% ha un budget dedicato che copre tutte le attività previste. La figura dell’Innovation Manager è presente nel 47% delle aziende, ma spesso non ha il mandato (o il supporto) necessario per coordinare l’ecosistema esterno in modo efficace. Più rari ancora sono gli Open Innovation Manager (36%) o gli Innovation Champion (51%), che invece potrebbero giocare un ruolo decisivo nel connettere le esigenze del business con le opportunità dell’ecosistema.
In assenza di un framework chiaro, l’open innovation rischia di rimanere una somma di esperimenti isolati, con bassa sostenibilità nel tempo e scarso impatto strategico. Serve quindi un lavoro di trasformazione interna: sulla cultura aziendale, sulle metriche di valutazione, sulle responsabilità operative.
Come rendere sostenibile l’Inbound Open Innovation nel tempo
Affinché l’inbound open innovation non resti confinata a singoli progetti o ad azioni sporadiche, è necessario dotarsi di una visione di lungo periodo. Questo significa costruire un modello operativo sostenibile, dotato di risorse, strumenti e processi che permettano all’innovazione di diventare parte integrante della strategia aziendale. La chiave è spostarsi da una logica tattica a una governance dell’innovazione, con ruoli, obiettivi e metriche chiari.
Serve anche un’evoluzione nella mentalità del management: l’open innovation non è solo un modo per “importare idee”, ma un approccio continuo di esplorazione, apprendimento e collaborazione con l’ecosistema.
KPI, governance e Venture Building per dare continuità alle azioni di innovazione aperta
Senza strumenti di misurazione, diventa difficile dimostrare il valore strategico delle collaborazioni con l’esterno e garantirne la continuità nel tempo.
Per questo motivo stanno emergendo nuovi approcci, come il Corporate Venture Building, che consente alle imprese di strutturare in modo autonomo la nascita e la crescita di nuove startup, generate a partire da idee o tecnologie individuate tramite iniziative di inbound innovation. Questo modello permette di capitalizzare le opportunità emerse dal contatto con università, startup e centri di ricerca, trasformandole in business veri e propri sotto controllo diretto dell’azienda.In parallelo, si afferma l’importanza di creare una regia centrale per l’innovazione, dotata di un budget autonomo e in grado di orchestrare l’ecosistema esterno con logiche coerenti con la strategia d’impresa. Solo così l’inbound open innovation potrà superare la fase esplorativa e diventare una leva strutturale di competitività.
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