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Rabbia sul lavoro, si rischia il licenziamento? Cosa dice la legge


Le buone maniere sul posto di lavoro non sono un optional. Favoriscono un clima disteso, migliorano la coesione tra colleghi e contribuiscono a una maggiore produttività. D’altronde esistono regolamenti aziendali che stabiliscono espressamente come un dipendente non debba comportarsi, pena una sanzione disciplinare. Tuttavia – complice anche il caldo torrido dei mesi estivi – il rischio di un attacco di rabbia, di una improvvisa sfuriata, può nascondersi anche nel più mite dei lavoratori.

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La Cassazione – con la decisione n. 17548/2025 – ha recentemente spiegato che non in tutti i casi chi aggredisce i colleghi rischia il posto. O meglio, se viene licenziato può contestare la decisione in tribunale e ottenere un provvedimento favorevole. Vediamo perché.

Rabbia improvvisa in azienda: il caso in tribunale

Un dipendente di un’azienda commerciale era finito nel mirino di un procedimento disciplinare perché, in un impeto di collera, aveva inveito contro il personale del reparto, urlando, imprecando e usando espressioni colorite e volgari.

Come accertato nella causa seguita all’espulsione dal luogo di lavoro, la rabbia lo spinse anche a colpire alcuni oggetti parte del patrimonio aziendale, senza però causare danni rilevanti.

La violazione del codice di condotta fu comunque ritenuta troppo grave per proseguire il rapporto, essendo venuto meno il fattore fiducia. Ne derivò un licenziamento in tronco.

Come egli stesso ammise, l’uomo perse il controllo, e nella lettera di contestazione disciplinare furono evidenziate le sue colpe.

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Nella vicenda emerse però anche il contesto lavorativo, tipico di un’azienda che opera nel settore degli imballaggi, con ritmi serrati, scadenze precise e un forte rumore di fondo dovuto ai macchinari in funzione. Circostanze che, talvolta, possono costituire il terreno fertile per uno scatto d’ira, anche per motivi futili o banali.

Il dipendente impugnò il licenziamento e si rivolse alla magistratura. Proprio in tribunale le sue responsabilità furono ridimensionate, perché emerse che nessuno, tra colleghi e superiori, era stato aggredito individualmente  o aveva testimoniato minacce verbali o fisiche.

Al contempo, salvo alcuni calci a oggetti di plastica, non erano stati segnalati danni materiali a cose, strumenti o macchinari, comunque tali da compromettere in qualche modo la produzione.

La reazione rabbiosa terminò all’intervento di alcuni colleghi accorsi per placare l’animo del lavoratore e, conseguentemente, il giudice di secondo grado ribadì l’infondatezza del recesso unilaterale. Il dipendente andava reintegrato, poiché non aveva commesso nulla di così grave da giustificare l’espulsione.

Principio di proporzionalità e corresponsabilità del datore di lavoro

La Suprema Corte non ha modificato l’esito della sentenza di secondo grado, ritenendo illegittimo il licenziamento, ma soprattutto sottolineando un principio fondamentale, valido in tutti i casi in cui un dipendente si lascia sopraffare dalle emozioni.

Non c’è responsabilità disciplinare tanto grave da fondare un licenziamento per giusta causa se è – per prima – l’azienda a non garantire un buon clima di lavoro.

Nel corso del procedimento giudiziario è emerso che il datore non era riuscito a garantire un ambiente sano e sereno, né a dimostrare che tale ambiente esistesse realmente.

Un elemento particolarmente rilevante in un settore come quello degli imballaggi, dove il coordinamento e l’affiatamento tra i lavoratori sono fondamentali per la qualità delle attività.

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Per comprendere la bocciatura del licenziamento è essenziale una frase della Cassazione nella sentenza n. 17548, secondo cui la perdita di controllo era ritenuta – oltre che un singolo episodio isolato – un evento conseguente allo stress ambientale.

In sostanza, da quanto emerso dai documenti di causa, la Cassazione è giunta alla conclusione che un’azienda che non assicura determinati standard minimi non può poi punire con la massima severità le reazioni emotive che essa stessa contribuisce a generare.

Secondo la Corte, l’unica sanzione giustificabile sarebbe stata di natura conservativa, al massimo una sospensione temporanea dal lavoro.

Come già indicato dalla Corte d’appello, era stato quindi il datore, in prima battuta, a violare il principio di proporzionalità tra violazione disciplinare e sanzione – stabilito dall’art. 2106 del Codice Civile – punendo eccessivamente il lavoratore.

Quando si rischia davvero il licenziamento

Questa sentenza della Cassazione è interessante perché spiega che non sempre da un momento di collera può derivare un licenziamento. Soprattutto se non ci sono conseguenze né per la produttività, né per i singoli dipendenti.

La rabbia plateale non può essere punita con la massima sanzione disciplinare se non ci sono conseguenze concrete né per i beni aziendali né per l’incolumità delle persone.

E ciò a maggior ragione se emerge, a contorno, un ambiente di lavoro stressante o tossico. Quindi, come abbiamo già visto recentemente, ad esempio nel caso del dipendente che ruba, non sempre la conclusione più scontata è quella corretta.

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Rabbia sul lavoro e sanzioni disciplinari
😤 Sfogo verbale isolato senza minacce o danni Non giustifica il licenziamento
Può comportare sospensione
🔥 Scatto d’ira in ambiente stressante o disorganizzato Responsabilità attenuata
Da valutare anche la corresponsabilità del datore
⚠️ Minacce esplicite o aggressioni fisiche Grave violazione disciplinare
Possono giustificare il licenziamento per giusta causa
🔁 Ripetuti episodi con precedenti richiamati Possono portare al licenziamento, anche se l’ultimo episodio è moderato
💥 Danneggiamento volontario di beni o blocco della produzione Comporta licenziamento per danno economico o patrimoniale
🏭 Ambiente di lavoro tossico, turni eccessivi, pressioni continue Il datore è tenuto a garantire condizioni sane (art. 2087 c.c.)
Se non lo fa, è corresponsabile
📋 Regolamenti aziendali violati da comportamento aggressivo La sanzione va proporzionata all’effettivo impatto e alle circostanze

Esempi pratici

Si pensi, ad esempio, a un dipendente costretto da mesi a lavorare con carichi eccessivi, turni prolungati e senza pause adeguate. Un’esplosione di rabbia verbale potrebbe non essere frutto di semplice maleducazione, ma il risultato di una pressione costante non più contenibile.

Oppure a un operaio lasciato senza indicazioni chiare, sotto l’occhio critico continuo di un superiore, che sbotta dopo l’ennesimo rimprovero.

In questi casi, la reazione individuale va letta anche come spia di un sistema organizzativo malfunzionante, più che come atto isolato di indisciplina o insubordinazione.

Viceversa, se ad esempio un lavoratore aggredisce fisicamente un collega, strattonandolo o colpendolo con un oggetto, oppure lo minaccia esplicitamente (con frasi come “ti faccio fuori” o “ti aspetto fuori”), la sicurezza sul lavoro viene violata in modo grave e il datore può intervenire con l’espulsione.

Oppure, se il singolo episodio è solo l’ultimo di una serie, per cui il dipendente aveva già ricevuto richiami scritti per comportamenti aggressivi o irrispettosi, è comunque possibile licenziarlo, anche se lo scatto d’ira non ha avuto effetti materiali gravi.

Al contempo, se un operaio in collera danneggia un macchinario costoso o blocca la catena produttiva, causando un danno economico, il licenziamento è certamente proporzionato, anche senza aggressioni fisiche.

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In conclusione, in tutti questi casi, ciò che giustifica l’allontanamento non è solo lo sfogo in sé, ma le sue conseguenze sul piano organizzativo, relazionale o patrimoniale, o la violazione di norme di legge e di regolamento aziendale. La rabbia può costare cara, ma non sempre licenziare è la risposta giusta.





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