In Italia il legame tra previdenza e venture capital rappresenta una delle sfide più importanti per il futuro della nostra economia, come pure del mercato del lavoro.
Nonostante la crescente consapevolezza sull’importanza di investire nell’innovazione e nelle startup ad alto potenziale, i fondi pensione e gli enti previdenziali italiani destinano ancora una quota molto limitata delle proprie risorse al venture capital. Ma per quale ragione in Italia si investe così poco rispetto ad altri Paesi europei o agli Stati Uniti? E quali sono gli ostacoli, normativi, culturali o economici, che frenano questa trasformazione?
A queste domande ha cercato di rispondere il recente convegno promosso alla Camera dei Deputati dal presidente della Commissione Lavoro, Walter Rizzetto, che ha riunito esponenti delle istituzioni, esperti internazionali e protagonisti del mondo imprenditoriale e previdenziale.
Dal dibattito è emerso un dato chiaro: senza un cambio di passo sugli investimenti nel venture capital, il sistema previdenziale italiano rischia di non reggere l’urto delle trasformazioni demografiche ed economiche in atto.
Previdenza e venture capital, due mondi ancora troppo lontani
Nel dibattito italiano, previdenza e venture capital sembrano essere due rette parallele, destinati a non incontrarsi mai. Da un lato, gli enti previdenziali hanno il compito di garantire sicurezza economica ai lavoratori e ai futuri pensionati, proteggendo il patrimonio accumulato dai rischi dei mercati. Dall’altro, il venture capital è il settore degli investimenti ad alto potenziale ma anche ad alto rischio, orientato a finanziare startup innovative e tecnologie emergenti.
Eppure, come emerso nel convegno promosso alla Camera dei Deputati dal presidente della Commissione Lavoro Walter Rizzetto, il venture capital potrebbe rappresentare una leva preziosa anche per il mondo previdenziale, contribuendo alla crescita dell’economia reale, alla creazione di posti di lavoro qualificati e alla competitività del Paese.
La sfida, tuttavia, resta enorme: in Italia la quota di risparmio previdenziale destinata al venture capital è ancora bassissima, soprattutto se confrontata con altri Paesi europei o con gli Stati Uniti, dove fondi pensione e investimenti alternativi collaborano da decenni per sostenere l’innovazione.
Il contesto italiano, numeri che preoccupano
I numeri emersi durante il convegno alla Camera parlano chiaro: l’Italia, sul fronte degli investimenti previdenziali nel venture capital, è ancora fanalino di coda in Europa. Nel 2024, il mercato italiano del venture capital ha superato appena 1,1 miliardi di euro, cifra in crescita rispetto agli anni precedenti ma lontanissima dai volumi degli altri Paesi europei – come la Francia e la Germania – e ancor più dagli Stati Uniti, dove il settore vale circa 1.300 miliardi di dollari.
Secondo i dati presentati da Stefano Quintarelli, Fondatore Intergruppo Innovazione e Senior Advisor, e ripresi anche dal professor J. Scott Marcus del Centre for a Digital Society Robert Schuman Centre, la quota del Pil investita in venture capital in Italia è dello 0,02%, una delle più basse del continente.
Perfino la Spagna, con quasi 2 miliardi investiti nella prima metà del 2025, ha superato l’Italia, evidenziando un dinamismo che rischia di lasciare il nostro Paese sempre più indietro.
La conseguenza più preoccupante è il rischio di perdere i migliori talenti imprenditoriali. Giovani startup italiane, come ricordato durante il convegno, spesso trovano capitale solo all’estero e finiscono per trasferire la propria sede operativa fuori dai confini nazionali. Così l’Italia fatica a far crescere unicorni, le startup dal valore superiore al miliardo, e a creare quell’occupazione qualificata che il venture capital potrebbe invece generare in modo significativo.
Le ragioni del ritardo italiano
Ma per quale ragione l’Italia investe così poco nel venture capital, soprattutto attraverso i fondi pensione e gli enti previdenziali? Le ragioni sono diverse.
Innanzitutto, pesano vincoli normativi e prudenziali, come ricordato dal professor Marcus. Regolamenti europei, tra cui Solvency II e le direttive sugli investimenti degli enti previdenziali, impongono severe regole di contenimento del rischio, scoraggiando spesso gli investimenti in asset considerati più volatili, come il venture capital.
A ciò si aggiunge una cultura finanziaria tradizionalmente bancocentrica, come ha sottolineato il moderatore Andrea Pancani, giornalista di La7: in Italia imprese e risparmiatori sono più inclini a lasciare i capitali in depositi o strumenti a basso rischio, piuttosto che in fondi di venture capital.
Non meno rilevante è la dimensione ridotta dell’ecosistema italiano del venture capital. I dati presentati da Quintarelli mostrano che i fondi italiani hanno mediamente una taglia cinque volte inferiore rispetto a quelli tedeschi o francesi, limitando la capacità di finanziare progetti ambiziosi e tecnologicamente avanzati.
Infine, come ha ricordato Walter Rizzetto, esiste anche una legittima prudenza: la priorità degli enti previdenziali resta quella di garantire pensioni sicure, e l’idea di esporsi a investimenti più rischiosi, seppur potenzialmente più redditizi, suscita timori sul piano politico e sociale.
Cosa può fare la politica?
Il convegno organizzato alla Camera dei Deputati ha rappresentato un momento utile per accendere i riflettori su questo tema. Negli interventi istituzionali, è emerso come la politica stia finalmente prendendo consapevolezza del ruolo che il venture capital può giocare anche nel campo previdenziale.
Walter Rizzetto ha ricordato che il dibattito nasce dall’esigenza di dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 33 della legge 193/2024, una norma che introduce incentivi e un quadro regolatorio più favorevole per canalizzare parte del risparmio previdenziale verso investimenti nell’economia reale, comprese le startup innovative.
L’obiettivo è liberare risorse stimate tra i due e i due miliardi e mezzo di euro all’anno, destinandole a imprese ad alto potenziale di crescita nei settori strategici del futuro, dall’intelligenza artificiale alla transizione ecologica.
A tal proposito, Maria Teresa Bellucci, viceministro del Lavoro, ha insistito sul concetto di “alleanza intergenerazionale”, sottolineando che la previdenza non può più essere solo tutela del passato, ma deve diventare leva attiva per costruire il futuro. Bellucci ha inoltre ricordato come il venture capital possa generare valore non solo economico, ma anche sociale e occupazionale, contribuendo a frenare la fuga dei giovani talenti italiani all’estero.
Anche il professor J. Scott Marcus ha portato l’esempio degli Stati Uniti, dove oltre due terzi dei fondi investiti nel venture capital provengono dai fondi pensione, contribuendo a far nascere colossi tecnologici e a sostenere la crescita di interi ecosistemi imprenditoriali.
L’Italia a un bivio
Alla fine, la domanda resta quella da cui siamo partiti: perché in Italia non si investe abbastanza nel venture capital, soprattutto attraverso il risparmio previdenziale?
La risposta è complessa e intreccia norme restrittive, cultura finanziaria prudente e un ecosistema del venture capital ancora troppo piccolo. Ma come hanno sottolineato i relatori alla Camera, il tempo stringe. Senza un cambio di passo, l’Italia rischia di restare ai margini della grande rivoluzione tecnologica e industriale in corso, con effetti negativi sulla crescita economica, sull’occupazione qualificata e sulla sostenibilità del sistema previdenziale stesso.
Investire nel venture capital significa scommettere sul futuro del Paese, aiutando i giovani imprenditori come Alessio Lorusso di Roboze a costruire qui le loro imprese, anziché essere costretti a cercare capitali all’estero. Significa trasformare la previdenza da semplice strumento di tutela a leva strategica per lo sviluppo.
L’Italia è dunque a un bivio: continuare a investire troppo poco e lasciare spazio ad altri Paesi, oppure aprire con coraggio una nuova stagione in cui innovazione e previdenza camminino finalmente insieme.
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