Gli autori riepilogano per noi le vicende che portarono, 30 anni fa in Italia, al libero mercato dell’energia e all’istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità. E, soprattutto, ricordano le ragioni che ancora oggi consigliano criteri di competenza e di indipendenza nella scelta dei candidati a guidare e a far parte del collegio dell’ARERA.
In Copertina: Foto dal sito Autorità Idrica Toscana
In questi giorni, trenta anni fa, il Parlamento era intensamente impegnato nell’approvazione del progetto di legge Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilita’. Istituzione delle Autorita’ di regolazione dei servizi di pubblica utilita’ presentato al Senato nel giugno 1994, primo firmatario il sen. Filippo Cavazzuti.
Dopo quattro passaggi tra i due rami del Parlamento la legge fu poi approvata nel novembre 1995 (n. 481 del 14 novembre 1995), e l’indipendenza garantita dall’approvazione di presidente e commissari con due terzi dei componenti delle Commissioni parlamentari competenti, quindi con il coinvolgimento di maggioranza e opposizione.
La vicenda di questa legge è altamente simbolica del momento politico che stava attraversando il Paese. Di fatto il sistema politico decideva di cedere il controllo dei grandi enti pubblici energetici, in particolare ENEL ed ENI e le società “municipalizzate”, fino ad allora oggetto di spartizione politica diretta, (i “gioielli di famiglia”), per affidarli al “mercato” .
Con le elezioni del 1994 si era entrati nella “seconda Repubblica”, vinte dall’alleanza di centro destra promossa da Berlusconi, il cui governo durò però solo sette mesi. Fu sostituito dal primo governo “tecnico” guidato da Lamberto Dini, con l’economista dell’energia Alberto Clò ministro dell’Industria (oggi si direbbe dello Sviluppo economico, alias Ministero delle Imprese e del Made in Italy).
Il superamento del monopolio di stato sull’energia e il contesto della riforma
L’Italia era ancora sotto choc per la vicenda “mani pulite”, che aveva messo in dubbio la legalità stessa dell’intera economia nazionale; anche ENEL ed ENI ne furono coinvolte. Il provvedimento di legge stesso appariva come una soluzione tecnica, e come le vicende successive hanno dimostrato, difficilmente avrebbe visto la luce in presenza di un governo pienamente politico.
In quella fase Mario Draghi, direttore generale del Ministero dell’economia, era impegnato a livello internazionale per far recuperare credibilità al sistema economico nazionale, con un piano di privatizzazioni che aveva promesso al mondo finanziario internazionale nel famoso incontro di due anni prima a bordo del Royal Yacht inglese Britannia.
Doveva fare presto, anche lui approfittare del governo tecnico, ed infatti avviò la prima cessione al mercato di una quota di ENI senza aspettare l’arrivo del regolatore indipendente, il cui principale compito è fissare un sistema tariffario certo e prevedibile sulla base del quale gli investitori possono apprezzare il valore delle società energetiche.
Pure questo favorì l’approvazione della legge 481 e fu motivo di polemiche e ostruzionismo parlamentare soprattutto da Rifondazione Comunista, che voleva mantenere il controllo diretto pubblico delle società energetiche.
Nel frattempo, sulla scia del processo di liberalizzazione dei mercati avviato in Gran Bretagna dalla Thatcher, si era capito che era possibile sviluppare concorrenza tra pluralità di aziende, anche nel settore energetico, separando le attività in monopolio tecnico (le reti, non duplicabili) dalla produzione e dalla vendita. La stessa Commissione europea avviò nel 1996 un processo regolatorio per favorire la liberalizzazione del mercato elettrico almeno per i grandi clienti, con la prima direttiva europea su questo fronte che poi si sarebbe allargato fino ai clienti domestici e al gas.
Si era così esaurita la fase delle nazionalizzazioni dei sistemi energetici, necessari nel secondo dopoguerra per garantire il servizio universale, portando elettricità e gas anche nelle aree più remote e non redditizie.
Compito svolto da ENEL per l’elettrificazione e dal gruppo ENI-Snam per la metanizzazione in maniera eccellente, nonostante le oggettive difficoltà tecnologiche dovute alla geografia nazionale, stretta e lunga, con un Nord grande consumatore e un Sud depresso, dove nessun privato avrebbe portato elettrodotti e gasdotti, come nei paesi periferici e le case isolate nel resto del Paese.
In più l’arrivo di nuove tecnologie, in particolare i cicli combinati a gas per la produzione elettrica, permetteva investimenti con intensità di capitale che potevano essere affrontati anche dai privati. In Italia, il referendum promosso sull’onda emotiva dell’incidente di Chernobyl aveva messo fuori gioco l’energia nucleare, per cui erano indispensabili investimenti pubblici, e poi il grosso in Europa era stato già fatto.
Tra i più convinti sostenitori della necessità di un decisore terzo sulle tariffe di elettricità e gas per il consumatore finale (oltre ai “riformisti” di sinistra), che determina il valore delle società energetiche, ci fu il responsabile economico di MSI-Alleanza Nazionale, Gaetano Rasi, che aveva ben chiaro che altrimenti l’interesse pubblico a far soldi con alte tariffe nel momento della privatizzazione avrebbe potuto prevalere sulla protezione dei consumatori.
La sua parte politica sostenne coerentemente il progetto di Cavazzuti nonostante fosse all’opposizione nel Governo Dini. E anche successivamente, quando il Governo Berlusconi II, ministro delle Attività produttive (quanti nomi ha cambiato quel Ministero!) il “liberale” Marzano, tentò di trasformare l’Autorità per l’energia in un ufficio del Ministero, fu proprio Alleanza Nazionale a bocciare l’iniziativa partita dal ministro della Funzione pubblica Frattini, di Forza Italia ma ex socialista.
La prima Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas e i suoi provvedimenti
L’Autorità per l’energia, insediatasi ad inizio 1997, prese molto sul serio il proprio compito ed è stata un modello per altre istituzioni simili in Europa. Fu la prima a ad occuparsi sia di elettricità che di gas e anche ad avere obiettivi ambientali per la propria azione. I suoi maggiori successi furono la definizione di tariffe per l’elettricità e il gas eque ed efficienti, che dovevano tenere conto di tutti i costi del servizio elettrico, sulla base dei dati forniti dagli stessi operatori (!).
Il suo compito era “tagliare il grasso” accumulato in tanti anni di monopolio pubblico al servizio (anche) della politica, rendere il sistema efficiente nel suo complesso e sviluppare sistemi regolatori che imitassero gli incentivi del mercato pur in attività rimaste in monopolio.
Per questo furono adottati meccanismi tariffari con premi e penalità per le società in relazione a obiettivi, predefiniti dal regolatore, di miglioramento della qualità del servizio, superando così il regime delle Carte dei servizi in cui le imprese si fissavano gli standard da sole. Di fatto una imponente azione di politica industriale, soprattutto per il sud, dove permaneva scarso l’interesse ad investire nella trasmissione e distribuzione di elettricità, che ha portato nel decennio 2000-10 a ridurre notevolmente i gap di continuità del servizio tra Nord e Sud.
E di grasso da tagliare ce n’era tanto. Ad esempio, a definire le tariffe per i consumatori (prima dell’intervento dell’Autorità, divisi in decine di tipologie di consumo, ciascuna con le proprie “esigenze” e capacità di pressione politica) erano funzionari dell’ENEL distaccati presso il Ministero. Prendevano i dati passati dall’azienda e li trasferivano come ministero al Comitato interministeriale prezzi che li adottava.
Forse normale, considerato che si trattava di un Ente pubblico, ma era curioso che l’ENEL fosse rimborsata a piè di lista dei costi per l’olio combustibile con cui soprattutto produceva all’epoca l’elettricità, essendo essa stessa a determinarne il prezzo come maggior acquirente mondiale. D’altro canto, quanto fosse delicata la situazione dell’ENEL lo aveva capito anche il Governo Prodi, che nel 1996, su indicazione di D’Alema, nominò amministratore delegato Franco Tatò, già famoso come tagliatore di costi e risanatore di aziende.
Tatò, che aveva visto quanto grasso avesse accumulato l’ENEL, aveva grandi progetti, e alcuni è riuscito a realizzarli, ma l’Autorità dell’energia aveva il compito di restituire le efficienze ai consumatori, che quel grasso avevano pagato negli anni, e non si fece impressionare dal potere politico e mediatico della società. E i mercati reagirono positivamente, perché sentivano garantiti da una Autorità forte i propri investimenti.
Ma la pressione dei partiti non rimane esclusa a lungo
Il problema dell’Autorità divenne quindi la gelosia della politica che si sentiva esclusa da processi industriali determinati dalle semplici regole di una economia aperta di mercato. E così la politica intervenne proprio sul mercato, lasciando alla stessa ENEL la scelta delle centrali elettriche da mettere nelle tre “genco” (generation company), che l’azienda doveva collocare sul mercato per aprire il settore alla concorrenza.
L’ENEL costruì le società facendo in modo che restassero a lei gli impianti di base (quelli che lavorano 24 h con i costi più bassi) e quelli di punta (che determinano il prezzo marginale, quello più alto che poi tutti gli impianti ricevono). Ai concorrenti gli impianti mediani, quelli chiamati a entrare in funzione secondo necessità, che lavorano meno e non possono determinare il prezzo finale.
A questi non restava quindi che mettersi un centesimo sotto il prezzo di punta, per guadagnare comunque bene ma certo non essendo in grado di sviluppare vera concorrenza. Gli impianti da mettere a gara avrebbero dovuto essere scelti dal mercato stesso con offerte pubbliche o decisi dall’Autorità energia. La fiducia in un sistema corretto e concorrenziale è così scemata nel tempo, oggi se ne vedono le conseguenze.
Tutto il resto è figlio di quella scelta e di altre simili, come aver lasciato alla politica il sistema delle concessioni idroelettriche (dove nessuno ha più investito, nel timore di perdere le gare) e così anche i sistemi incentivanti per le rinnovabili, saldamente in mano al Governo, che ancora costano al consumatore una decina di miliardi all’anno, per elettricità prodotta a “costo zero” (costo marginale, si intende) perché viene dal sole e dal vento.
Perché è necessaria una fiscalizzazione degli oneri di sistema
Per questo è ormai indispensabile che degli oneri di sistema (incentivi vari, da quelli per le rinnovabili agli sconti per ferrovie ed energivori, dal bonus sociale agli interventi di efficienza energetica) siano trasferiti nella fiscalità generale, oggi nascosti nelle tariffe “decise dal regolatore indipendente”. Questi oneri devono emergere nella legge di bilancio, avere la giusta visibilità di modo che chi li voterà ogni anno, intorno a Natale, se ne assuma la piena responsabilità politica alla Camera e al Senato.
L’Autorità aveva presentato, proprio in base alla legge di bilancio 2023, una proposta per un percorso progressivo di fiscalizzazione degli oneri generali, che oggi pesano molto di più sulle piccole e medie imprese che sui grandi consumatori di energia.
Più in generale è possibile sviluppare un sistema concorrenziale se le principali società del settore non possono fallire, perché tutt’ora a controllo pubblico? I manager di ENI, ENEL, ex municipalizzate, hanno come principale obiettivo i dividendi per il Tesoro, CDP e i Comuni che li nominano o la concorrenza per crescere? E un privato che andasse in banca per investire nel settore, troverebbe gli stessi tassi delle aziende pubbliche?
Serve ancora un’Autorità indipendente?
Nei prossimi giorni dovrà essere rinnovato il collegio di ARERA, l’Autorità per l’energia cui nel frattempo si sono aggiunti acqua (2012), rifiuti (2018) e più recentemente anche le tariffe del teleriscaldamento. C’è da chiedersi, stante la situazione, se abbia ancora valore e quanto la sua “indipendenza”. Questo giornale ne ha già scritto, a proposito della gestione dei rifiuti.
Per quanto riguarda l’energia, di fatto, si rischia di dare una semplice copertura “etica” ad una attività diventata mero aggiustamento tecnico di decisioni governative e parlamentari. La vicenda delle concessioni di distribuzione elettrica lo dimostra, e la segnalazione sul punto del presidente Besseghini nell’ultima relazione al Parlamento rischia di restare vox clamans nel deserto.
Eppure, di lavoro serio e indipendente ce n’è ancora tanto bisogno. È urgente, per esempio, intervenire nello sviluppo coordinato delle reti di distribuzione di elettricità (in crescita) e gas (in progressiva riduzione, salvo per il biometano), attività in monopolio, dove sono necessari investimenti ingenti per far fronte alla transizione energetica e alla elettrificazione della mobilità privata e pubblica.
Se vale ancora il principio del servizio universale, non si capisce perché ancora alcune di queste società offrano servizi migliori delle altre e ci siano consumatori di serie a e di serie b. Ma quanti Consigli di amministrazione andrebbero aboliti con una razionalizzazione come quella prevista dal decreto Bersani (art. 9, comma 2) che ora si tende a rinviare? Chi potrebbe farlo se non un organo terzo indipendente, competente e quindi convincente?
È altrettanto urgente dare seguito all’indagine sul mercato del giorno prima che ARERA sta per pubblicare e di cui Besseghini ha già anticipato che serviranno interventi sanzionatori. Lo stesso per il mercato retail, dove l’ultimo comunicato sui controlli della GdF dice che su 10 venditori controllati, per 8 è stato avviato un procedimento sanzionatorio.
Più in generale, anche se nessuno lo dice esplicitamente, molti pensano che al Governo converrebbe avere autorità “dipendenti”, docili e al guinzaglio. Invece no. La realtà è paradossale: proprio ai governi convengono le autorità veramente indipendenti. Non per buon cuore democratico, ma per puro calcolo politico ed economico.
Il recente scontro sul decreto Bollette tra Palazzo Chigi e Confindustria lo dimostra perfettamente. Quando il Governo approva una misura sull’energia da tre miliardi, pensando di aver fatto tutto il possibile bilanciando i vari interessi in gioco, e poi il giorno della pubblicazione in Gazzetta ufficiale si trova Confindustria che tuona contro “l’assenza di misure concrete a sostegno del cuore produttivo del Paese”, il problema non è tecnico: è politico.
Il Governo che vuole intervenire troppo nella fissazione dei prezzi dell’energia si trova esposto a critiche di ogni tipo, da destra e da sinistra, da consumatori e imprese, rinunciando alla garanzia che può fornire solo un soggetto terzo e autorevole come un regolatore indipendente.
Il primo motivo per cui ai governi convengono le autorità veramente indipendenti è la credibilità internazionale. Non è retorica: si traduce in euro sonanti. Il Global Electricity Regulatory Index (GERI) della Banca Mondiale dimostra che i paesi con regolatori più indipendenti attirano più investimenti esteri nel settore energetico.
Quando un investitore straniero deve decidere se costruire un impianto in questo o quel Paese, non guarda solo agli incentivi monetari. Guarda a chi fissa le regole del gioco nei prossimi vent’anni, alla sua indipendenza e autorevolezza. Se il regolatore può essere influenzato nelle sue decisioni, o addirittura cambiato a ogni elezione come avviene in certi Paesi (non in Italia, per fortuna, grazie alla legge 481), l’investimento diventa un azzardo.
Se invece c’è un’autorità veramente indipendente con mandati lunghi e non rinnovabili, con procedure di nomina trasparenti e bipartisan, come ARERA (purché si eviti il rischio di designazioni esclusivamente politiche insito nel “pacchetto” di cinque nomine contemporanee), il rischio per la politica si riduce e con esso il costo del capitale e quindi le bollette, che devono recuperare, via i prezzi dell’energia e le tariffe di rete, l’onere degli investimenti.
Si riaffaccia l’idea di poter ricorrere ai “poteri sostitutivi” nei confronti dell’Autorità, come avvenuto molti anni fa dapprima con un decreto-legge Berlusconi (DL 193/2002) e poi con la “legge Marzano” n. 239/2014 che introduce un potere sostitutivo del Governo nei casi di inerzia dell’Autorità per l’energia nell’adozione dei provvedimenti di sua competenza.
Ma le cose sono cambiate: l’acquis europeo non lascia scampo. I prezzi delle commodity energetiche si formano sui mercati attraverso l’incontro di domanda e offerta, non nei ministeri. La concorrenza spinge all’innovazione, alla diversificazione dei servizi, alla ricerca di efficienza. Quando i governi provano a forzare la mano con interventi diretti sui prezzi, finiscono sempre per creare distorsioni che pagano caro.
Serve, serve. Sempre di più
La crisi dei prezzi del 2022 ha dimostrato che le autorità indipendenti aiutano i governi proteggendoli dalle tempeste del mercato energetico. Quando c’è una crisi dei prezzi, il regolatore può prendere decisioni tecniche impopolari (come gli aumenti del prezzo di maggior tutela) senza che il governo ne paghi il prezzo elettorale immediato.
Quando servono investimenti a lungo termine, solo un’autorità forte e davvero indipendente può garantire certezza regolatoria per vent’anni, senza che ogni cambio di maggioranza rimetta tutto in discussione.
È quello che gli economisti della teoria dei giochi, come il premio Nobel Thomas Schelling per primo, chiamano “commitment device”: legarsi le mani per resistere alle tentazioni future. Come Ulisse che si fa legare all’albero della nave per non cedere al canto delle sirene.
Indipendenza non vuol dire isolamento o arroccamento. La strada maestra del rapporto tra Parlamento, Governo e Autorità di regolazione sta negli strumenti opportuni di dialogo, come quello delle Segnalazioni e Proposte, che spesso però vengono disattese persino quando sono previste dalla legge (come nel caso già richiamato degli oneri impropri in bolletta, dove addirittura la proposta venne richiesta dalla prima legge finanziaria dell’attuale Governo).
Si dovrebbe invece rafforzare questo strumento, e si potrebbe prevederne la regolarità annuale – come già avviene per la segnalazione annuale dell’Autorità Antitrust in tema di concorrenza: raccogliere una volta all’anno le proposte delle Autorità di regolazione per la semplificazione e per il miglioramento del quadro normativo in tema di servizi di pubblica utilità alla luce dei principi di efficienza ed economicità, qualità dei servizi e tutela dei consumatori.
A trent’anni dalla illuminata legge 481, l’Italia dovrebbe aver imparato la lezione dell’indipendenza delle autorità di regolazione, ma è sempre ora per rammentarla perché con il passar del tempo, si rischia di dimenticarla. Non per amore dell’indipendenza astrattamente in sé, ma per mera convenienza politica.
Una autorità indipendente, che una volta formata con personalità “dotate di alta e riconosciuta professionalità e competenza nel settore”, come prevede la legge, e poi lasciata lavorare, conviene a tutti, anche a Parlamento e Governo.
E alla difesa degli interessi nazionali in Europa. Si va verso le reti europee dell’energia, ormai talmente interconnesse che tecnicamente nessuna può più fare a meno dell’altra. Le regole sono europee (Codici di rete) e passano dall’Agenzia europea per la cooperazione dei regolatori dell’energia (ACER), nel cui Board of regulators siede un rappresentante per ogni autorità nazionale, e quindi per l’Italia di ARERA. Il nuovo collegio dovrà confrontarsi con gli omologhi tedeschi e francesi, oltre che con la Commissione: anche per questo è bene che sia attrezzato e competente.
Servono commissari all’altezza del compito. L’Italia è il Paese che ha espresso il primo direttore dell’ACER, rinnovato per due mandati: buoni candidati non mancano, siano giuristi, tecnici o economisti esperti di regolazione economica.
*Diego Gavagnin, Luca Lo Schiavo, già dirigenti dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, poi ARERA.
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