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Marketing del futuro: come l’AI supporta la creatività umana


L’innovazione nel marketing non è solo una questione tecnologica, ma di visione strategica. Il marketing del futuro si sviluppa attraverso modelli ibridi, dove l’intelligenza artificiale si integra con creatività e cultura pop, creando un ecosistema dinamico di collaborazione.

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L’intelligenza artificiale nel marketing: oltre la tecnologia

Quando si parla di innovazione nel marketing e nella comunicazione, il pensiero corre infatti – quasi automaticamente – all’intelligenza artificiale. Automatizzazione, personalizzazione spinta, algoritmi predittivi: è questo l’immaginario dominante, spesso ridotto a una narrazione tecnocentrica che vede nell’AI l’unico motore possibile del cambiamento. Ma è davvero così?

I marketers delle aziende e dei brand che vogliono guardare al futuro devono farlo, guardando si all’intelligenza artificiale generativa, ma pensandola come ad uno strumento per supportare nuove strategie, per produrre innovazione.

Marketing ibrido e modelli plug-in

Il marketing di oggi e di domani deve essere aperto, orientato all’innesto, al confronto ed alla contaminazione.

Modelli cosiddetti plug-in, nuovi linguaggi, narrativi e creativi, emozioni – come la nostalgia – al centro delle strategie il marketing di oggi, e di domani, delle aziende e dei loro brand.

L’innovazione, insomma, non è solo una questione di tecnologia. È anche – e soprattutto – una questione di approccio, di visione, di capacità di leggere il presente e rispondere con soluzioni ibride, culturali e relazionali. Ed è proprio in questa direzione che si inserisce il modello plug-in:un approccio che non reinventa la ruota, ma la rende modulare. Più che costruire tutto in-house o delegare all’esterno in blocco, il plug-in favorisce l’integrazione agile di startup, agenzie creative, videomaker, illustratori, content creator e talenti indipendenti all’interno di realtà consolidate. Un ecosistema che non teme la frammentazione, ma la trasforma in valore. I benefici? Velocità, freschezza, capacità di adattamento. Ma anche una nuova forma di ownership collettiva dell’innovazione.

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“Integrare di volta creator o agenzie specializzate riduce drasticamente il ‘time to idea’ e il “time to content”: invece di mesi per far girare un brief in-house, bastano sprint di poche settimane con partner già rodati. I team marketing possono attivare della ‘creativity-as-a-service’” spiega Luca Pelati CEO dell’agenzia digitale e creativa Ventie30.

Il caso di studio: L’Oréal

Un caso di studio molto interessante è L’Oréal, colosso francese del beauty, che ha introdotto i contratti a “token” con creativi e agenzie. Ogni token vale un asset (15 secondi di video, packshot 3D, AR filter) che i team consumano on-demand.

Videomaker, illustratori 3D, growth-hacker, un esperto di marketing che si concentra sulla crescita rapida di un’azienda, spesso utilizzando strategie creative e a basso costo, o data-scientist non sono profili che ha senso tenere a libro paga full-time se non servono continuamente. Con il plug-in model possono essere ‘affittati’ quando il brief lo richiede, beneficiando di tecnologie e linguaggi sempre aggiornati. In questo modo budget e talenti seguono la domanda: se una sperimentazione fallisce, si sgancia il modulo senza pesare sulla struttura.

Per Pelati: “In pratica il plug-in diventa un moltiplicatore di creatività e un air-bag finanziario: le aziende e i loro brand pagano il valore aggiunto, non l’infrastruttura”.

Nostalgia e memetic culture come strumenti strategici

Questo approccio ibrido non è solo una strategia produttiva: è una filosofia che ci invita a ripensare il ruolo del marketing nel presente. Perché, se da un lato l’intelligenza artificiale ci promette efficienza e personalizzazione, dall’altro è nei contenuti culturali, nei linguaggi visivi, nella costruzione di senso che si gioca la partita della rilevanza.

Pandemie, crisi climatiche, guerre, denatalità, invecchiamento della popolazione, immigrazione, rivoluzioni tech rendono questi tempi incerti – e non lo sono mai stati tanto come ora – con il marketing che riscopre la memoria. Non per puro vezzo nostalgico, ma per costruire ancoraggi emotivi forti.

Il marketing della memoria: il ritorno delle estetiche vintage

I marchi tornano a usare narrative ed estetiche familiari, palette anni ’90, format pubblicitari vintage. Un “ritorno al futuro” che non è regressivo, ma strategico: la nostalgia diventa un linguaggio emotivo, un’emozione leva.

La nostalgia diventa così un linguaggio strategico, non come fuga dal presente ma come chiave per leggerlo con occhi diversi, capaci di riconoscere ciò che è rassicurante, e usarlo come trampolino per immaginare uno scenario desiderabile.

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Come? lavorando su immagini riconoscibili e su storytelling tranquillizzanti. Per Stefania Boleso, esperta di marketing strategico, consulente e formatrice, professoressa a contratto all’Università Cattolica “la nostalgia ha una forte attrattiva intergenerazionale, non colpisce solo chi ha vissuto direttamente un’epoca, ma anche le generazioni più giovani, attratte da estetiche vintage e retrò. Inoltre, Rafforza la brand image: riproporre elementi storici della marca può rafforzare la sua immagine percepita, creando un senso fiducia nel consumatore”.

Ma attenzione: non si tratta solo di evocare il passato, bensì di “consumarlo” in chiave progettuale. Il segreto del marketing emotivo – e in particolare nostalgico – sta nel proporre prodotti e servizi che proiettino il consumatore nel futuro, pur restando saldamente agganciati alle proprie comfort zone. È una leva potente di rassicurazione e stimolo insieme: mostri il passato per costruire fiducia, ma offri qualcosa che lo superi, lo trasformi, lo aggiorni.

Proprio per questo va usata con intelligenza. In un mondo saturo di stimoli, l’effetto “comfort” può trasformarsi facilmente in un’arma a doppio taglio per la brand reputation, soprattutto se non supportato da coerenza e autenticità.

“Ci sono alcuni punti deboli e rischi da considerare. Rischio di anacronismo: un uso mal calibrato della nostalgia può far percepire il brand come datato o non al passo con i tempi, se la strategia nostalgica appare forzata o non genuina, può generare scetticismo e allontanare i consumatori. Cavalcare il trend senza avere una storia rischia di far percepire il brand come poco autentico e quindi azzerare il coinvolgimento emotivo che è il fattore critico di successo del marketing della nostalgia. Insomma, è per molti, ma non per tutti… In altre parole, il brand deve aver significato qualcosa per qualcuno anni fa… deve aver fatto parte della storia e della cultura popolare dell’epoca, per poterlo riproporre e avere successo” spiega Stefania Boleso

Meme e cultura pop: il nuovo linguaggio nel marketing

Oltre al linguaggio della nostalgia nelle strategie marketing e comunicazione delle aziende e dei loro brandi ci sono i meme. Che non sono più “solo” contenuti virali, né semplici battute sui social media. Sono linguaggi culturali veri e propri, capaci di raccontare intere generazioni in un’immagine e una caption. I meme – come le emoji a loro tempo – sono ormai una grammatica diffusa, partecipativa, fluida. Non sono (solo) comicità: sono posizionamento, tono di voce, lettura del contesto.

Secondo i dati di un’analisi del Digital marketing institute, ripresa da ilSole24ore, le campagne basate sui meme superano costantemente le pubblicità tradizionali fino al +146% in termini di engagement con costi molto ridotti (oltre il 70%).

Tra gli esempi più noti includono Taffo, l’agenzia di onoranze funebri che gioca con ironia e cinismo sui temi di tendenza. Per Valentina Tanni, storica dell’arte, curatrice e docente “Il meme è un vero e proprio oggetto sociale che si presta a diventare il volano per qualsiasi tipo di messaggio. Slegandosi dai semplici template che li caratterizzavano durante i primi anni di utilizzo e dalla funzione strettamente ironica, i meme si sono moltiplicati, mutando e diventando un’entità estremamente complessa, talvolta volutamente criptica e quasi metafisica”.

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Ecco perché le aziende più avanzate non si limitano a “fare meme”, ma costruiscono memetic culture, ovvero ambienti in cui il brand diventa un personaggio capace di dialogare nel linguaggio del web, con intelligenza e ironia. Il meme, in questo senso, è un ponte tra la leggerezza e la profondità, tra il tempo reale e l’immaginario collettivo.

Attenzione però l’immediatezza e la velocità di propagazione possono produrre semplificazioni, manipolazioni e anche atti deliberati di disinformazione. L’umorismo deve essere maneggiato con cura. È balzato agli onori della cronaca, infatti, il meme realizzato da Wendy’s, la catena di fast food statunitense, con protagonista la cantante Kate Perry rientrata da una missione spaziale tutta al femminile che ha scatenato una reazione negativa per aver sminuito un momento di successo che celebra un abbattimento delle barriere, in un settore prettamente maschile, da parte delle donne.

Con marketing della nostalgia e meme già sul tavolo Luca Pelati guarda ai driver che oggi fanno la differenza: “Zero-party data ossia l’informazione che il cliente condivide intenzionalmente e proattivamente con il brand e UGC, user generated contents. Ci sono possibilità incredibili bisogna solo lasciarsi un po’ andare”.

Innovazione come inclusione: un nuovo modello di marketing

Tutto questo ci porta a una conclusione meno ovvia del previsto: innovare oggi significa includere. Includere creativi e start-up nei processi decisionali, includere la cultura pop nelle strategie di branding, includere la memoria come risorsa strategica e considerare gli archivi aziendali come asset. Non basta più solo abbracciare la tecnologia, bisogna “fare innovazione” e farla insieme, con modelli aperti, modelli plug-in, reti di collaborazione fluide e narrative ricercate.

Se il marketing della nostalgia può essere una moda passeggera, “Come accade per tutti i trend, anche questo verrà cavalcato, e poi con il tempo lascerà spazio ad altro. Non so dire con esattezza quando accadrà, ma ad un certo punto i brand sposteranno la loro attenzione su altro, per intercettare quello che sarà in quel momento il cosiddetto ‘zeitgeist’, vale a dire lo spirito del tempo. È sempre stato così, ogni trend ha una curva di ascesa e declino. Faccio però presente che alcuni trend possono passare, ma anche riemergere a distanza di anni” spiega Stefania Boleso, trattare la memetic culture come una tendenza passeggera è un errore strategico. I linguaggi cambiano e si evolvono, pure nel marketing e nella comunicazione aziendale. Bud Light, tra le tre principali marche di birra negli Stati Uniti, già da qualche anno ha deciso di inserire un creator specifico per i meme nel proprio team marketing.

L’AI sarà anche il motore, ma senza il carburante delle idee – e il volante della visione umana – rischia di girare a vuoto. Per questo serve una nuova leadership creativa, capace di uscire dalla bolla del tecnocentrismo e riscoprire il valore del fattore umano.

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In fondo, il marketing è sempre stato questo: un modo di parlare al presente, capendo cosa ci emoziona, ci unisce e ci rende parte di un insieme (bubble), ma sempre con lo sguardo verso il futuro.



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