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UNIMPRESA * IRAN: «FLOTTE TRASPORTO MERCI, RISCHIO COSTI IN PIÙ ALLL’ANNO PER 300 MILA EURO»


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09.26 – sabato 14 giugno 2025

(Il testo seguente è tratto integralmente dalla nota stampa inviata all’Agenzia Opinione) –
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L’attacco in Medio Oriente spinge il diesel e la benzina, imprese sotto pressione per l’aumento dei prezzi dell’energia

L’impennata dei prezzi del petrolio seguita all’attacco israeliano all’Iran potrebbe costare fino a 300.000 euro l’anno a una flotta media di 50 camion in Italia. È una proiezione del Centro studi di Unimpresa basata sull’aumento dell’8% del WTI e del 7,4% del Brent registrato il 13 giugno, che ha spinto in alto i prezzi dei carburanti di 10-15 centesimi al litro. Un aggravio che colpisce duramente il settore dei trasporti, già alle prese con margini ridotti e tariffe stagnanti. Secondo l’analisi dell’associazione, una compressione dei profitti o un aumento dei costi di trasporto appare inevitabile, con effetti a catena su logistica, prezzi al consumo e competitività. Anche la logistica marittima e aerea subisce pressioni, con rincari del 5-10% nei costi di spedizione, mentre le imprese di autotrasporto chiedono interventi urgenti, come sgravi fiscali sui carburanti o incentivi per flotte a basso impatto.

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Il rischio concreto è che i rincari si trasferiscano sui prezzi finali, comprimendo i consumi interni e frenando una crescita economica italiana già debole nel 2025. La crisi energetica legata al conflitto in Medio Oriente arriva in un contesto fragile: l’Italia importa oltre il 90% del gas e il 95% del petrolio, con ricadute immediate sui costi dell’elettricità – dipendente per il 40% dal gas – e su tutti i settori energivori, ma è il comparto trasporti a rappresentare la prima linea del rischio industriale, specie per un paese orientato all’export come l’Italia.

«L’escalation delle tensioni in Medio Oriente, innescata dall’attacco israeliano all’Iran nella notte del 13 giugno 2025, proietta un’ombra di incertezza sull’economia globale, pur in un contesto in cui i mercati sembrano scommettere su un conflitto circoscritto. L’ipotesi più probabile, al momento, è che le ostilità restino confinate ai due paesi coinvolti, con infrastrutture petrolifere risparmiate e senza un’escalation che coinvolga altri grandi produttori della regione, come Arabia Saudita o Emirati Arabi.

Tuttavia, il rischio di una temporanea compromissione del traffico nello Stretto di Hormuz, attraverso cui passa circa un quinto del petrolio mondiale e un quarto del gas naturale liquefatto, o di un aumento della volatilità dei prezzi dovuto a premi per il rischio, non può essere escluso. Questo scenario, pur moderato, si inserisce in un quadro economico globale già fragile, segnato da una crescita lenta in Europa, pressioni inflazionistiche persistenti e una transizione energetica ancora incerta» commenta il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora.

Secondo il Centro studi di Unimpresa, a livello globale l’immediata reazione dei mercati energetici riflette una certa cautela: il prezzo del gas naturale ad Amsterdam è salito del 4% a 37,60 euro per megawattora, mentre il petrolio WTI e Brent hanno registrato rialzi rispettivamente dell’8% (73,48 dollari al barile) e del 7,37% (74,47 dollari al barile). Questi incrementi, per ora contenuti, suggeriscono che gli operatori non anticipano disruption significative delle forniture. Tuttavia, un conflitto prolungato, anche se limitato, potrebbe spingere i prezzi energetici verso un aumento strutturale del 10-15% nei prossimi mesi, con effetti a cascata su inflazione e costi di produzione.

Le economie avanzate, in particolare quelle europee, altamente dipendenti dalle importazioni di energia, risentirebbero di un rincaro dell’elettricità e dei carburanti, con un impatto stimato tra l’1% e il 2% sull’inflazione complessiva. Le economie emergenti, invece, potrebbero affrontare pressioni ancora più acute, soprattutto nei paesi importatori netti di energia come India o Turchia, dove i bilanci pubblici sono già sotto stress. Nel frattempo, i produttori di petrolio come Stati Uniti e membri dell’OPEC+ potrebbero beneficiare di margini più ampi, ma un’eventuale decisione di aumentare la produzione per stabilizzare i prezzi resta incerta, data la volontà di mantenere quotazioni elevate.

Per le imprese globali, un aumento duraturo dei costi energetici si tradurrebbe in una compressione dei margini di profitto, soprattutto nei settori manifatturiero, chimico e dei trasporti. Le catene di approvvigionamento, già messe alla prova da anni di instabilità, potrebbero subire ulteriori tensioni, con rincari nei costi di spedizione e delle materie prime derivate dal petrolio, come plastiche e fertilizzanti. Le banche centrali, in particolare la Federal Reserve e la Banca Centrale Europea, si troverebbero di fronte al dilemma di bilanciare il controllo dell’inflazione, potenzialmente riaccesa dai prezzi energetici, con il rischio di soffocare la crescita economica attraverso tassi di interesse elevati. In questo contesto, la transizione verso le energie rinnovabili potrebbe ricevere un impulso, ma i tempi di implementazione restano troppo lunghi per mitigare gli effetti a breve termine.

Focalizzandosi sull’Italia, il quadro appare particolarmente delicato. Il nostro paese, che importa oltre il 90% del gas naturale e il 95% del petrolio consumati, è tra i più esposti in Europa alle fluttuazioni dei prezzi energetici. L’aumento del gas e del petrolio registrato il 13 giugno si riflette già sui costi dell’elettricità, dato che circa il 40% della produzione elettrica nazionale dipende dal gas. Un incremento del 10-15% dei prezzi del gas potrebbe spingere il costo dell’elettricità da 120-150 euro per megawattora a 140-180 euro, con un impatto diretto sulle bollette delle imprese.

Le piccole e medie imprese, che rappresentano il cuore del tessuto produttivo italiano, sono particolarmente vulnerabili: per un’azienda manifatturiera media, i costi energetici potrebbero crescere del 3-7%, erodendo margini già sottili. Settori come la ceramica, il vetro, l’acciaio e la chimica, che consumano grandi quantità di energia, potrebbero vedere un aumento dei costi operativi fino al 20%, con il rischio di ridurre la competitività sui mercati internazionali o di trasferire i rincari ai consumatori, alimentando l’inflazione.

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Il settore dei trasporti in Italia, fondamentale per un’economia orientata all’export, è tra i più colpiti dall’aumento dei prezzi del petrolio seguito all’attacco israeliano all’Iran del 13 giugno 2025, con il WTI salito dell’8% a 73,48 dollari al barile e il Brent del 7,37% a 74,47 dollari. Questo si traduce in un incremento stimato di 10-15 centesimi al litro per diesel e benzina, un costo significativo per le imprese di autotrasporti: una flotta media di 50 camion potrebbe affrontare un aggravio annuo di 200.000-300.000 euro, spingendo le aziende a ritoccare le tariffe o comprimere i margini.

Anche la logistica marittima e aerea risente dell’incertezza, con possibili rincari del 5-10% nei costi di spedizione, che pesano sulle catene di approvvigionamento di beni importati ed esportati. Con la domanda interna fragile, queste pressioni corrono il rischio di rallentare la competitività delle imprese italiane, già sfidate da costi energetici elevati, rendendo urgenti misure come sgravi fiscali sui carburanti o incentivi per flotte a basso impatto energetico. Ne conseguirebbero effetti a cascata sui costi logistici e sui prezzi finali dei beni: anche le famiglie italiane, già alle prese con un potere d’acquisto eroso, potrebbero ridurre i consumi, deprimendo la domanda interna e rallentando ulteriormente la crescita economica, prevista già anemica per il 2025.

Nonostante la gravità di questi rischi, esistono fattori che potrebbero mitigare l’impatto. L’Italia ha diversificato le sue fonti di approvvigionamento negli ultimi anni, aumentando le importazioni di gas liquefatto da Stati Uniti e Qatar e rafforzando i flussi attraverso gasdotti come il TAP. Le riserve strategiche di gas, riempite al 90% secondo i dati più recenti, offrono un cuscino per affrontare eventuali shock temporanei. Inoltre, il governo potrebbe intervenire con misure di sostegno, come sgravi fiscali sulle bollette o tetti ai prezzi dell’energia, come fatto durante la crisi energetica del 2022. Tuttavia, tali interventi peserebbero sul bilancio pubblico, già gravato da un debito elevato.

 



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