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«Assunto da un chat bot? No, grazie»


CAPITALE UMANO. L’intelligenza artificiale entra nei processi Hr. Giovani candidati sempre più disorientati tra screening automatici dei Cv e policy inesistenti. Mauri (Polimi): le aziende devono costruire nuove regole

«Il problema non è la tecnologia. È la cultura». Così Martina Mauri, direttrice dell’Osservatorio Hr Innovation Practice del Politecnico di Milano, sintetizza una delle contraddizioni più forti emerse dal report 2025. L’intelligenza artificiale è già entrata nei processi Hr: il 45% delle aziende ha adottato almeno uno strumento Ia per la gestione del personale. Ma l’approccio è ancora superficiale, tattico più che strategico.

Un’adozione senza visione

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«La principale barriera a un’adozione strutturata dell’intelligenza artificiale non è nei costi o nella tecnologia, ma nella consapevolezza», spiega Mauri. «Molte direzioni Hr non hanno una reale comprensione delle opportunità che l’Ia offre. La usano, sì, ma in modo frammentario, con obiettivi di mera efficienza, senza chiedersi quale impatto possa avere sui processi, sui ruoli, sulle competenze». L’applicazione più diffusa è quella legata all’attraction, la fase in cui si ricevono centinaia di curricula ogni giorno. Qui l’Ia accelera il lavoro dei recruiter attraverso strumenti di screening automatico, creazione rapida delle job description o sistemi che assegnano priorità alle candidature. «Ma la selezione finale resta umana. I sistemi forniscono un ranking, ma non prendono decisioni. E questo è anche un vincolo normativo», chiarisce Mauri.

Niente regole

A mancare, però, è una governance interna. «Si usano strumenti di Ia senza controllarne l’efficacia, senza accompagnare il cambiamento, senza far comprendere al personale perché è importante utilizzarli», osserva. «E quando ci sono delle policy, sono spesso solo normative, non educative. Le aziende non investono abbastanza per creare una cultura condivisa sull’uso consapevole di queste tecnologie». E questa assenza si paga. «Il divieto senza spiegazione è una scelta miope. I giovani continueranno comunque a usare questi strumenti: il punto è educarli a farlo in modo corretto. Serve un accompagnamento. Non si può pensare che basti bloccare i siti: i ragazzi hanno lo smartphone, sono abituati a usarlo per tutto».

Senza protezioni

Il 54% dei giovani lavoratori ha già sperimentato l’Ia generativa, spesso in modo autonomo. «Lo fanno perché sono abituati a ChatGpt, a strumenti di sintesi, traduzione, scrittura. Ma in azienda questo comportamento può generare rischi importanti, soprattutto in assenza di policy. Il problema è che spesso i giovani non sono consapevoli delle conseguenze: usano l’Ia anche per gestire documenti riservati senza sapere che stanno potenzialmente compromettendo la sicurezza dell’impresa».

«Non puoi impedire loro di usare l’intelligenza artificiale. Ma puoi spiegare come farlo bene, dove sono i limiti, e soprattutto perché certi dati non devono finire in strumenti cloud esterni. È un’educazione che oggi manca, e che è urgente introdurre»

La soluzione non è vietare, ma formare. «Non puoi impedire loro di usare l’intelligenza artificiale. Ma puoi spiegare come farlo bene, dove sono i limiti, e soprattutto perché certi dati non devono finire in strumenti cloud esterni. È un’educazione che oggi manca, e che è urgente introdurre».

Il rischio dell’effetto «bot»

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Ma l’Ia non impatta solo sulla sicurezza o sull’efficienza. C’è un altro rischio, più umano: quello della distanza. «Se un giovane si candida per un lavoro e si ritrova a parlare solo con chat bot, a ricevere messaggi automatici, a non avere interlocutori reali, si disorienta. Si sente escluso, rifiutato, e spesso non capisce perché». Mauri è chiara: «Un giovane alla prima esperienza ha bisogno di rassicurazione, di un contatto umano. E la funzione Hr deve rimanere il volto accogliente dell’organizzazione. Altrimenti, si rischia di alimentare sfiducia e disaffezione, proprio nella fase in cui il giovane si sta avvicinando al mercato del lavoro». Questo rischio è particolarmente elevato in un Paese come l’Italia, dove i Neet (giovani che non studiano e non lavorano) sono ancora numerosi. «In certe fasi – spiega Mauri – non si può lasciare tutto all’automazione. Servono anche persone disponibili a spiegare, ad accompagnare. Andare nelle università, nei career day, rispondere ai messaggi. Solo così si mantiene il contatto, solo così si costruisce una relazione». Ecco allora che il ruolo del recruiter cambia, ma non scompare. «Lo strumento può supportare, ma non sostituire. Il ruolo umano deve restare umano. Anche perché i giovani stessi – pur essendo digitali – continuano a cercare relazioni vere, autentiche. Non possiamo pensare di accoglierli nel mondo del lavoro con un algoritmo».

«Lo strumento può supportare, ma non sostituire. Il ruolo umano deve restare umano. Anche perché i giovani stessi – pur essendo digitali – continuano a cercare relazioni vere, autentiche. Non possiamo pensare di accoglierli nel mondo del lavoro con un algoritmo»

Formazione e Ia: promettente

Un’area dove l’Ia mostra il suo potenziale più interessante è la formazione. «Le piattaforme di e-learning stanno integrando sistemi di recommendation che suggeriscono contenuti su misura, sulla base del ruolo, dei gap di competenze e degli obiettivi professionali. Non si tratta più di corsi standard, ma di percorsi personalizzati, continuamente aggiornati». «È un passaggio fondamentale per la Gen Z, che cerca feedback frequenti e crescita continua. Ma richiede investimenti e un mindset orientato alla valorizzazione del potenziale individuale», sottolinea Mauri.

Il futuro del lavoro

C’è poi tutto il tema della paura per la possibile scomparsa di figure professionali sostituite in futuro dall’Ia. «Molti lavoratori temono che l’Ia renda il proprio ruolo obsoleto – conferma Martina Mauri –. Ma la vera ansia nasce quando non si capisce cosa succede. Quando l’azienda non comunica, non forma, non accompagna. Se invece si progettano percorsi di transizione, se si spiega come cambiano i ruoli, l’atteggiamento cambia: le persone si sentono parte del cambiamento, non vittime». Oggi in Italia non si prevede un impatto negativo occupazionale dall’Ia. Anzi, può aiutare ad affrontare la crisi demografica e la carenza di profili. «Il mercato del lavoro italiano soffre la mancanza di tecnici, saldatori, profili digitali. L’Ia può essere una leva per affrontare queste carenze, liberando tempo e riducendo i colli di bottiglia. Ma serve chiarezza, visione e accompagnamento». «L’intelligenza artificiale – conclude Mauri – è uno specchio. Riflette quello che siamo come organizzazioni. Se siamo confuse, restituirà confusione. Se siamo chiare e coerenti, potrà aiutarci a crescere davvero».

Dall’automazione all’empatia

L’intelligenza artificiale non è la soluzione a tutti i problemi dell’Hr. «Non si tratta di sostituire, ma di affiancare», chiarisce Mauri. «L’Ia può liberare tempo, migliorare l’efficacia, aiutare nei processi ripetitivi. Ma il cuore resta il rapporto. Per questo, il ruolo del recruiter è destinato a cambiare, non a sparire». E in questo cambiamento, la Gen Z può diventare un alleato strategico. È una generazione curiosa, veloce, digitale, capace di adattarsi rapidamente. «Ma anche fragile, spesso incerta, in cerca di orientamento. Per questo le aziende devono saper bilanciare innovazione e accompagnamento. La tecnologia deve diventare un ponte, non un muro». Per molte imprese, il rischio è quello di perdere un’occasione storica. «Oggi è possibile ripensare i processi Hr con uno sguardo nuovo, usando l’intelligenza artificiale non come uno strumento di controllo, ma come leva di ascolto e crescita».

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Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index

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