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Non solo ROI, che cosa attendersi e cercare quando si investe in AI


Poche tecnologie nella storia recente hanno monopolizzato il dibattito strategico e tecnologico con la stessa rapidità e pervasività dell’intelligenza artificiale. Oggi le aziende si sentono (sono?) quasi obbligate ad adottarla. E le pressioni sono diverse: i consigli di amministrazione vogliono risultati economici, i manager cercano di ottimizzare i processi e i reparti IT si trovano a dover implementare soluzioni che portino un valore concreto.

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In questa corsa all’adozione, la domanda è sempre la stessa: “Qual è il ritorno sull’investimento?”. Eppure concentrarsi solo sul ROI potrebbe rivelarsi un errore: un approccio limitato che non solo impedirebbe di cogliere i vantaggi più profondi dell’AI, ma sarebbe anche un modo di assicurarsi la delusione. Per sfruttare davvero l’intelligenza artificiale bisogna imparare a guardare oltre i semplici calcoli finanziari e adottare nuovi criteri di valutazione. Così la pensa Mary Mesaglio, Distinguished VP e Analyst di Gartner, che in interessante intervento spiega come le aziende che approcciano l’intelligenza artificiale vivano una profonda contraddizione. Da un lato percepiscono l’enorme potenziale e l’entusiasmo generato dalle continue innovazioni. Dall’altro si scontrano con le enormi difficoltà pratiche nel trarne un valore reale.

Questa sensazione ambivalente – spiega – deriva dal fatto che esistono due competizioni parallele nel mondo AI. La prima è la corsa all’innovazione pura, combattuta dai colossi tecnologici, che investono miliardi per creare modelli sempre più potenti. Per la maggior parte delle imprese, questo è e resterà solo uno spettacolo da guardare per capire le tendenze, non una competizione nella quale entrare. La seconda corsa, invece, coinvolge direttamente ogni organizzazione: è la sfida concreta di applicare l’AI ai propri processi in modo sicuro, efficace e su vasta scala. È questo il terreno su cui si gioca la vera partita per le aziende e dove si concentrano le maggiori complessità.

La doppia corsa dell’intelligenza artificiale e la pressione sui vertici aziendali

La percezione dell’urgenza è accentuata dalle elevate aspettative dei vertici aziendali. Un’indagine di Gartner di fine 2023 rivela che il 74% degli amministratori delegati identifica l’intelligenza artificiale come la tecnologia che avrà il maggiore impatto sul proprio settore. Un dato in costante aumento anno dopo anno, che mette i CIO e i responsabili dell’innovazione in una posizione per così dire… scomoda.

Di fronte all’innovazione incessante che promette continuamente di “cambiare le regole del gioco”, alimentando l’entusiasmo, ottenere valore concreto e dimostrabile si rivela difficile. Non esiste, come sottolinea Mesaglio, una bacchetta magica in stile Harry Potter. Paradossalmente la semplicità d’uso di strumenti come ChatGPT per il consumatore finale maschera una serie di complessità che le aziende devono affrontare in termini di integrazione, governance e gestione dei costi.

Questa dicotomia tra potenziale e pragmatismo richiede un cambio di paradigma nel modo in cui si formulano i business case per l’AI. La domanda “Qual è il ROI?” è limitante perché presuppone che tutto il valore generato dall’intelligenza artificiale sia direttamente e immediatamente quantificabile in termini finanziari.

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In realtà – sottolinea Mesaglio – esistono diverse tipologie di valore, e per ognuna serve una metrica e un approccio gestionale differente. La soluzione proposta è quella di considerare gli investimenti in AI non come singole iniziative, ma come un portafoglio diversificato di investimenti strategici, ciascuno con un proprio orizzonte di rendimento e una propria natura. Un portafoglio che va poi valutato in funzione di tre distinti tipi di ritorno: il ritorno sul dipendente (ROE), il ritorno sull’investimento (ROI) e il ritorno sul futuro (ROF).

Oltre il ritorno sull’investimento, le tre dimensioni per dare valore all’AI

E così la questione diventa da tattica a strategica. Invece di pretendere un ROI per ogni singola iniziativa, i dirigenti aziendali dovrebbe chiedersi: “Come vogliamo allocare il nostro budget tra ROE, ROI e ROF?”. Questa impostazione permette di bilanciare le necessità operative immediate con le ambizioni di crescita a lungo termine e le scommesse sulla disruption, accettando che non tutti gli investimenti produrranno lo stesso tipo di risultato.

ROE, il ritorno sul dipendente come nuovo standard operativo

Il primo componente del portafoglio è il ROE, acronimo di “Return on Employee”, o ritorno sul dipendente. Questa categoria include tutte quelle applicazioni di AI, in particolare l’AI generativa, volte ad aumentare la produttività personale. Si tratta di strumenti come Microsoft Copilot, Google Gemini o Apple Intelligence, utilizzati per attività come riassumere lunghe email, tradurre documenti, generare bozze di testi o analizzare dati per un singolo utente.

Quando si valuta un investimento di questo tipo, chiedere un ROI finanziario è un errore concettuale. Come fa notare Mesaglio, sarebbe come chiedere il ROI della posta elettronica o pretendere di acquistare un’automobile con tre pneumatici per risparmiare. Sono strumenti diventati parte integrante dell’operatività standard di un’azienda moderna. Il loro valore non si misura in euro risparmiati o in ricavi incrementali diretti. Si misura in termini di coinvolgimento dei dipendenti, di benessere organizzativo e, soprattutto, di capacità di attrarre e trattenere i talenti.

Il ROE è quindi un parametro qualitativo, ma non per questo meno importante. Un dipendente che risparmia ore in attività a basso valore aggiunto è un dipendente che può dedicare più tempo a compiti strategici, creativi e relazionali. È un dipendente meno frustrato e più soddisfatto del proprio lavoro. L’investimento in ROE è, a tutti gli effetti, un costo operativo necessario per rimanere competitivi sul mercato dei “talenti”, non un centro di profitto.

ROI, l’applicazione misurabile per ottimizzare l’esistente

La seconda categoria è quella del ROI propriamente detto, il “Return on Investment” nel suo senso più classico e conosciuto. Qui rientrano tutte le applicazioni di intelligenza artificiale che vengono innestate su processi o flussi di lavoro già esistenti e profondamente compresi dall’organizzazione. L’obiettivo non è stravolgere il modo in cui l’azienda opera, ma estenderlo, migliorarlo, renderlo più efficiente o sostenerlo. Si tratta di applicare l’AI per fare meglio ciò che si sa già fare.

In questo caso, e solo in questo caso, la richiesta di un progetto dettagliato con un ritorno sull’investimento quantificabile è non solo legittima, ma doverosa. Se un team propone di utilizzare l’AI per ridurre i tempi di ciclo di un processo produttivo del 15%, o per aumentare i ricavi da una certa linea di prodotto del 10%, la dirigenza deve pretendere di vedere i numeri, le analisi e le proiezioni. Qui l’azienda possiede già una profonda conoscenza del dominio, ha personale con le competenze necessarie e dati storici su cui basare le stime.

Le metriche da utilizzare non sono speciali “metriche AI”, ma i classici indicatori di performance aziendale: riduzione dei costi, aumento dei profitti, diminuzione del rischio, incremento dei ricavi. L’AI diventa quindi uno strumento di ottimizzazione, il cui contributo deve essere misurato con lo stesso rigore di qualsiasi altro investimento tecnologico volto a migliorare l’efficienza operativa.

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ROF, scommettere sul futuro per riscrivere le regole

L’ultima componente del portafoglio è forse la più affascinante e la più rischiosa: il ROF, ovvero il “Return on the Future”. Questa categoria – dice Mesaglio – non è per tutti. È riservata alle organizzazioni con grandi ambizioni, che non si accontentano di ottimizzare l’esistente ma puntano a riscrivere le regole del proprio settore. Il ROF rappresenta gli investimenti in applicazioni AI talmente nuove e dirompenti che è impossibile prevederne l’esito.

Qui, l’approccio richiesto è quello del venture capitalist. Significa fare diverse “puntate” con la piena consapevolezza che la maggior parte di esse, anche l’80%, fallirà. L’obiettivo è che quelle che invece vanno in porto abbiano un successo tale da ripagare ampiamente tutti i fallimenti.

E torniamo al nostro ROI: in questo caso chiedere un progetto con un ROI definito per un progetto ROF – dice Mesaglio – è controproducente. Qualsiasi numero presentato sarebbe, con ogni probabilità, un’invenzione. Non perché il team non abbia lavorato abbastanza all’analisi, ma perché è oggettivamente impossibile sapere in anticipo quale sarà la reazione dei clienti, l’adozione del mercato o gli ostacoli imprevisti per qualcosa che non è mai stato fatto prima.

Investire nel ROF richiede una cultura aziendale che tolleri il fallimento e una leadership disposta a scommettere sul potenziale piuttosto che sulla certezza. È un gioco ad alto rischio e ad alto potenziale rendimento, ma necessario per chiunque voglia essere un vero pioniere nel proprio campo.

Gestire i costi, l’incognita volatile della GenAI

Una discussione sui risultati di business sarebbe irresponsabile se non affrontasse anche il lato dei costi. I costi legati all’intelligenza artificiale generativa, in particolare, presentano caratteristiche molto diverse rispetto ai costi IT tradizionali. Mentre questi ultimi, pur essendo spesso percepiti come elevati, sono in gran parte prevedibili (canoni di manutenzione, licenze, servizi), i costi della GenAI sono intrinsecamente volatili e imprevedibili.

L’esperienza sul campo mostra che le stime iniziali dei costi possono essere anche clamorosamente sbagliate, con scostamenti che vanno dal 500% al 1000%. Molte aziende stanno rivivivendo l’esperienza avuta all’inizio con il cloud: fatture fuori controllo e difficoltà nel comprendere esattamente che cosa si stia pagando. Questa imprevedibilità richiede un’attenzione maniacale ai modelli di costo delle diverse piattaforme e un monitoraggio costante prima di intraprendere qualsiasi implementazione su larga scala. Comprendere e governare la volatilità dei costi è una condizione non negoziabile se si vuole avere successo.



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