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“200mila posti di lavoro, poi dopo è mancata governance”


Dieci anni fa entrava nel vivo quell’evento che ha cambiato il volto di Milano e forse anche la percezione internazionale dell’Italia. Guardando indietro a quel momento storico, qual è stato il lascito più profondo e duraturo di Expo 2015?
«Il lascito più profondo è economico, infrastrutturale e culturale. Con Expo abbiamo restituito a Milano una visione internazionale e all’Italia una reputazione di affidabilità nella gestione di grandi progetti. Ma soprattutto, l’Esposizione ha generato crescita: Milano ha accolto oltre 21 milioni di visitatori, generando un impatto economico complessivo stimato in oltre 30 miliardi di euro, con più di 200mila nuovi posti di lavoro creati direttamente o indirettamente. Abbiamo dimostrato che un grande evento può e deve essere compatibile con la qualità della vita e il benessere collettivo. Anche sul piano turistico l’effetto è stato straordinario: la città è passata da 4,6 milioni di turisti nel 2015 a oltre 11 milioni di oggi, consolidandosi come una delle destinazioni urbane più visitate d’Europa».

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Quali furono i passaggi più delicati di quel percorso e soprattutto quali le intuizioni strategiche che permisero di ribaltare i pronostici e convincere il Bureau International des Expositions?
«Il momento più critico fu affrontare il pregiudizio su una candidatura italiana, dopo anni in cui l’Italia era vista come inaffidabile dal punto di vista organizzativo. La nostra intuizione vincente fu invece quella di interpretare Expo non solo come evento espositivo, ma come progetto di sviluppo globale. Il nostro dossier parlava di sostenibilità, ma anche di progresso economico, di innovazione, di capitale umano. Il comitato internazionale ha colto la visione di una Milano come laboratorio di futuro. Un approccio premiato con 86 voti contro i 65 di Smirne nella votazione finale del BIE».

“Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” – un tema di oggi, alla luce delle crisi alimentari globali, dei cambiamenti climatici e delle sfide della sostenibilità. Quanto l’Expo è stato determinante nell’aprire e strutturare questo dibattito?
«Abbiamo anticipato molti temi oggi centrali. Scelsi quel tema -Nutrire il pianeta – perché significava riflettere su come garantire crescita sostenibile, equità e salute. Oltre 145 Paesi e numerose organizzazioni internazionali hanno contribuito a generare conoscenza, reti scientifiche, partnership tra pubblico e privato. Il risultato fu la Carta di Milano, sottoscritta da oltre 1 milione di cittadini e presentata all’ONU come impegno globale per il diritto al cibo. Ne sono orgogliosa».

L’evento doveva essere, nelle intenzioni, un catalizzatore di trasformazione urbana e infrastrutturale. Milano oggi è oggettivamente una metropoli profondamente diversa da quella pre-Expo: più internazionale, più dinamica. Quanto di questa metamorfosi può essere ricondotto direttamente all’eredità di Expo?
«Expo ha cambiato la morfologia e la vocazione della città. Feci appositamente inserire nel dossier di candidatura il finanziamento di opere come BreBeMi, Pedemontana, le metropolitane M4 e M5 – che insieme coprono oltre 50 km di nuova rete metropolitana – e grazie ad Expo furono poi valorizzate aree marginali come l’attuale MIND (Milano Innovation District). Oggi, dove sorgeva Expo, si stanno insediando università, centri di ricerca, startup e aziende globali. Ma soprattutto, l’evento ha rilanciato Milano come motore di crescita nazionale, grazie a un modello urbano basato su innovazione, sostenibilità e qualità dei servizi. Abbiamo anche trasformato l’immagine internazionale della città, facendo di Milano non solo una capitale economica e industriale, ma anche culturale e turistica. Oggi il turismo pesa per circa il 14% del PIL cittadino, con una crescita significativa anche nel segmento leisure, un tempo trascurato. Grazie ad Expo abbiamo insomma reso Milano una città che “si visita”, e non solo che “si attraversa per lavoro”».

Ogni grande progetto, per quanto riuscito, porta con sé anche qualche rimpianto per le occasioni non pienamente sfruttate. Con il senno di poi e osservando l’evoluzione del post-Expo, quali sono le opportunità che quella piattaforma aveva creato ma che Milano e l’Italia non sono riuscite a cogliere completamente?
«Con Expo avevamo gettato le basi per un ecosistema dell’innovazione agroalimentare, per fare di Milano una capitale globale del food-tech e della sostenibilità. È però mancata successivamente una governance unitaria e una strategia industriale coerente post-evento. I tempi lunghi nella riconversione dell’area e l’assenza di un forte soggetto pubblico-privato hanno rallentato le ricadute».

Il cosiddetto “modello Milano” è diventato un caso di studio internazionale, un riferimento per altre città italiane ed europee che aspirano a una trasformazione simile. Era prevedibile questo successo quando iniziò l’avventura di Expo?
«Era prevedibile per chi conosce davvero la forza strutturale e il capitale umano di Milano. Una città laboriosa, competitiva, aperta e dinamica. Ma il successo del mio “modello Milano” non è stato frutto del caso: è il risultato di un grande progetto bipartisan, sostenuto da una forte visione globale e da una rete solida di alleanze tra istituzioni pubbliche, imprese, mondo accademico, terzo settore e realtà culturali.
L’Expo 2015 è stato il punto di partenza, ma ciò che ha fatto la differenza è stato il lavoro strategico di costruzione fatto di intensa attività diplomatica, di valorizzazione delle eccellenze cittadine – dalla Scala al Piccolo Teatro, dalle reti universitarie al sistema delle imprese e delle associazioni di categoria – e dalla capacità di Milano di proporsi come capofila in progetti di sviluppo in oltre 150 Paesi. Questo slancio è stato alimentato da una collaborazione pubblico-privato rara per efficacia, che ha trasformato la città in un laboratorio di innovazione urbana, economica e culturale».

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Expo ha richiesto una capacità di visione a lungo termine spesso difficile per la politica italiana. Come si concilia una “cultura dell’urgenza del consenso elettorale” che si è radicata, con progetti che danno frutti dopo anni? Cosa serve per realizzare oggi progetti altrettanto ambiziosi?
«Serve una politica che abbia il coraggio di guardare oltre il breve periodo, capace di coinvolgere la società civile e le imprese in un patto di responsabilità condivisa. Expo ha mostrato che, se il progetto è credibile e ben governato, può generare valore aggiunto per molti anni a seguire proprio perché produce risultati concreti. Il vero salto di qualità fu per me quello di passare dalla politica del consenso alla politica dell’impatto».

Quanto conta la continuità politica nel realizzare grandi progetti e come si può garantirla al di là delle alternanze elettorali?
«La continuità è fondamentale, soprattutto se legata a obiettivi strategici di interesse nazionale. Abbiamo dimostrato che serve una governance multilivello capace di garantire stabilità e trasparenza. Per Expo fu decisivo l’accordo tra Comune, Regione, Governo e operatori privati. Questo modello può essere replicato solo se si supera la logica delle “bandierine” politiche a favore di una strategia condivisa».

Milano oggi compete con Londra, Parigi, Berlino. Quanto Expo ha contribuito a questo salto dimensionale e cosa manca ancora per consolidare definitivamente questo ruolo internazionale?
«Expo ha segnato il salto di scala. Abbiamo reso Milano una città visibile e credibile agli occhi del mondo. Oggi competiamo grazie a un ecosistema che attrae innovazione e capitale umano: Milano è prima in Italia per startup innovative, oltre 2.400, e quarta in Europa per attrattività degli investimenti immobiliari. Ma per consolidare questo ruolo dobbiamo rafforzare ricerca, innovazione, investimenti nel capitale umano».

Sono trascorsi 10 anni: è lecito chiedersi se lo slancio si stia esaurendo e se si possa immaginare per Milano un nuovo progetto della stessa portata visionaria e trasformativa di Expo. Su quale grande tema o sfida globale si potrebbe puntare?
«Punterei su un grande progetto europeo per il benessere e la crescita sostenibile, centrato su intelligenza artificiale, salute e economia circolare. Un “Human Expo” del XXI secolo. Da Expo ho imparato che servono impegno e determinazione, una governance forte, visione inclusiva e una narrazione condivisa. Solo così si creano progetti in grado di cambiare davvero il destino di un territorio e di un Paese. Non basta una bella vetrina: servono contenuti solidi e misurabili, capaci di creare valore reale e duraturo».

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