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così il nuovo dazio green di Bruxelles farà chiudere altre imprese


Si chiama CBAM, Carbon Border Adjustment Mechanism, ed è una sorta di dazio ambientale imposto sulle importazioni da Paesi extra UE ad alta emissione di carbonio. Bruxelles l’ha introdotto, appunto, per ridurre le emissioni ed evitare disparità tra le aziende europee e le altre, ma in un contesto e con regole tali che rischia di mettere in gravissima difficoltà diversi settori industriali.

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Il 2025 doveva essere di sperimentazione mentre l’entrata in vigore era prevista per il 2026, ma forse verrà rimandata. Il CBAM, commenta Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, è frutto dell’ideologia che sta dietro al Green Deal, varato dalla prima Commissione Von der Leyen e ora di fatto confermato dalla seconda, incapace di rivedere i suoi errori e pronta solo a rinviare normative che finiscono per ostacolare le imprese e mettere in forse la loro stessa esistenza.



E’ un meccanismo che si colloca nel solco di sistemi come l’ETS, creato per far rispettare alle aziende un limite alle emissioni concedendo loro crediti (gratuiti e da acquistare), a ognuno dei quali corrisponde una certa capacità di emettere CO2. Ma, secondo le aziende, al di là dei buoni propositi ambientali, finisce per ostacolare gravemente la loro attività. Tutto questo senza che l’apparato UE sia in grado di dare risposte adeguate alle richieste e agli allarmi che vengono dall’economia reale.

Perché l’Europa ha voluto introdurre il CBAM?

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È una delle tante aberrazioni generate dal sistema dell’ETS e della tassa carbonica. La norma consiste in questo: gli importatori di prodotti semilavorati, come quelli chimici o cementizi, devono pagare una tassa equivalente al footprint carbonico del prodotto che importano. Se fanno arrivare bramme dal Brasile, devono chiedere al produttore un certificato sull’impronta carbonica di quella produzione, sulle emissioni prodotte. Su questa base si fa corrispondere al produttore un importo equivalente a quello che avrebbe pagato se quella bramma fosse stata prodotta in Europa.



Ma se serve a scoraggiare le alte emissioni di carbonio, perché le aziende non vedono di buon occhio questo meccanismo?

Ci sono diversi punti da chiarire: il primo è la veridicità delle certificazioni. Che potere hanno gli europei di andare a sindacare la veridicità di un certificato che viene dall’Indonesia o da altri Paesi? Abbiamo parlato con le dogane e giustamente ci hanno risposto che non sono agenti dell’Interpol: non possono fare altro che comportarsi sulla base di quello che dicono i certificati.

Ci sono altre obiezioni?

La seconda è che in questo modo si lascia aperta la competizione sui prodotti finiti: l’importatore europeo che prende all’estero la bramma e la trasforma in una lamiera che diventa il pianale di un camion, è soggetto al CBAM, ma il pianale del camion che viene venduto da un’azienda cinese, che è un prodotto finito, oggi questo “dazio” non lo paga. Una trappola terrificante: invece che avere la competizione sui semilavorati, l’avremo sui prodotti finiti.

Possibile che non ci sia un rimedio?

Si sta pensando, cervelloticamente, di introdurre un’imposizione carbonica anche su tutti i prodotti finiti. Ma questo significa un appesantimento burocratico insostenibile soprattutto per le piccole e medie imprese, ma che permette di ottenere poco o niente. Per non parlare dell’ETS, un sistema che dura da 25 anni per indurre gli industriali a decarbonizzare i loro processi produttivi: chi decarbonizzava attraverso la tecnologia non doveva comprare quote di CO2.

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Dopo così tanto tempo, chi poteva attuarlo lo ha fatto, chi non è riuscito è perché non ce la fa. Faccio l’esempio dei cementieri, che usano processi non elettrificabili, dove le tecnologie per decarbonizzare non sono ancora disponibili. Insomma, siamo di fronte ad aziende che devono pagare per forza: anche volendo, non possono decarbonizzare. E infatti chiudono o chiuderanno. Come può succedere anche a chi produce il vetro o le piastrelle.

Ma la siderurgia italiana, per esempio, usa già i forni elettrici. Anzi, è all’avanguardia per questo. Ma allora perché viene ugualmente penalizzata dalle norme UE?

Noi siamo i più decarbonizzati al mondo, ma con il forno elettrico si producono tutti gli acciai, tranne uno, cioè il profondo stampaggio, che è l’acciaio per la carrozzeria delle auto. Gli “scienziati” della UE, che hanno anche tolto le quote gratuite di CO2 per le aziende, hanno dato il colpo di grazia a quel poco di settore automobilistico che rimane in Europa. Per comprare certe lamine occorrerà andare in Giappone, in Cina, in Corea, esattamente dai Paesi concorrenti all’industria europea dell’automobile.

Ma queste considerazioni a Bruxelles non le fanno?

C’è una barriera ideologica fortissima prima ancora che politica. Il problema sono i funzionari di Bruxelles cresciuti dentro questo mainstream: pensano di salvare il mondo e hanno un potere enorme, non democratico, perché non gli deriva dal voto. Intanto la UE, siccome non ha il coraggio di entrare nel merito delle discussioni, proroga tutto: le multe per le case automobilistiche che non producono quote sufficienti di macchine elettriche le hanno spostate, il CBAM potrebbe essere ritardato di un anno o due.

Non c’è modo di modificare il sistema?

Tony Blair ha detto chiaramente che gli obiettivi europei di decarbonizzazione al 2050 sono irraggiungibili, perché invece di affrontare il tema ambientale puntando sulla neutralità tecnologica, con un approccio pragmatico e incentivante, si è fatto un disastro. D’altra parte, l’Europa emette oggi meno del 7% della CO2 mondiale (che intanto cresce del 3,5-4% l’anno) e la sua industria meno della metà di questa quota. Gli europei si sono illusi di essere i primi della classe e di insegnare a tutto il mondo come si deve fare. Ma nessuno li ha seguiti. In Cina, primo Paese per macchine elettriche e per le rinnovabili, l’anno scorso sono entrate in funzione più di 100 centrali a carbone.

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La UE sul CBAM ha promesso delle modifiche, serviranno almeno ad attenuare l’impatto del provvedimento?

Hanno detto che esenteranno le imprese sotto i 250 addetti, che sono la maggior parte. Però le industrie di base, chimiche, siderurgiche, del vetro sono tutte aziende sopra i 250 dipendenti. L’Europa è in un cul-de-sac e non sa come uscirne, perché non sa come risolvere il problema della competitività dei prodotti. Non solo, c’è un altro gravissimo problema, specie per Paesi come l’Italia, che esporta più del 50% del fatturato dell’industria manifatturiera.

La UE, col CBAM, di fatto ha introdotto dei dazi ambientali e i Paesi che ne saranno colpiti, lo vediamo anche nel grande dibattito scatenato dalle misure di Trump, non staranno a guardare: ci troveremo una serie di economie che sono oggi mercati di sbocco per noi, che reagiranno introducendo dazi a loro volta.

Da cosa è nata tutta questa situazione?

La politica europea non può sconfessare certe decisioni. Il Green Deal non lo ha voluto solo Timmermans: la Von der Leyen era presidente anche della precedente Commissione UE. A questa situazione ci hanno portato l’estremismo ideologico ambientalista alla Timmermans, che coinvolge vasti settori, dai Verdi alla sinistra europea, cui si aggiunge l’estremismo “mercatista” dei Paesi del Nord, che non si preoccupa dell’industria: il capo economista belga dell’ex commissaria UE Vestager ha detto in un’intervista che, se la UE non produrrà più acciaio, lo comprerà in Indonesia. Infine, c’è un altro estremismo, quello della finanza, che ha permesso alle banche d’affari e ai fondi di investimento di trasformare tutto in business, speculando sul mercato dell’ETS.

(Paolo Rossetti)

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