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Bruxelles o Roma, chi decide davvero le sorti della PAC? – Ruminantia – Web Magazine del mondo dei Ruminanti


Girando per le campagne, ma anche leggendo dichiarazioni e comunicati stampa di politici e rappresentanti del nostro settore, capita, non di rado, di percepire, in maniera più o meno esplicita, un malcontento ed una forte attribuzione di responsabilità per tutto ciò che non funziona, all’Unione europea e alle “imposizioni” calate dall’alto con la Politica Agricola Comune.

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Ma questo partenariato economico e politico di 27 Paesi che è l’UE, quanto potere può esercitare realmente all’interno dei singoli territori?

Senza andare lontano, il sito ufficiale della Commissione europea ci fornisce già una risposta, piuttosto esaustiva, quando riporta che “L’UE si fonda sul principio dello Stato di diritto: ogni azione da essa intrapresa si basa su trattati volontariamente e democraticamente sottoscritti da tutti i paesi membri”. E, infatti, la struttura organizzativa stessa è stata concepita in maniera tale che le grandi priorità sono definite dai governi dei Paesi membri attraverso dei vertici periodici, per essere poi discusse da almeno quattro diverse istituzioni. Una volta superati tutti i livelli di approvazione, le decisioni prese, devono essere recepite a livello nazionale. Ed è a questo punto che si gioca la reale partita.

Dunque, la buona notizia, che forse spesso dimentichiamo, è che, sulle linee di intervento stabilite (provenienti comunque dalla base costituente, ovvero dalle proposte degli Stati membri) le modalità attuative sono a discrezione delle singole nazioni, che hanno un ampio margine di manovra. Questa considerazione è emersa anche nell’ambito dell’ultimo convegno “Pastinnova” (QUI tutti i dettagli) durante l’intervento del dr. Michele Nori, sollecitato in merito alle preoccupazioni del mondo pastorale per gli indirizzi che sembra si vogliano dare alla prossima PAC 2028-2032.

Michele Nori è un agronomo tropicale specializzatosi in sociologia rurale presso l’Università di Wageningen, Paesi Bassi, con un’approfondita competenza sulla gestione delle risorse e sui sistemi di sussistenza delle comunità agro-pastorali. Per oltre venticinque anni ha collaborato, in diverse parti del mondo con varie organizzazioni (agenzie delle Nazioni Unite, istituti di ricerca, imprese agricole) e, da circa un anno e mezzo, è all’interno della DG Agri, la Direzione generale dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale della Commissione Europea, che è responsabile dell’attuazione della politica agricola e, unitamente alle altre DG, della politica dello sviluppo rurale.

Proprio per la sua esperienza trasversale, abbiamo ritenuto interessante chiedere al dr. Nori di condividere con noi qualche riflessione su questa tanto dibattuta Politica Agricola Comune, sia nella sua realizzazione attuale che in quella futura.

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Partendo dalla PAC in corso, siamo attualmente al terzo pacchetto di semplificazione (leggi QUI), per quale motivo è stato necessario intervenire più volte in corso d’opera?  

«DG Agri innanzitutto ha dovuto operare in un quadro definito da molte altre DG, come ad esempio DG Sante e DG Clima, probabilmente senza aver condotto a monte un opportuno dibattito integrato; questo ha generato, in alcuni casi, una valutazione dell’impatto poco adeguata, come nel caso della strategia “Farm to fork“, di cui, infatti, non si parla più. C’è da aggiungere che a questa situazione si sono sommate le tensioni geopolitiche e commerciali, come quella del Mercosur, e quindi districarsi in un ambiente così complesso richiedeva necessariamente degli interventi di semplificazione, perché gli scenari sono completamente cambiati rispetto agli anni in cui il documento è stato preparato».

Competitività e sostenibilità sono due concetti presenti nell’attuale PAC ma sembrerebbe che nella futura programmazione si voglia dare un’enfasi decisamente maggiore al primo, è fondato questo dubbio?

«L’agricoltura è il settore più assistito con sussidi pubblici del mondo, e parlare di competitività per questo settore può risultare di difficile comprensione ed intellettualmente poco onesto se circoscriviamo il discorso alla produttività. Ma se il concetto di competitività lo consideriamo, ad esempio, in termini di biodiversità per quelle aree montane come gli Appennini, i Paesi Baltici o i Pirenei, allora diventa più semplice e condivisibile. Dunque si, un maggiore accento sulla competitività ma intesa come il contributo che l’azienda agricola può dare alla comunità su quegli aspetti, definiti “Co-benefits”, che possono essere ambientali, climatici o sociali, e non puramente come produttività».

A proposito di questioni climatiche e ambientali, secondo lei cosa resterà del Green Deal nella prossima PAC?

«Sicuramente negli ultimi mesi la forte attenzione su questi temi è un po’ calata, ma da questo va colto l’insegnamento che le incertezze sono all’ordine del giorno e sono decisamente più forti delle forme di controllo che abbiamo elaborato nei decenni; pertanto, introdurre dei meccanismi troppo rigidi da attuare nei quattro anni successivi spesso è di difficile applicazione perché gli scenari cambiano continuamente. Resta il fatto che il Green Deal ha introdotto e formalizzato dei principi che restano intatti, e verranno semplicemente attuati in maniera più graduale. Non si chiederà a tutti di passare all’agricoltura biologica domani, ma magari di diminuire gradualmente i pesticidi più aggressivi per l’ambiente avvalendosi di quelle risorse, che esistono e sono meno impattanti di altre».

Ritornando per un momento sul concetto di “competitività”: secondo lei non si corre, in tal modo, il rischio di favorire le grandi aziende a scapito delle realtà medio piccole?

«Condivido questo timore. Per me ci sono due parole chiave su cui ritengo sia importante appoggiarsi per la visione futura. La prima è “Territorial”: una visione territoriale appunto dove si incentivi il più possibile l’economia circolare, diminuendo da una parte le importazioni a favore delle produzioni locali e di tutto il resto: cultura, paesaggio, persone, ambiente, servizi ecosistemici. E la seconda è “Targeted”: da intendere però non come il rivolgersi alle aziende più performanti in termini di produttività, ma dando attenzione ai giovani, alle aree marginali e alle piccole aziende familiari. Dunque, sarà importante il ruolo giocato dai singoli Stati membri nel recepire queste indicazioni, perché dare fondi pubblici a chi guadagna già parecchio con il mercato è poco lungimirante, mentre farli arrivare a chi, alla sua attività produttiva, associa una serie di servizi per il territorio è nella logica della politica».

A proposito di recepimento torniamo quindi al discorso iniziale, anche per la prossima programmazione la differenza la faranno le modalità di applicazione a livello di singolo Stato membro?

«Il margine di manovra a livello di Stato membro per utilizzare i soldi provenienti dall’UE secondo le soluzioni più consone per il proprio territorio, esiste ed è reale. Un caso emblematico è rappresentato da come sono state applicate in Francia delle misure agroambientali definite dall’articolo 70, così come la questione “capping” e della “degressività” (riduzione graduale). Questi ultimi sono strumenti aggiuntivi che gli Stati membri possono decidere di utilizzare per ridurre i pagamenti dei beneficiari più grandi – sulla base di economie di scala – ed orientare meglio il sostegno al reddito, aumentando così la redditività e la competitività delle aziende agricole, soprattutto quelle di dimensioni più contenute. La legislazione sulla PAC, infatti, a partire dal 2023 prevede la possibilità per gli Stati membri di applicare riduzioni fino all’85% del sostegno al reddito di base ricevuto da una singola azienda agricola per importi superiori a 60.000 euro (degressività). È inoltre possibile imporre un limite massimo (capping) all’importo ricevuto, fissato a 100.000 euro. Dieci Stati membri o undici Piani PAC includono lo strumento del capping e/o della degressività in diverse varianti, ma l’Italia non è tra questi.

Fonte: Approved 28 CAP Strategic Plans (2023-2027) 

Un altro esempio eclatante degli ultimi tempi è stato, per noi italiani, l’iniziale esclusione degli ovicaprini dai premi previsti dall’Ecoschema 1, appunto rientrata, dopo le opportune trattative tra Ministero e Organizzazioni di categoria. Dunque si, l’applicazione a livello nazionale è ciò che realmente può fare la differenza».

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Per chi volesse approfondire le tematiche legate all’attuazione della PAC 2023-2027, il Consiglio dei Ministri ha pubblicato, proprio in data odierna, un dossier intitolato: “L’attuazione della politica agricola comune” disponibile QUI!



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